Numero1999.

 

Riporto, qui di seguito, una interessantissima dissertazione su un tema di vitale importanza per la democrazia, come quello della rappresentanza democratica, che però, a mio avviso, non so se sia più disatteso dai partiti politici o ignorato e sconosciuto dai cittadini elettori. Giudicate voi, dopo esservi, spero, un po’ sorpresi e non annoiati.

 

L A   R I L E V A N Z A   D E L L E   S C H E D E   B I A N C H E   N E L    C O M P U T O   E L E T T O R A L E :

I L   V A L O R E   D E L   D I S S E N S O.

 

di Ester Tanasso

 

Introduzione.

Scorrendo i risultati elettorali dal 1948 al 2006, si assiste dapprima al timido apparire e poi
sempre più al consolidarsi del voto bianco in Italia. Con un lento ma convinto procedere,
infatti, le schede bianche sono passate dalle poco più di seicentomila del 1948,
espressione del 2,3% dei votanti, ai quattro milioni e mezzo circa del 2001, pari al 12,39%
dei voti scrutinati. Nel 2006, invece, in assoluta controtendenza rispetto ai risultati
sostanzialmente stabili e crescenti delle precedenti tornate elettorali, si è registrato un
crollo di tale dato di circa dieci punti percentuali, curioso al punto da richiedere l’apertura di
un’inchiesta da parte della magistratura.
Il voto bianco, dunque, appare come un fenomeno ormai connaturato alle consultazioni
elettorali che recentemente ha assunto dimensioni sempre più rilevanti: nel 1994, nel 1996
e nel 2001 circa quattro milioni di italiani si sono espressi in tal senso. Per rendere chiaro il
dato, il numero coincide con i voti ricevuti alla Camera, negli anni di riferimento, di volta in
volta da partiti come il PPI, la Lega Nord e Alleanza Nazionale.
Computata in una categoria specifica, la scheda bianca non è però equiparabile al voto
“validamente espresso” e se ne tiene conto solo ai fini statistici della partecipazione
elettorale. Come tale, viene assimilato ai voti nulli e viene letto come fosse un generico
astensionismo, non dissimile dal comportamento di “non voto” di coloro che non vanno a
votare. Di fatto, è un voto che tace.
Anche l’analisi del fenomeno astensionista ha risentito lungamente di questa
omogeneizzazione: “Si suppone che schede bianche, annullate, elettori assenti al voto
siano persone che “volontariamente” chiedono che di loro non si tenga conto”.

——————————————————————————————————————————–
Dati: Ministero dell’Interno – Archivio storico delle elezioni.
Si considerano bianche le schede che, regolarmente munite del bollo e della firma dello scrutatore, non
portano alcuna espressione di suffragio, né segni o tracce di scrittura. Di esse deve essere presa nota nel
verbale oltre che, una volta vidimate e incluse in un’apposita “Busta”, esservi allegate.
“Si parla genericamente di “astenuti” per indicare sia coloro che non si recano alle urne sia coloro che vi si
recano ma che votano scheda bianca od annullano la scheda – terminologia che però è fuorviante, poiché
solo alle schede bianche ed a quelle volontariamente rese nulle può attribuirsi il valore di una presa di
posizione politica consapevole, mentre al non votante va accreditata ordinariamente una radicale incertezza
e/o indifferenza rispetto alle vicende elettorali”: Chimenti C. (1983), Proviamo con la libertà di voto, in Queste
Istituzioni, n.2, pag.19.
——————————————————————————————————————————–

L’astensionismo, infatti, è stato lungamente ricondotto ad un problema di scarsa cultura
civica e di marginalità socio-politica di alcune ristrette fasce della popolazione. Il risultato
di un’alienazione che, quale che fosse il suo modo di esprimersi – non arrivando ad avere
alcuna incidenza sul numero degli eletti – non intaccava né le sfere di potere, né i rapporti
di forza tra i partiti. Senz’altro una sacca critica della democrazia, dunque, ma tutto
sommato innocua e per certi versi comoda: non meritevole, quindi, di vera attenzione.
Non si è potuto però nascondere che, nel tempo, il fenomeno, nel suo incrementarsi, abbia
assunto connotazioni vieppiù politiche: al non voto di chi è incapace di scegliere, si è
aggiunto – e massicciamente – il non voto di chi si rifiuta di scegliere.
La ricerca sociologica più accorta ha potuto, allora, distinguere dall’ astensionismo da
apatia che attribuisce la decisione di non votare a una forma di estraneità e distacco, un
astensionismo di protesta che assume il significato di un atto intenzionale, compiuto da
cittadini consapevoli che, in questo modo, esprimono la loro opinione.
Se non è, quindi, certamente corretto dare una lettura univoca del “partito del non voto”,
occorre, tuttavia, individuare al suo interno ragioni precise, che si concretano in
atteggiamenti diversificati, suscettibili, come tali, di valutazioni differenti. Ed infatti,
tralasciando qui di soffermarsi sulle motivazioni di coloro che non si recano alle urne, di cui
sarebbe azzardato interpretare gli umori, ma che senz’altro delegano ad altri la loro scelta
e, sgombrato il campo dagli errori tecnici che caratterizzano le schede nulle, ben diversa
appare la condotta di chi, di fronte alle proposte dei partiti, non si sente di esprimere la sua
preferenza nei confronti di nessun candidato e, quindi, depone nell’urna una scheda
bianca. E’ difficile qui immaginare che il cittadino “non sappia” decidersi, una volta giunto
al seggio elettorale. Dati, infatti, i costi in termini di tempo (raggiungimento del seggio, a
volte lunghe file) che l’operazione richiede e l’informazione martellante della campagna
elettorale che lo ha accompagnato fino a quel momento, quando l’elettore va a votare,
presumibilmente, è ben convinto di ciò che farà.
Nel lasciare volontariamente in bianco la scheda, esprime quasi sempre la negazione del
proprio consenso, un giudizio consapevole ed intenzionale di rifiuto, una bocciatura in
risposta all’offerta dei partiti ed alle loro strategie. Come tale, la scheda bianca è un
comportamento di voto in senso pieno.


 

Il senso del voto

Ma può essere considerato voto “valido” la scheda bianca? Per rispondere, bisogna
chiedersi quale sia lo scopo della partecipazione elettorale e se, al suo interno, possa
avere ragione di essere la scelta prima della preferenza, l’opinione prima del consenso.
Le elezioni, come emerge dal dato glottologico (eligere: scegliere, electio: scelta), sono
preposte ad una selezione: la nostra complessità sociale, infatti, impone che la nostra
sovranità venga delegata ad un piccolo numero di rappresentanti. L’essenziale della teoria
elezionistica è di assicurare, infatti, nell’effettività e nel tempo, l’obbligo dei governanti di
rispondere responsabilmente ai governati. Ciò non avviene però nei termini del rapporto di
mandato, posto che gli eletti non sono obbligati a conformarsi al volere degli elettori, né da
questi possono essere destituiti. Ma questo non vuol dire che non sono legati da nulla. Pur
se il deputato non è revocabile a discrezione dei suoi rappresentati e non è obbligato a
conformarsi all’incarico ricevuto, egli non è però inamovibile: la temporaneità dell’incarico,
con il periodico ricorso al corpo elettorale, costringe l’eletto ad una sottomissione indiretta
e sostanziale nei suoi confronti e lo inchioda a quella responsabilità verso l’elettorato che
definiamo “politica”.
Con la partecipazione elettorale, allora, si ha che il popolo è esso stesso parte di un
processo di competizione tra attori politici, in cui interviene, dando luogo ad una conta
dalla quale dipende l’esclusione o l’inclusione dei candidati nell’organismo
rappresentativo. Nel momento in cui delega la propria sovranità, in cui sceglie i propri
rappresentanti, il cittadino è realmente sovrano e ciò che conferisce responsabilità e
quindi senso democratico alla dinamica rappresentativa è proprio la prospettiva
competitiva.
In quest’ottica, può avere senso il voto bianco? In effetti, il cittadino che vota in questo
modo non compie un gesto eversivo e fuori dal sistema, al contrario lo ossequia: si reca
alle urne e vota. Ora, inteso come un generico non liquet (non è chiaro), questo gesto non ha alcun
significato, ma se è, come appare, una bocciatura, l’altra possibile faccia di una scelta,
gioverebbe alla competizione e quindi alla democrazia se esso avesse un’efficacia sui
risultati elettorali.
Se le proposte dei partiti, infatti, non consentono di esprimere una preferenza convinta,
perchè deve “chiamarsi fuori” l’elettore e non il candidato?

Se “il voto è una manifestazione di volontà”, ritenere che esso esiste solo quando,
incardinandosi nella rappresentanza fisica, esprime un consenso, non è forse una
diminutio del potere democratico di giudizio degli elettori?
Va osservato infatti, che mentre Governi e Parlamenti sono esposti continuamente, nel
loro operato, a critiche e bocciature, ciò non avviene con riguardo all’attività dei partiti e
delle loro segreterie, nel momento – fondamentale, in democrazia – in cui provvedono,
come oggi accade, alla scelta delle candidature.
In assenza di elezioni primarie previste dall’ordinamento ed anzi, in presenza di liste
bloccate come quelle dell’attuale legge elettorale, manca a monte un contrappeso
democratico alle scelte dei partiti.
Tanto se si intenda la rappresentanza elettorale come somiglianza al corpus dei votanti,
quanto se la si associ al concetto di rispondenza e quindi responsabilità, beninteso
politica, verso gli elettori, ci si accorge che il voto bianco, che pure è un’opinione espressa,
un parere dato, non ha nessuna corrispondenza nei risultati elettorali. Se, infatti, la
partecipazione al voto deve dar luogo ad una rappresentanza, allo stato delle cose, l’intero
corpo elettorale è effettivamente rappresentato dagli eletti? Ed è democratico un
Parlamento che non tiene conto dell’opinione di una buona percentuale di elettori?
Vale la pena, allora, di esaminare l’art. 48 della Costituzione, laddove sancisce che il voto
è “personale ed eguale, libero e segreto”.
Naturalmente, la definizione si pone come il portato storico di una lungo percorso che ha
visto, nell’estensione universale del suffragio, il riconoscimento che ogni individuo fosse
portatore di un voto di pari valore. Tuttavia, è lecito domandarsi se la “previsione
d’uguaglianza sia richiesta non soltanto in partenza ma anche in arrivo”, se cioè i diversi
(o uguali?) comportamenti di voto debbano produrre ugualmente dei risultati.

Dare voce al dissenso.

Ravvisando nella competizione aperta il metodo della rappresentanza, ci sembra che
competizione vera esista solo ammettendo la possibilità di bocciature, che consentano di
interloquire in questo modo con l’operato dei partiti. Senza infatti disconoscerne il ruolo
storico di sintesi e di mediazione delle istanze della società civile, non sfugge come oggi
essi vengano troppo spesso percepiti come un potere avulso e “totalitarista”, quando non
semplici macchine organizzative e di propaganda.
Tirando le fila del nostro ragionamento, dunque, la proposta che ci sentiamo di avanzare
è quella di dare alle schede bianche, in sede di computo elettorale, la stessa rilevanza dei
voti di preferenza e “attribuire” loro un certo numero di seggi, lasciandoli semplicemente
vuoti, con la conseguenza di diminuire il numero degli eletti in proporzione al numero delle
schede bianche.

Proviamo a calare questa iniziativa nella pratica elettorale.
Ad esempio, nell’attuale legge elettorale per la Camera dei Deputati, la ripartizione dei
seggi è effettuata, sulla base di un voto di lista, in ragione proporzionale, con l’eventuale
attribuzione di un premio di maggioranza. Pertanto viene diviso il totale dei voti validi a
livello nazionale per il numero di seggi da attribuire, ottenendo così il quoziente elettorale
nazionale. Si divide poi il risultato elettorale nazionale di ciascuna coalizione di liste o
singola lista per tale quoziente. La parte intera del quoziente così ottenuta rappresenta il
numero di seggi da assegnare a ciascuna coalizione o alla singola lista. I seggi che
rimangono ancora da attribuire sono rispettivamente assegnati alle coalizioni di liste o
singole liste per le quali queste ultime divisioni hanno dato i maggiori resti e, in caso di
parità di resti, a quelle che hanno conseguito la maggiore cifra elettorale nazionale.
Le schede bianche dovrebbero concorrere alla formazione di una propria cifra elettorale,
assimilabile alle altre cifre nazionali di lista, da dividere per il quoziente elettorale
nazionale. Ove tale quoziente fosse maggiore di zero, quello sarebbe il numero dei seggi
da lasciare vuoti. Altrimenti, guardando ai più alti resti, si procederebbe all’assegnazione
dei seggi, lasciandoli vuoti, laddove essi fossero appannaggio della “lista” delle schede
bianche.
Il Senato della Repubblica è eletto invece, come si sa, su base regionale. Anche qui
l’assegnazione dei seggi tra le liste concorrenti è effettuata in ragione proporzionale, con
l’eventuale attribuzione del premio di coalizione regionale. L’ufficio elettorale regionale
procede allora ad una prima attribuzione provvisoria dei seggi alle liste e coalizioni di liste,
in base alla cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna di esse. A tal fine divide il totale
delle cifre elettorali circoscrizionali di tutte le liste per il numero dei seggi da attribuire nella
regione, ottenendo così il quoziente elettorale circoscrizionale, senza tener conto
dell’eventuale parte frazionaria di tale quoziente.

——————————————————————————————————————————-

Si potrebbe prevedere l’espressione positiva del dissenso inserendo sulle schede un riquadro che
contenga formule quali “scheda bianca” o “rifiuto” marcabili con un chiaro segno.

——————————————————————————————————————————–

Divide poi la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna coalizione di liste o singola lista per il quoziente elettorale
circoscrizionale. La parte intera del quoziente così ottenuto rappresenta il numero dei
seggi da assegnare a ciascuna coalizione di liste o alla singola lista. I seggi che
rimangono ancora da attribuire sono rispettivamente assegnati alle coalizioni di liste o
singole liste che hanno ottenuto i maggiori resti e, in caso di parità, a quelle che abbiano
conseguito la maggiore cifra elettorale circoscrizionale.
Anche al Senato si dovrebbe seguire lo stesso meccanismo di calcolo: le schede bianche
dovrebbero formare una cifra elettorale concorrente da dividere poi per il quoziente
elettorale circoscrizionale. Se il risultato fosse un numero intero o, in caso di seggi
inassegnati, il più alto resto, si otterrebbe l’effetto di diminuire il numero dei Senatori nelle
regioni ove fosse maggiore il voto di protesta.
E’ interessante a questo punto notare cosa avverrebbe in altro tipo di sistema elettorale,
come quello del maggioritario con doppio turno introdotto per l’elezione diretta dei sindaci.
Esso si applica nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e secondo la
regola della maggioranza semplice o assoluta è dichiarato vincitore chi riceve al primo
turno il 50%+1 delle preferenze espresse. Nel caso di due soli candidati vince chi dei due
ottiene più voti. Se i candidati sono più di due, le eventuali situazioni di stallo in cui
nessuno riceve i voti richiesti vengono risolte col secondo turno di votazione, al quale sono
ammessi solo i due candidati che hanno ottenuto più voti al primo turno.
Cosa accadrebbe in questo caso se le schede bianche avessero valore?
Come si sa, oltre al referendum, è questo l’unico caso in cui l’astensionismo ha incidenza
sulla consultazione elettorale. Nelle elezioni comunali, infatti, laddove vi sia stata un’unica
candidatura a sindaco ed i votanti non raggiungano la soglia del 50% degli aventi diritto al
voto, l’ente viene commissariato ed indette nuove consultazioni. Ciò induce talvolta il
candidato unico a porre in essere una seconda candidatura tecnica, proprio per
scongiurare il rischio di nullità delle elezioni.

Nel referendum abrogativo di leggi ordinarie statali, l’art.75 c.4 della Costituzione impone che i votanti
siano pari ad almeno il 50% più uno degli aventi diritto.

Paradossalmente, invece, in presenza di due candidati, con le relative liste di consiglieri,
anche se un solo elettore si recasse alle urne, avremmo un sindaco e un consiglio
comunale validamente eletti. Cosa certo non molto rassicurante per la democrazia.
Immaginiamo invece che i cittadini possano efficacemente votare scheda bianca in
presenza di due candidati non graditi. Certamente anche in questo caso al secondo turno
accederebbero i due candidati più votati, anche se le schede bianche risultassero
maggioritarie. Tuttavia, con riferimento all’elezione dei consiglieri, non si vede perché la
cifra elettorale delle schede bianche non debba concorrere con quelle delle altre liste. La
cifra elettorale di ciascuna lista o gruppo di liste collegate, infatti, viene divisa per 1,2,3,4,
sino a concorrenza del numero dei consiglieri da eleggere. Si scelgono quindi, fra i
quozienti così ottenuti, i più alti, in numero eguale a quello dei consiglieri da eleggere,
disponendoli in una graduatoria decrescente. Posto che ciascuna lista avrà tanti
rappresentanti quanti sono i quozienti ad essa appartenenti compresi nella graduatoria, la
cifra elettorale delle schede bianche diminuirà in misura corrispondente al proprio
quoziente il numero dei consiglieri eletti.

Conclusioni.

Naturalmente, si obietterà che esigenze di governabilità suggeriscono di non tenere conto
di proposte, come questa, “corrosive” delle compagini governative. Bisogna però chiedersi
quanto queste siano legittimate ad esercitare il loro potere, quando risultino espressione di
percentuali fortemente minoritarie di cittadini. Ove si consideri, poi, che i seggi vengono
assegnati sulla base della popolazione residente, in certe zone in cui l’astensionismo è
ormai una componente costante e consistente del comportamento di voto, i seggi
finiscono per “costare”, in termini di voti validi, assai meno di quanto non accade in quelle
con forte partecipazione. E questo è un paradosso pericoloso per la democrazia.
Sarebbe invece opportuno, riteniamo, dare voce al dissenso e recuperare in questo modo
il più ampio numero di cittadini alla partecipazione attiva, quanto mai necessaria in un
mondo che dovrebbe aspirare all’inclusione di ciascuno nel gioco democratico.
Inoltre, sarebbe un monito forte ed efficace ad una politica dei migliori, senza dimenticare
il non trascurabile vantaggio per le pubbliche casse, prodotto, automaticamente e
democraticamente, da un minor numero di eletti.
Ora, nella prospettazione riguardante l’elezione dei sindaci, va ricordato che l’art.37 del
d.lgs. 267/2000 stabilisce il numero dei componenti il consiglio comunale a seconda della
popolazione dei vari comuni. Accogliendo la nostra proposta, si potrebbe prevedere, con
semplice modifica legislativa, che tale numero dato venga ridotto nella misura del
quoziente ottenuto dalle schede bianche.

Più temibilmente, invece, si pone il problema della compatibilità costituzionale di questa
ipotesi con gli art. 56 e 57 della Costituzione, i quali fissano a 630 e 315 i membri di
Camera e Senato.
Va tuttavia rilevato che, già nella scorsa legislatura, le cosiddette “liste civetta” hanno
avuto l’esito di lasciare alcuni seggi inassegnati, senza che – questo almeno – facesse
gridare nessuno allo scandalo. Paradossalmente, anzi, previsioni di questo tipo,
potrebbero essere un contrappunto proprio ai meccanismi più criticati dell’attuale legge
elettorale. Laddove si rendesse necessario, si dovrebbe tentare la modifica costituzionale,
prevedendo che il numero “dei seggi” dei Deputati e Senatori elettivi sia rispettivamente di
630 e 315., contemplando la possibilità che, per volontà dell’elettorato, alcuni restino
vuoti. Ma questi sono dilemmi che volentieri lasciamo a chi, nell’auspicata costruzione
della nuova legge elettorale, si vorrà cimentare.

Lascia un commento

Lascia un commento