Numero2070.

 

Mi manda una cara amica:

 

SCHEI  A  VENESSIA.

 

Schèi è un termine veneto con il quale viene indicato in generale il denaro.

La probabile etimologia del termine è piuttosto singolare. Ai tempi del regno Lombardo-Veneto (1815-1866), quando il Veneto si trovava sotto l’egemonia austriaca, erano in circolazione alcune monete su cui era riportata la scritta scheide münze, cioè “moneta spicciola”. Questa veniva pronunciata popolarmente come schei, leggendo come in italiano la parola (la vera pronuncia in tedesco sarebbe “sciaide münze”), da cui poi derivò anche il singolare scheo per indicare la singola moneta.

Il termine è sopravvissuto sino all’epoca contemporanea. Il singolare, inoltre, indica per estensione qualcosa di piccole dimensioni, analogo all’italiano “soldo di cacio” (picoło fa un scheo, “piccolo come un soldo di cacio”), o anche una breve lunghezza, come un centimetro (spòsteło de vinti schei, “spostalo di 20 cm”). Si usa il gergale esar sensa schei per l'”essere senza soldi”, mentre averghe quatro schei (avere “quattro soldi” – cioè non averne – in italiano) nel Veneto significa, con un eufemismo ed in senso ironico, averne molti.

La parola franco è stata usata per indicare una somma di denaro, associata più alle vecchie lire che all’euro, ma ancora in uso. Per cui trenta franchi erano trenta lire; ‘na carta da mìłe (franchi) era una banconota da mille lire, ma rimane che averghe un franco significa ancora oggi “avere dei soldi”. Il termine deriva da un’altra moneta austriaca, che riportava l’abbreviazione Franc., indicante il nome dell’imperatore Francesco Giuseppe.

 

N.d.R.   Durante la dominazione austriaca a Venezia, la moneta corrente era la Krone (corona), i cui spiccioli erano i Pfenning.: sul bordo circolare del Pfenning, c’era la scritta SCHEIDE MÜNZE. Se consultate un vocabolario tedesco, trovate il verbo scheiden che significa “separare, dividere” ad indicare che la Krone era divisa in Pfenning. Ma trovate anche scheide che significa fodero e, in anatomia, vagina. Mentre münze significa moneta.
Ho il sospetto che sia questa la vera spiegazione del detto popolare, veneziano e veneto, “5 schei de mona”.
In Veneto, la mona è, gergalmente, l’organo sessuale femminile; il mona è invece l’equivalente di sciocco, stupido.
La mona (sheide) non avrebbe niente a che fare con la moneta (münze), come invece sostiene qualcuno, mentre si tratterebbe di una traduzione in dialetto Veneto del significato del termine scheide. Infatti le due parole sono distinte nella medesima locuzione.
La legge austriaca, all’epoca, imponeva che chi avesse in tasca meno di 5 scheidemünzen, venisse arrestato per vagabondaggio. Ecco allora che nacque un famoso modo di dire Veneziano: “Ghe vol sempre 5 schei de mona in scarsea” ( Ci vogliono sempre 5 schei de mona (scheidemünze) in tasca), per non essere arrestati. Ma mi chiedo: non sarebbe più azzeccato, nel contesto specifico, dire: 5 schei del mona = 5 soldi dello sciocco? Un bel pasticcio! Qui pro quo!
La frase è ancora oggi usatissima, per indicare che, quando necessario, per evitare problemi, è meglio, tutto sommato, passare un po’ per stupidi, che in Veneziano si dice “Pasar un fià par mona”. Oppure, magari, in una importante trattativa, conviene, a volte, fingere di non capire, quale espediente strategico, per ottenere invece il risultato sperato. Ecco perché, nella vita, “ghe vol sempre 5 schei de mona in scarsea”.

Numero2068.

 

Dopo aver ascoltato, su YOUTUBE, una bella canzone della mia gioventù, leggo, fra i tanti dello stesso tenore, un commento rilasciato da un utente:
“….che tempi! Non avevamo niente e avevamo tutto. Oggi i giovani hanno tutto ma, poverini, non hanno niente!”

Numero2067.

 

 

P I A C E R E   E D   E V O L U Z I O N E      Le endorfine, motore della civiltà e del progresso.

 

C’è poco da meravigliarsi e, ancor meno, da fare. È sempre più evidente, alla luce dei recenti studi e delle conoscenze acquisite, che l’animale uomo ha un codice genetico prescritto, nel senso che è scritto prima: fin dalla nascita di un individuo umano, saremmo in grado di conoscere praticamente tutto il suo percorso esistenziale, le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, addirittura la data della sua morte.
Siamo davanti ad un determinismo quasi tragicomico, che ci potrebbe indurre nella banale e, al tempo stesso, ridicola considerazione: ma che diavolo siamo venuti a fare in questo mondo?

Se tutto è già stabilito, se nulla ci è dato da sviluppare, da modificare, da migliorare rispetto a quanto previsto dall’algoritmo della vita, pur personalizzata e specificata, che siamo destinati ad attraversare, qual è il nostro compito di viventi mortali?
Non mi pare una domanda stupida.
Ebbene, nel pormi tale quesito, adesso che della mia vita sono verso la fine, mi si è aperto davanti uno scenario di meditazione e di riflessione che mi ha incuriosito e solleticato. E che vado a sviscerare, con tutte le cautele del caso, data l’importanza cruciale del tema.

L’analisi sommaria della storia umana ci dice, tuttavia, che, nello scorrere di decine di millenni, passi avanti se ne sono fatti, dalle condizioni primordiali di uomini delle caverne agli agi e disagi di oggi. Sì, anche disagi, e molti. C’è chi pensa che l’evoluzione dell’umanità verso condizioni di civiltà, di sicurezza, di maggior benessere sia addirittura su una china rapidamente decrescente, a causa degli usi ed abusi che l’uomo sta facendo del patrimonio naturale che aveva come dotazione di partenza.
Ma, tutto considerato, il miglioramento verso condizioni di vita molto più accettabili e godibili è un dato di fatto.
La domanda che mi pongo è questa: cosa ha spinto l’uomo a cercare, trovare e consolidare un livello di esistenza, nel vivere civile, individuale e sociale, sempre più elevato, evoluto, proteso verso la soddisfazione dei propri bisogni materiali e sogni spirituali e mentali? Insomma, qual è la molla che ha spinto l’uomo verso il progresso personale e collettivo, nel corso dei millenni, a dispetto del fatto che tutto sarebbe bloccato, già stabilito, predestinato, a partire dalla fase finale del suo percorso, cioè la morte?
La risposta, secondo la mia opinione, sta nella ostinata, pervicace, quasi maniacale ricerca del piacere.
Nel quotidiano esercizio biologico, l’essere umano ha sviluppato, all’interno dei suoi meandri cerebrali, il modo di secernere stimolanti ormonali, di implementare neurorecettori, neurotrasmettitori, impulsi elettrici pulsionali per concepire e realizzare le condizioni per vivere più felicemente.
Consapevole della limitatezza temporale della propria esistenza, ha istintivamente, ma naturalmente, concepito e coltivato il sogno e il bisogno di vivere meglio. E questo è avvenuto, e sta ancora in larga parte avvenendo, in maniera endogena, ovvero attingendo a supporti da lui stesso prodotti, dentro il corpo in dotazione.

La produzione di dopamina, di serotonina, di noradrenalina e di altre endorfine, è la chiave del progresso umano e della sua evoluzione. Sono tutte sostanze che l’uomo secerne dalle proprie ghiandole e da altri sistemi e organi predisposti e che fluiscono, attraverso il sistema sanguigno, fino a raggiungere ogni punto, pur periferico, del corpo: portano un aumento delle sensazioni di piacere e di benessere, oppure un’attenuazione delle sensazioni di dolore e di stress.
Il meccanismo di questa funzione è descritto nelle informazioni tecnico scientifiche che seguono e che invito il lettore a non trascurare, per la miglior comprensione di quanto vado esponendo.
A me rimane ancora di fare qualche altra considerazione sull’argomento. Non sempre l’uomo ha avuto il tempo e il modo di cercare la propria felicità fisica e psicologica attraverso le capacità endogene di secernere endorfine: spesso, anzi, è ricorso a delle scorciatoie molto pericolose, la cui frequentazione ed adozione comportano sempre un corrispettivo, in termini di salute complessiva, oltremodo devastante: le droghe.
Per sopperire alla propria inettitudine o malessere o disadattamento, magari solo per curiosità o per sfida o per vizio, per procurarsi i brividi di sensazioni esaltanti di benessere di poche ore o di pochi minuti, un uomo ricorre a questo surrogato di felicità perché non è in grado di organizzare autonomamente il ricorso alle sue droghe naturali che non danno mai assuefazione ma che danno sempre soddisfazione, quelle che produce in proprio: le endorfine, il “fai da te” del benessere.

Ma, tornando all’argomento di partenza, vorrei anche fare una considerazione di carattere generale sull’uomo, sulla sua storia, sul suo rapporto con il piacere e il benessere, e sui condizionamenti sociali che nei millenni sono stati messi in atto per limitare, scoraggiare, tarpare la propensione dell’uomo verso la felicità.
Il concetto formatore ed informatore delle religioni, sto pensando alle tre grandi religioni monoteiste, nei secoli passati ed anche oggi, non è mai stato a favore della felicità dell’uomo, così come la intendo e descrivo qui sopra.
L’uomo è mortale, l’uomo è peccatore, anzi,” il peccato originale” è quello di essere nato: è una tara che si porta appresso tutta la vita. Questa vita deve spenderla per espiare tale condizione, ricorrendo a rinunce, osservando rituali, obbedendo a frustrazioni innaturali che gli impediscono di perseguire la propria ricerca del benessere.
Tale stato di costrizione e di castrazione è salvaguardato da un complesso di norme etiche concepite da uomini per gli uomini, nel nome di un Dio.  E ogni religione ci mette il suo.
È la natura che spinge l’uomo verso il benessere, cercando e realizzando il piacere: le religioni lo condannano.

In termini di evoluzione, mi sento di indicare un esempio storico che attiene alle espressioni figurative artistiche nell’arco dei secoli. Prendete, ad esempio, l’arte figurativa della Grecia antica, dai bronzi di Riace alle statue marmoree della bellezza classica, che ci sono rimaste, nei musei di tutto il mondo occidentale. Dal punto di vista figurativo, cioè intendendo solo la riproduzione della realtà, che era tanto più apprezzata quanto più somigliante al vero, erano artisticamente inarrivabili. Tant’è che il Rinascimento, nostro ed europeo, con uno scatto e riscatto, con una svolta epocale, aveva fatto riferimento a questi canoni di perfezione stilistica per dare al mondo le opere d’arte che conosciamo. Come pure gli affreschi pompeiani che possiamo ammirare ancora oggi sulle pareti delle ville meglio conservate della città vesuviana: erano riproduzioni di personaggi della mitologia o della vita reale o del mondo naturale con caratteri figurativi esteticamente molto belli e raffinati. E il mondo greco e romano aveva un concetto della vita privata molto liberale, per non dire libertino: la ricerca del piacere era una cosa naturale e questo traspariva anche nelle raffigurazioni senza tabù e senza censure di cui si circondavano.
Prendete, invece, le statue e i dipinti di più di mille anni dopo, le produzioni artistiche, che io chiamerei piuttosto artigianali, del Medioevo, periodo nel quale la cappa di piombo della religione Cristiana, in Europa, aveva soffocato e represso ogni slancio artistico verso il bello, fosse anche di soggetto religioso. Confrontate le rappresentazioni, che sono della stessa natura figurativa, cioè tentativi di riprodurre il reale, e vi accorgerete, a ragion veduta, che le figure della classicità greco-romana sono infinitamente più belle, dal solo punto di vista figurativo, di quella medioevali. Questo per dire che, storicamente, si era verificato un regresso delle sensibilità e delle capacità artistiche di rappresentazione indotto dall’oscurantismo delle autorità religiose Cristiane, che avevano in odio il sillogismo greco “kalòs kai agathòs” (il bello è buono), che aveva etichettato i pensieri e le opere del mondo classico aperto, anzi spalancato, a quelle che si chiamavano le “arti liberali”.
Le espiazioni, le penitenze, i castighi  e le pene per i peccati commessi, non avevano bisogno di essere rappresentati in maniera elegante e ben eseguita: bastava la stucchevole approssimazione e la banalità becera dell’artigiano poco erudito, invece che  la raffinatezza dell’artista acculturato e sensibile. Non avevano miglior sorte Santi, Martiri, Madonne e Cristi in croce raffigurati da artigiani senza cultura e buon gusto estetico, sotto i dettami delle commesse clericali. Per quanto riguarda le rappresentazioni “artistiche”, comprese quelle religiose, uno scadimento generale dal punto di vista qualitativo è la costante identificativa del Medioevo Cristiano in Europa.

La ricerca del piacere , nel Medioevo, era un peccato da consumare ipocritamente di nascosto.
Mentre invece, lenire il dolore e dare sollievo alla sofferenza erano una pratica che cadeva sotto la vigile gestione del clero, secondo una filosofia che non ho mai capito né condiviso, perché innaturale e disumana. Il fatto che, secondo la religione Cristiana, Gesù si era sacrificato per noi sulla croce, fra atroci sofferenze, sembra abbia conferito agli addetti ai lavori (rappresentanti religiosi a tutti i livelli, compresi quelli di bassa manovalanza) il compito e il diritto di ridistribuire le Cristiane sofferenze corporali ai  fedeli, con un accanimento antiterapeutico incredibile e una libidine sadica inaudita.
Non parlo, certamente, della Santa Inquisizione che ha inflitto pene e torture efferate a ipotetici indiavolati od eretici, ma parlo di una consuetudine inveterata e in vigore fino ad una cinquantina di anni fa, che io ho visto e aborrito: la funzione infermieristica e assistenziale, in nome della carità Cristiana, negli ospedali, nei luoghi di cura, negli ospizi era affidata a solerti suorine che, oltre a dare effettivamente aiuto nella gestione degli infermi, quando uno di questi si trovava in condizioni di insopportabile sofferenza ed era in preda a dolori lancinanti, persino in punto di morte, anziché dargli  sollievo per mezzo di analgesici e quant’altro, che pure esistevano, si limitava a ficcargli un fazzoletto in bocca e a mettergli un rosario nelle mani. In nome dell’espiazione dei peccati che aveva commesso e a similitudine dei patimenti dell’icona Cristiana di Gesù crocifisso. Adesso le cose sono cambiate, ma si tratta dello stesso taglio mentale di coloro che, a tutt’oggi, si oppongono all’eutanasia. Un buon Cristiano deve soffrire fino alla morte.
La religione Cristiana, molto più di tutte le altre, non è favorevole al piacere, perché ha fatto della sofferenza un paradigma comportamentale di redenzione e di sublimazione. Il Cristianesimo è la religione del dolore.
Alcune religioni, come l’Induismo (che conta quasi un miliardo di fedeli), sono invece cassa di risonanza per il godimento dei piaceri fisici (vedi il Kamasutra) e non considerano peccaminoso niente che riguardi, ad esempio, la sfera sessuale.
In generale, tuttavia, le religioni monoteiste (Cristianesimo, Islam, Ebraismo) non sono amiche del piacere.

Ma, il piacere l’uomo lo concepisce e lo produce in proprio: per godere di uno stato di benessere non serve ostentarlo o dimostrarlo agli altri, magari arrecando disturbo, basta provarlo dentro di sé, perché dentro di sé, autonomamente, sono prodotte le sostanze neurochimiche che possono provocarlo.
Perché le religioni devono controllare la mia intimità, la mia privacy, la mia sfera privata?
È forse questo ragionamento un atto di superbia di chi non si vuole chinare alle autorità di controllo della persona e della personalità?
Qualcuno la chiami superbia, o insubordinazione, io la chiamo libertà.

 

N.d.R.  Quello che sotto riporto è un articolo de IL FATTO QUOTIDIANO in data 29 Settembre 2020, pubblicato 3 giorni dopo la mia stesura del Numero2067.
L’articolista è Marco Marzano, Professore Ordinario di Sociologia all’Università di Bergamo.

 

Fine vita, nel duro documento vaticano noto due cose. La prima: nessuna conoscenza della realtà

 

Nei giorni del caso Becciu che tanto appassiona i vaticanisti di ogni parrocchia è passata quasi sotto silenzio la pubblicazione, da parte della Congregazione della Dottrina della Fede, di un lungo documento sull’eutanasia e il fine vita. Il testo è importante e solenne e fa ancora una volta chiarezza sull’impianto culturale e politico che contraddistingue gli interventi ufficiali delle autorità cattoliche.

Due elementi mi hanno colpito più degli altri nella durissima requisitoria antieutanasica redatta dall’organismo guidato dal potente cardinal Luis Francisco Ladaria, uomo di fiducia di Francesco che lo ha nominato prefetto della congregazione in sostituzione del tedesco Muller.

Il primo elemento è metodologico e consiste nella totale assenza di una seria analisi empirica. Gli estensori del documento affrontano temi enormi come le cure palliative, l’accanimento terapeutico, il suicidio assistito senza mostrare nessuna traccia di conoscenza della realtà, senza nessuna reale competenza. E’ infatti altamente improbabile che qualcuno tra le migliaia di operatori sanitari che ogni giorno affrontano la fine della vita altrui sia mai stato interpellato per redigere il documento.

Se questo fosse avvenuto, non solo sarebbero confluiti nel testo la complessità, le ambiguità, i paradossi, le mille sfumature che caratterizzano la drammatica realtà della fine della vita nel nostro tempo, ma sarebbero state evitate affermazioni puramente impressionistiche e di senso comune, del tutto prive di un solido fondamento, come quella secondo la quale solo la fede religiosa nell’esistenza dell’aldilà riduce la paura della morte. E se invece fosse vero il contrario? Se il timore dell’imminente giudizio di Dio aumentasse in modo formidabile l’angoscia di chi muore? In assenza di affidabili dati empirici è impossibile stabilire quale sia la verità e quindi se muoiano più serenamente i credenti o i non credenti. E questo è solo un esempio tra i tanti.

Il fatto è che nella Samaritanus Bonus le citazioni sono solo quelle dei pontefici e dei documenti vaticani e che il testo consiste esclusivamente di prescrizioni, obblighi e ricette tutti ricavati da un impianto dottrinale astratto e povero, immutato nel tempo e applicato meccanicamente ad una specifica realtà sociale. Per questa ragione, per il suo carattere integralmente dogmatico e ideologico, esso convince solo chi è già convinto, risultando del tutto inutile per chi deve confrontarsi con la realtà del morire, per il personale sanitario, per le famiglie dei morenti, per gli psicologi e persino per gli stessi sacerdoti impegnati nell’attività pastorale negli ospedali e negli hospices.

Il secondo elemento che mi ha colpito è la negazione alla radice di qualsiasi forma di riconoscimento dell’autonomia e della libertà dei soggetti. Si legge nel documento che “sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà”. In altre parole, secondo gli autori del documento, quando chiede di porre termine alla sua vita, un individuo pretende di esercitare un diritto che non possiede. E’ un motivo analogo a quello che porta a negare la legittimità di richiedere un aborto o di usare degli anticoncezionali, di divorziare o di congiungersi a una persona dello stesso sesso. La voce di chi pretende di negare la legge di Dio, secondo la gerarchia cattolica, non solo non va ascoltata perché nasce da un’errata e distorta interpretazione della propria libertà, ma va messa fuori legge, va considerata empia e criminale. Ed empie e criminali devono essere giudicate quelle legislazioni che la consentono. In questo modo di procedere non rileva il fatto che, nelle nostre società, esistano tanti individui che all’esistenza di Dio non credono o che ritengono che quella annunciata dalla Chiesa Cattolica non sia la sua legge autentica.

Quello sullo sfondo del documento, e quello dell’intera dottrina morale cattolica, si conferma, in barba a tutte le promesse di rinnovamento, un orizzonte squisitamente teocratico, nel quale la legge divina deve travasarsi sic et simpliciter nella legislazione dello stato, informandola di sé e impedendo ogni pluralismo di valori, sbarrando la porta ad ogni dialogo con chi la pensa in modo diverso.

Viene da chiedersi cosa rimanga della tanto sbandierata “rivoluzione della misericordia” annunciata dai supporters di Francesco come segno distintivo e qualificante del pontificato argentino. A me sembra, al contrario, che anche qui, come su altri terreni (il celibato ecclesiastico, la presenza femminile, il ruolo della curia, eccetera) i duecento anni di ritardo della Chiesa rispetto al mondo moderno lamentati a suo tempo dal cardinal Martini si notino tutti, non uno di meno.

 

N.d.R.   Aggiorno l’argomento pubblicando un articolo del giornalista Carlo Troilo , in data 3 Ottobre 2020, su IL FATTO QUOTIDIANO.

 

Fine vita, il Vaticano potrebbe ostacolare ancora la discussione in Parlamento: l’ennesima intromissione

 

Nel cuore dell’estate – il 14 luglio – Papa Bergoglio ha approvato una “lettera” della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla eutanasia, dal titolo Samaritanus Bonus: un documento molto ampio, in cui l’eutanasia è condannata senza eccezioni né attenuanti come un atto di crudeltà, con toni che definirei brutali.

Proprio perché nella “lettera” non vi è nulla che non sia stato detto e ripetuto infinite volte dal Papa e dalle alte gerarchie ecclesiastiche, colpisce questa uscita a freddo. E legittima il sospetto che il Vaticano si prepari ad ostacolare ancora una volta l’avvio della discussione in Parlamento della legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione della eutanasia, presentata dalla Associazione Luca Coscioni il 13 settembre del 2017 (dunque, da più di tre anni) con 76mila firme di cittadini/elettori, che nel frattempo sono diventate 136mila.

Probabilmente, preoccupa il Vaticano anche il fatto che per iniziativa della Associazione si è costituito un “Intergruppo Eutanasia”, cui si sono già iscritti 72 parlamentari, fra deputati e senatori. Per non dire del continuo aumento degli italiani favorevoli alla eutanasia e/o al suicidio assistito: il dato più recente è quello fornito da uno studio dell’Eurispes sui temi etici, da cui risulta che gli italiani favorevoli alla eutanasia sono il 75,2% (erano il 55,2% nel 2015). Ed è importante notare che questo orientamento degli italiani è comune anche alle regioni più caratterizzate da un orientamento politico di destra e da una forte tradizione cattolica: ne è prova l’indagine annuale dell’Osservatorio del Nord Ovest pubblicata dal Gazzettino.

Fortunatamente, l’ascendente della Chiesa sugli italiani è sempre meno rilevante. Franco Garelli, che insieme ad altri sociologi ha curato una voluminosa indagine per la conferenza episcopale, prova a delimitare l’area di quanti possano dirsi veramente cattolici nell’Italia di oggi. “I credenti militanti – spiega – coloro che fanno parte di gruppi, associazioni, movimenti e danno grande rilevanza all’esperienza comunitaria della fede sono circa un 10 per cento. I praticanti assidui, che però non avvertono l’esigenza di una vita religiosa collettiva e di una visibilità, sono un altro 15-20 per cento. Sommando entrambi i gruppi si arriva ad un 30 per cento di credenti regolari”.

In un articolato e duro commento alla Samaritanus bonus, il dottor Mario Riccio – il medico che aiutò a morire Piergiorgio Welby, dirigente della Associazione Coscioni – rileva che il documento vaticano arriva due settimane dopo l’annuncio del deputato del M5S Giorgio Trizzino, medico palliativista, che ha confermato la calendarizzazione del ddl entro ottobre, dopo due anni di audizioni. E Riccio esprime con forza la sua indignazione per il fatto che il Vaticano – come ai tempi dei primi aborti – torni a trattare i medici favorevoli alla eutanasia come “sicari”, ignorando una serie di fenomeni che si possono così sintetizzare:

1. Le leggi che in molti paesi del mondo – comprese due importanti comunità autonomiche della cattolicissima Spagna – hanno legalizzato l’eutanasia;

2. Lo sdegno della maggioranza degli italiani per la durezza della Chiesa in vicende (Welby, Englaro, Dj Fabo), che hanno profondamente commosso l’opinione pubblica del nostro paese;

3. Le assoluzioni di Marco Cappato nel caso del Dj Fabo e di Cappato e Welby nel caso Trentini;

4. La sentenza della Corte Costituzionale legata alla vicenda di Fabiano Antoniani, fortemente innovativa in materia di eutanasia.

Dunque, siamo di fronte ad un ennesimo episodio di intromissione della Chiesa nelle vicende politiche italiane, che purtroppo trova una sponda nell’elevato numero di parlamentari “teodem”, o comunque attenti a non contrastare apertamente queste intrusioni per il timore di perdere simpatie (e voti) fra l’elettorato cattolico.

Forse è il caso di ricordare che la Chiesa – che quando si parla di eutanasia invoca la sacralità della vita – fu l’ultimo degli Stati italiani, prima dell’Unità, ad avere nel proprio ordinamento la pena di morte. L’ultimo giustiziato fu Agabito Bellomo, un brigante condannato per omicidio e ghigliottinato a Palestrina il 9 luglio 1870, due mesi prima della conquista di Roma da parte delle truppe sabaude. E solo nel 2001 la pena capitale è stata formalmente abolita per iniziativa di Papa Giovanni XXIII (in Italia era stata abolita nel 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione). Per non parlare della Inquisizione e delle sue torture.

 

N.d.R. Quello che segue è un “copia e incolla” di informative che si trovano sul WEB, da me selezionate.
Non meravigliatevi di qualche ripetizione.
Segnalo, inoltre, agli interessati che molte notizie utili si possono trovare sotto il TAG “Cervello”.

 

Le endorfine sono un gruppo di sostanze chimiche prodotte dal cervello, nel lobo anteriore dell’ipofisi, classificabili come neurotrasmettitori. Dotate di una struttura peptidica e di proprietà analgesiche e fisiologiche simili a quelle della morfina e dell’oppio, presentano tuttavia una portata ben più ampia rispetto a queste ultime.

Caratteristiche

Quando un impulso nervoso raggiunge la colonna vertebrale, le endorfine vengono rilasciate in modo da prevenire un ulteriore rilascio di questi segnali. Sono presenti nei tessuti degli animali superiori e vengono rilasciate in particolari condizioni e in occasione di particolari attività fisiche estenuanti: atleti di livello avanzato, ad esempio, diventano “dipendenti” dall’allenamento intenso proprio perché causa un grande rilascio di endorfine. Anche una forte emozione rilascia endorfine, così come l’ingestione di certi cibi, ad esempio la cioccolata e in generale alimenti dolci o comunque ricchi di carboidrati ma anche lo strofinamento prolungato sulla pelle, come avviene durante il massaggio, permette una grande produzione di endorfine.

Numerose ricerche si stanno ancora effettuando in proposito, ma è opinione comune che le endorfine svolgano un’azione di coordinazione e controllo delle attività nervose superiori, tanto da poter essere eventualmente correlate con l’instaurarsi di espressioni patologiche del comportamento nel caso in cui il loro rilascio divenisse incontrollato.

Come anche numerosi alcaloidi di derivazione morfinica, le endorfine sono in grado di procurare uno stato di euforia (specie se unite all’adrenalina, che è un ormone secreto dalle ghiandole surrenali della categoria delle catecolammine) o di sonnolenza più o meno intenso a seconda della quantità rilasciata; questi stessi effetti si possono riscontrare anche durante l’orgasmo, da cui deriva la tipica condizione fisica correlata. Le endorfine diminuiscono anche la fatica e il dolore cronico e non troppo acuto.

L’espressione Endorphin rush (letteralmente “scarica di endorfina”) si usa per indicare una sensazione di stanchezza dovuta al dolore, specie acuto, o un’altra forma di stress. Studi collegano forme di autolesionismo e di masochismo fisico (algolagnia) al piacere derivato dal rilascio di endorfine.

Runner’s high

Con l’espressione Runner’s high (letteralmente “sballo del corridore”) si intende la sensazione di euforia, simile a quella derivante dall’assunzione di certe sostanze stupefacenti, riscontrata da molti atleti durante la pratica sportiva prolungata.

Prima che fossero compiute ricerche mirate al riguardo, questa condizione era per lo più attribuita a cause psicologiche invece che a una causa neurochimica: infatti alcune ricerche risalenti al 2008 hanno provato la dipendenza di questa sensazione euforica dal rilascio di endorfine da parte dell’ipofisi durante l’esercizio fisico di una certa durata, che varia da soggetto a soggetto ma in genere non è mai inferiore ai trenta minuti consecutivi.

Essendo necessario uno sforzo prolungato, il runner’s high è molto più frequente in atleti specializzati nelle attività aerobiche come la maratona, da cui il nome, o il ciclismo.

 

La produzione di endorfine nel nostro organismo può dar luogo ad una piacevole sensazione di benessere. Le endorfine inoltre aiutano ad alleviare il dolore. Queste sostanze fanno parte di antichi meccanismi di sopravvivenza, che ci hanno permesso di continuare a lottare anche quando siamo sotto stress.

Cosa sono le endorfine? Le endorfine sono delle sostanze prodotte dal cervello nel lobo anteriore dell’ipofisi. Vengono classificate come neurotrasmettitori. Hanno proprietà analgesiche che le rendono più potenti persino della morfina. Del resto il termine endorfine significa “morfine endogene”, cioè morfine prodotte dal nostro organismo. Una forte emozione o un allenamento intenso possono provocare il rilascio di endorfine.

Le endorfine ci aiutano anche a recuperare dopo un infortunio. La produzione può essere influenzata da diversi fattori, ad esempio da odori e profumi piacevoli. Sono davvero molti i modi per stimolare la produzione di endorfine nel nostro organismo in modo naturale. Ve ne suggeriamo dieci.

Indice

Allenarsi e praticare sport

L’attività fisica aiuta l’organismo a rilasciare endorfine. La sensazione di benessere provata dagli sportivi durante gli allenamenti per qualche tempo era stata correlata a motivazioni psicologiche, ma in seguito la scienza si è resa conto che il rilascio di endorfine associato ad un allenamento (di almeno trenta minuti) ha cause neurochimiche. Il fenomeno del “runner’s high”, una vera e propria euforia da sport e da corsa, è più frequente nei ciclisti e nei maratoneti perché la loro attività fisica è molto prolungata. Ma chiunque abbia mai praticato uno sport conosce bene le sensazioni di benessere che ne possono derivare.

Gustare il proprio cibo preferito

Mangiare il proprio cibo preferito aiuta l’organismo ad avvertire una vera e propria sensazione di benessere e a stimolare la produzione di endorfine. Uno degli esempi più classici da questo punto di vista è il cioccolato, ma secondo le ricerche questo fenomeno si può estendere a tutti i cibi gustosi che amiamo particolarmente. Ecco perché dopo aver mangiato qualcosa che ci piace ci sentiamo felici e appagati.

Ascoltare musica

La scienza è sempre più interessata agli effetti positivi della musica nella vita quotidiana. Spesso una semplice canzone di sottofondo ci aiuta a sentirci meglio soprattutto quando siamo tristi. È merito della produzione di endorfine, che viene stimolata dall’ascolto. Secondo uno studio scientifico dedicato a questo argomento, ascoltare musica innalza la soglia del dolore e ha degli effetti positivi sul nostro stato di benessere.

Scambiarsi baci e abbracci

Baci, abbracci, carezze e coccole ci aiutano a sentirci meglio anche perché portano il nostro corpo a rilasciare endorfine. I benefici del contatto fisico con le persone a cui vogliamo bene sono davvero numerosi. Ad esempio, un semplice abbraccio può aiutare a ridurre lo stress, a fare la pace, a rafforzare il rapporto tra mamma e figlio e persino a vincere l’ansia e a migliorare la memoria.

Accarezzare un animale domestico

Accarezzare un animale domestico è davvero benefico in ogni momento della giornata. È anche per questo motivo che alcuni ospedali in Italia e nel mondo accettano che i nostri amici a quattro zampe facciano visita a chi si trova in ospedale. Ad esempio, quando un gatto si avvicina e vi sfiorate la fronte a vicenda, ecco che vengono rilasciate endorfine sia in voi che nel vostro amico peloso. Un gesto dolcissimo che vi farà sentire subito meglio.

Sorridere

Sorridere è un toccasana per la salute e per l’umore. Aiuta il nostro corpo a rilasciare endorfine, non costa nulla e ci fa sentire subito meglio. I benefici di un sorriso sono davvero numerosi. Sorridere riduce lo stress e il rischio di ictus, aumenta la fiducia in se stessi e negli altri e ci permette di fare una pausa per poi ripartire ancora più concentrati con le nostre attività quotidiane.

Sentire profumo di vaniglia o di lavanda

Alcuni profumi più di altri stimolano il nostro organismo a produrre endorfine. Ne sono un esempio il profumo di vaniglia e di lavanda, due aromi delicati che regalano immediatamente una sensazione di benessere, portano relax e ci ricordano la nostra infanzia. Il profumo di vaniglia riduce l’ansia mentre il profumo di lavanda ci aiuta a rilassarci e a dormire meglio, tanto che a chi soffre di insonnia viene consigliato di cospargere il cuscino con qualche goccia di olio essenziale di lavanda.

Assaggiare qualcosa di piccante

Chi ama il peperoncino e il sapore piccante forse inconsciamente ha capito che nonostante qualche piccolo fastidio nel consumare questi alimenti, il risultato è una sensazione di benessere. Ciò perché pare che il gusto piccante aiuti l’organismo a rilasciare endorfine come risposta alle leggere sensazioni di pizzicore e di bruciore che il peperoncino può provocare sulla nostra lingua e sul palato.

Ballare

Il ballo e la danza non sono semplicemente un divertimento o un’occasione per fare movimento. Vengono utilizzati anche come una forma di terapia per il benessere. Questo perché il ballo e la danza uniscono sia il movimento che l’ascolto della musica, due attività che insieme aiutano ancora di più il nostro organismo a produrre endorfine. Secondo alcuni studi, ballare potrebbe portare un maggior benessere anche rispetto alla pratica di uno sport.

Meditare

Secondo il Brainwave Research Institute, meditare stimola la produzione delle endorfine da parte del nostro organismo. La meditazione può garantire al nostro corpo e alla nostra mente una vera e propria sensazione di gioia e di benessere. Ciò perché grazie alla meditazione possiamo raggiungere quel punto in cui ha sede la nostra felicità interiore. Meditare e correre sono attività differenti, ma il miglioramento dell’umore dopo una corsa o dopo la meditazione è risultato molto simile, proprio grazie alla produzione di endorfine.

 

Le endorfine, note anche come “morfine endogene”, sono implicate nei meccanismi di controllo del piacere e del dolore: lo studio di queste molecole prodotte naturalmente dal cervello apre scenari stimolanti.

«Parlare di endorfine oggi è quanto mai attuale, dato che il benessere, il piacere, l’allontanamento del dolore costituiscono gli obiettivi che sempre di più sembrano condizionare la nostra qualità di vita» spiega il dottor Mauro Porta, neurologo presso l’Istituto Ortopedico Galeazzi IRCCS di Milano: «Le endorfine sono una sorta di “oppiaceo”, naturalmente prodotto, che comporta attenuazioni delle sensazioni dolore, “drive” positivo, cioè eccitamento, voglia di agire, buon umore».

Quando sono state scoperte le endorfine?

L’avventura inizia in un oscuro mattatoio sulle coste scozzesi, dove il ricercatore John Hughes, insieme al team della Unit for Research on Addictive Drugs del Marischal College dell’Università di Aberdeen, ogni giorno si procurava cervelli di maiale da analizzare.

Muove le ricerche il tentativo di individuare una sostanza simile alla morfina, alcaloide estratto dall’oppio che in medicina è sfruttato per le proprietà analgesiche. L’ipotesi era che l’azione della morfina imitasse sostanze che forse erano già presenti nell’organismo. Esisteva davvero un oppioide endogeno? Oggi sappiamo che è così.

Come funzionano le endorfine?

«Le endorfine vengono prodotte nell’ipofisi, nel surrene e a livello del sistema gastrointestinale, il nostro “secondo cervello“» chiarisce il dottor Mauro Porta «Si tratta di ormoni proteici che vengono rilasciati nel torrente sanguigno e che ritroviamo implicati nelle situazioni di benessere, di felicità, di gioia oppure in situazioni algogene (che procurano dolore) come il parto, il ciclo mestruale, gli eventi traumatici. Si ritrovano elevati livelli endorfinici anche dopo un rapporto sessuale o dopo l’attività sportiva».

«Le endorfine entrano nei meccanismi determinanti il ciclo sonno-veglia, la termoregolazione, l’appetito e comportano un aumento dei livelli ACTH, l’ormone adrenocorticotropo (Adreno Cortico Tropic Hormone – ACTH), conosciuto anche come corticotropina, è un ormone proteico prodotto dalle cellule dell’ipofisi anteriore (adenoipofisi), cortisone, prolattina, ormone della crescita e catecolamine, agendo così indirettamente su target diversi da quelli sinaptici. Molti sono i trattamenti, medici e non, che comportano liberazione di endorfine: non da ultime l’agopuntura e altre tecniche di rilassamento così come anche le esperienze sensoriali “piacevoli” come la musica o altre collegate alla vista e all’olfatto» prosegue l’esperto.

Fisiologicamente le molecole attive sui recettori peptidi oppiodi naturali sono le encefaline, le endorfine e le dinorfine. Per peptide oppioide si intende una sostanza sintetica o prodotta naturalmente dall’organismo con gli effetti dell’oppio e della morfina, suo costituente principale. Attualmente conosciamo tre tipi di recettori, tutti caratterizzati da un’azione di tipo analgesico. Il loro meccanismo di funzionamento è legato alla modificazione dell’elettrofisiologia del potassio e del calcio.

Verso una medicina endogena

Sapendo che la modalità di comunicazione fra cellule nervose avveniva tramite composti chimici, le prime indagini si erano focalizzate sui neurotrasmettitori che mostravano di attivare determinati siti cellulari di natura proteica, detti neurorecettori, fondamentali, quindi, per la modulazione e trasmissione degli impulsi nervosi.

Nel 1974 Hughes isolò dal cervello dei maiali le tracce di una sostanza con un’attività analgesica: sarà il primo passo verso la scoperta di un vero e proprio laboratorio di chimica endogena, presente nel nostro corpo e le cui implicazioni nel processo di cura sono un argomento su cui c’è ancora moltissimo da scoprire.

L’azione degli oppiacei endogeni che iniziazialmente Hughes riesce a isolare dura pochi minuti, per poi essere distrutta dagli enzimi cellulari, in accordo con la sua natura proteica. A differenza della morfina, essi non creano assuefazione poiché prodotti naturalmente dall’organismo. Attualmente le ricerche effettuate dalle industrie farmaceutiche per realizzare un farmaco utilizzando l’endorfina rimangono un’ipotesi in corso d’opera, tuttavia ciò che sappiamo è che questo gruppo di peptidi di catena corta chiamati “endorfine”, sono morfine endogene con proprietà simili alla morfina.

Esse agiscono come neurotrasmettitori a livello del sistema nervoso. Insieme all’azione analgesica rispetto al dolore, le endorfine giocano un ruolo chiave nella risposta al piacere e nel processo di rilassamento.

Dagli studi, infatti, emerge che a livello cerebrale le alterazione del sistema dopaminergico, proprio dei neuroni dopaminergici, i quali risultano associati con l’amigdala, potrebbero essere implicati con i disturbi della memoria e l’insorgenza di malattie come Parkinson e Alzheimer, tema indagato dal neurofisiologo Marcello D’Amelio insieme all’unità di ricerca dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e della Fondazione S. Lucia.

L’importanza delle endorfine nel controllo del dolore, così come nei processi legati alla gratificazione e al piacere, può costituire un campo di indagine prezioso per la gestione dello stress.

Qual è il ruolo delle endorfine?

Come spiega il dottor Mauro Porta «le endorfine, che sono oppioidi naturali, interagiscono con una dei mediatori maggiormente coinvolti nel determinismo del buon umore: la serotonina. Si tratta di veri e propri mediatori che sono molti di più di quelli che normalmente si pensa: serotonina appunto, dopamina, noradrenalina, gaba etc. I mediatori attivano certe sinapsi (punto di contatto tra due neuroni) appartenenti a circuiti specifici, oppure a circuiti “polivalenti”, cioè che funzionano con più neuromediatori».

Insieme all’aumento della soglia di tolleranza al dolore, le endorfine mostrano di essere coinvolte nell’attività di termoregolazione dell’organismo, ritmi sonno-veglia, controllo dell’appetito, regolazione dell’umore, senso di benessere e appagamento.

Durante terapie come l’agopuntura si è potuto osservare un innalzamento della concentrazione di queste sostanze nel sangue. Sì, perché a seconda di ciò che viviamo può verificarsi un rilascio di endorfine: succede quando svolgiamo attività in grado di regalarci piacere, ecco perché appaiono fortemente connesse alla sfera sessuale e psicologica.

Quando ci sentiamo innamorati, al termine di un rapporto sessuale o mentre incontriamo una persona cara o viviamo una situazione felice il livello di endorfine è più alto. Succede anche quando facciamo attività sportiva: la sintesi di oppiodi endogeni, infatti, mostra un forte incremento durante il movimento. Grazie a questo possiamo comprendere meglio la profonda sensazione di benessere e appagamento che ogni sportivo avverte durante una performance: un’euforia che a livello fisiologico ci aiuta a sopportare meglio la fatica e dal punto di vista psicologico stimola le nostre doti in fatto di resistenza, capacità di superare gli ostacoli e, in fondo, resilienza. Una qualità naturale che fa parte di noi? Forse sì, anche a livello biochimico.

Numero2066.

 

SEGNALATA DA UNA CARA AMICA

 

A L C U N E   R I S P O S T E   D E L L A   F I L O S O F I A.

 

Nietzsche e Freud: la cultura come istanza repressiva.

Qual è uno dei principali compiti della cultura? Quello di trasmettere al singolo, attraverso le diverse agenzie di socializzazione come la famiglia e la scuola, un insieme di valori socialmente condivisi.

La critica Nitzscheana alla civiltà occidentale.

Friedrich Nietzsche, fin dalle sue prime opere, mette in discussione il modello culturale che si impone nel mondo occidentale da Socrate in poi, ossia un ideale di vita basato sul controllo delle passioni: vivere da uomini significa vivere secondo ragione, sopprimendo le componenti istintive dell’uomo.
Nella visione nietzscheana, Socrate tentava di offrire un ausilio all’uomo, elaborando un modo per arginare il caos dell’esistenza. Tuttavia, agendo così, non ha fatto altro che spingere l’individuo a rinunciare alla parte più vitale di sé, che Nietzsche chiama “spirito dionisiaco”, ridimensionandola drasticamente.
La cultura, in questa prospettiva, risulta essere un’istanza repressiva, poiché limita il comportamento delle persone e impedisce loro di vivere una vita autentica.
Il filosofo tedesco ritiene, quindi, necessario opporsi a questo aspetto della nostra civiltà, dicendo “sì alla vita” e rivalutando la dimensione spontanea e pulsionale dell’uomo, che è stata sacrificata.

La concezione freudiana della cultura.

L’indagine di Sigmund Freud prosegue sul percorso tracciato da Nietzsche. Il padre della psicoanalisi, analizzando il complesso rapporto tra cultura (che egli chiama civiltà) e la componente istintuale dell’uomo – l’Es, formato da pulsioni sessuali e aggressive – giunge alla conclusione che quest’ultima ne risulta repressa e soffocata. Anche quando questo condizionamento è soltanto parziale, la società detta le modalità, i tempi e i mezzi attraverso i quali è possibile, per l’uomo, ottenere delle gratificazioni. Ad esempio, la morale dominante non vieta l’attività sessuale, ma stabilisce in quali termini tale attività è socialmente consentita, come nell’ambito di una stabile relazione di coppia.
Per Freud, la cultura implica alcuni meccanismi di controllo, che hanno la finalità di portare l’individuo all’adesione a determinati modelli sociali e all’acquisizione del senso di appartenenza ad un gruppo.

Popper: la società aperta al pluralismo.

La critica di Popper a Platone.

Karl Popper, nell’opera La società aperta e i suoi nemici, rifiuta la prospettiva di una società organizzata secondo norme di comportamento rigide e vincolanti, e difende il principio liberale di una società “aperta al maggior numero possibile di idee e ideali differenti e, magari, contrastanti”. Egli rivolge la sua critica a filosofi come Platone, colpevole, a suo parere, di aver teorizzato, nella Repubblica, uno Stato totalitario che vuole organizzare, in tutto e per tutto, la vita dei singoli. Il filosofo viennese contesta lo Stato perfetto e immutabile di Platone, e si dimostra favorevole ad una società fondata su istituzioni democratiche, che abbia la possibilità di correggersi e di migliorare. Infatti, dal suo punto di vista, una società perfetta è impossibile, perché l’uomo stesso è imperfetto per natura.
Tuttavia, nella sua polemica verso Platone, Popper trascura un aspetto importante, ossia il fatto che il filosofo greco parli di uno Stato ideale, di un paradigma. Il significato di un’utopia, come quella della repubblica platonica, è di offrire un modello a cui tendere e, a ben vedere, è proprio la tensione verso una società migliore a spingere l’uomo a riconsiderare il proprio sistema di valori.

La salvaguardia della libertà dell’individuo.

Per quale motivo, quindi, dovremmo preferire una società aperta a ogni possibile cambiamento, anche negativo, rispetto ad una società stabile ed ordinata?
La risposta di Popper è che il bene più grande consiste nella salvaguardia della libertà individuale. Il problema delle società avanzate è proprio quello di evitare che lo Stato, intervenendo eccessivamente nella vita sociale, metta a repentaglio la libertà dei singoli.
Una società chiusa come quella ipotizzata da Platone è impermeabile ad ogni novità e, di conseguenza, non è in grado di tollerare i mutamenti, pena la dissoluzione del sistema.
Una società aperta, al contrario, è in grado di assorbire il cambiamento e di accogliere le istanze di chi vuole farsi promotore di una trasformazione sociale.

N.d.R. Gli argomenti sopra trattati sono di stringente attualità. In questi ultimi tempi di CORONAVIRUS ne stiamo avendo la prova nelle cronache quotidiane.

Numero2060.

 

Pubblicato il 19 Giugno 2012 da Antonio Santantoni.

E Fabrizio De André riscrisse i 10 comandamenti

 

Affronto con qualche trepidazione questo ultimo appuntamento con Fabrizio de André, il quale si prefigge, ora, un compito ambizioso: salire sul Sinai, per riscrivere nientemeno, che le Tavole della Legge di Mosè, umanizzandone alcune voci, abrogandone altre.
Quando ho pensato alle bestemmie devote come titolo di questa piccola serie di articoli, avevo in mente primariamente proprio le parole di questo ultimo canto: un vero manifesto della laicità: dell’uomo che non ha più bisogno di Dio, anzi dell’uomo che per affermare veramente sé stesso e la propria umanità, ha bisogno di sostituirsi a Dio. Non più la tentazione dell’Eden «sarete come Dio», ma proprio: «prenderete il posto di Dio», sostituendovi a lui.
De André come nuovo Mosè, che riscrive la Legge, ma non più sulla pietra, ma sulle corde d’una chitarra: come non pensare al profeta Ezechiele: «toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne» (Ez 11,19)?

Intanto il titolo: Il Testamento di Tito.
Chi è il Tito della canzone? È Il buon ladrone secondo un vangelo apocrifo di origine araba. Dunque non il ladrone blasfemo: quello era l’altro: Disma, secondo la stessa fonte.
Tito è quello che chiese a Gesù «ricordati di me quando sarai nel tuo regno»: e per queste poche parole meritò di sentirsi dire «oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43).
Ma qui il buon ladrone cambia decisamente pelle. E si trasforma in un severo accusatore di Dio: seguirò passo passo le sue accuse e le sue proposte per una revisione del testo della Legge:

Non avrai altro Dio all’infuori di me,
spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse venute dall’est
dicevan che in fondo era uguale.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.

Perché poi, sembra domandarsi De André: che differenza farebbe? Ne ho conosciuti tanti che adorano un Dio con un nome diverso dal tuo. Non mi hanno fatto alcun male. Venivano dall’Est: forse mussulmani? Loro lo chiamano Allah, ma non mi hanno fatto niente di male. Perché non dovremmo lasciare che ognuno adori il suo Dio? Se non ci fanno del male! Forse non son tanto gli dei a essere malvagi, quanto…Lasciamo stare!

Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.

Qui De André non si accontenta di dire che pregare è inutile, ma carica la sua critica di un’ironia che arriva al sarcasmo. Anzi, ha detto: ma forse era distratto, forse un po’ addormentato… Comunque il risultato non sarebbe cambiato: davvero lo nominai invano. Come dire: date retta a me: non perdeteci tempo!

Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone,
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:
quando a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.
(bis)

Qui il gioco comincia a farsi duro davvero. Io non so se Fabrizio racconti qui qualcosa che è accaduto a lui, o a un suo amico, o se parli così solo perché sa che questo può accadere, anche molto più spesso di quanto non si pensi. Tuttavia l’attacco è diretto: quel padre e/o quella madre che rompono il naso al figlioletto che gli chiedeva un boccone, fanno tanto pensare a un padre o/e a una madre-padrona (si noti che il testo dice del loro non del suo bastone, come dire che bastonare dove essere uno sport bisex in quella casa. Chissà se il genovese De André, che ha molto amato e praticato la Sardegna di Gavino Ledda (l’autore di Padre padrone), stava pensando a lui e alla sua storia, mentre scriveva quei versi? E come non pensare qui alle parole di Gesù, in tanto netto contrasto con tutto quanto precede: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del _pesce una serpe? (Lc 11,11).

Ricorda di santificare le feste.
Facile per noi ladroni
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni,
senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.
(bis)

Confesso qualche mia difficoltà nel fare un’esegesi di questo testo non chiarissimo. Dal momento che chi parla, Tito, è per l’appunto uno dei due ladroni, non sarebbe improprio pensare che stia parlando di sé stesso. Ma il testo si svuoterebbe di senso. Più congruo forse, dato lo spirito dell’intero brano, pensare che qui Tito, o meglio De André, stia alludendo a qualcun altro, forse ai sacerdoti che del tempio vivono e con il Tempio si ingrassano. A meno che non sia da vederci anche qui una greve ironia: per noi ladroni, era in realtà una pacchia entrare nei templi che rigurgitano salmi che tutti insieme, schiavi e padroni, tutti ugualmente abbindolati e contenti, elevano al Dio onnipotente, intanto che i sacerdoti se la ridono. In questa bolgia dove si vende e si compra di tutto, noi ladroni andavamo a nozze: senza rischiare né la vita né il taglio della mano.

Il quinto dice non devi rubare
e forse io l’ho rispettato
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.
(bis)

Altra botta durissima per la gente del Tempio. Non c’è che dire, il grande cantautore sa picchiare duro. Su questo punto lui potrebbe anche dichiararsi pulito…forse… senza colpa; o almeno si sente di poter dire d’aver pescato sempre là dove sono solo pesci grandi. Allusione forse ai suoi ingenti guadagni, tutti perfettamente legali, certo, ma altrettanto certamente lontani da ciò che vorrebbe l’etica cristiana delle origini, secondo cui è già una cosa deplorevole guadagnare in due o tre sere più di quanto un normale dipendente ha visto entrare in tasca sua in un’intera vita di sacrifici e di fatica.
Ma la botta grossa arriva solo adesso e si abbatte ancora una volta, manco a dirlo, sugli uomini del Tempio, sulla casta dei sacerdoti e degli addetti all’altare. Perché egli tiene a far presente che lui, se anche avesse in qualche modo sbagliato, lo avrebbe fatto a suo rischio e pericolo (a nome mio): quest’altri, la gente del Tempio, lo fanno sempre facendosi belli del nome di Dio.

Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme.
Feconda una donna ogni volta che l’ami
così sarai uomo di fede.
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
e tanti ne uccide la fame.
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore:
ma non ho creato dolore.

Qui l’Autore ce l’ha con un’idea fissa della morale sessuale della Chiesa: quella secondo cui ogni abbraccio coniugale debba portare o, almeno tendere, o almeno deve essere aperto alla concezione di una nuova vita. Niente barriere artificiose alla vita. Devi lasciare alla vita di poter fare tutta la sua strada: solo così rispetterai il precetto divino (sarai uomo di fede). Ma tu ne hai “la voglia” e le tue difese traballano? Se ti fidi di questa legge sei incastrato: si la voglia ti passa, ma il figlio rimane; e te lo dovrai “sorbettare”. con tutto quello che ne consegue per te. Qui il poeta-cantante non si è fatto incastrare:e non ha rimpianti di sorta: non ha perso l’occasione (ogni lasciata è persa!) e «non ho creato dolore» (com’era suo dovere).

Il settimo dice non ammazzare
se del cielo vuoi essere degno.
Guardatela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno:
guardate la fine di quel nazzareno
e un ladro non muore di meno.
Guardate la fine di quel nazzareno
e un ladro non muore di meno.

Qui torna un’idea che abbiamo già incontrato, nel canto delle Tre Madri, ma qui è molto più dura, c’è quasi disprezzo: «Guardatela oggi, questa legge di Dio / tre volte inchiodata sul legno»!!! «Guardate la fine di quel nazzareno». Non aveva ammazzato nessuno: perché il Padre non lo tira giù dalla croce? E gli altri due non sono anche loro figli di mamma? La carne di un ladro non muore e non soffre meno della carne e delle ossa di un martire.

Non dire falsa testimonianza
e aiutali a uccidere un uomo.
Lo sanno a memoria il diritto divino,
e scordano sempre il perdono:
ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.

Qui De André deve ricordarsi delle sue ascendenze anarcoidi, e si dichiara contrario a ogni giudizio ideologico e forse non solo. Accusalo, denuncialo, testimonia in tribunale contro il ribelle, il terrorista: non meritano né perdono né omertà! Ma lui, De André non ci sta: piuttosto che dare una mano alla repressione «ho spergiurato su Dio e sul mio onore». No, non me ne pento.

Non desiderare la roba degli altri
non desiderarne la sposa.
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa:
nei letti degli altri già caldi d’amore
non ho provato dolore.
L’invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.

Ancora una botta da anarchico sul desiderare una donna o la roba degli altri: due precetti, dice De André che vanno bene solo per “i pochi” che hanno “una donna e qualcosa”. Che senso avrebbe ricordarlo a chi non ha niente? Chi ha fame mangia dove trova. E poca importa se il letto dove mi aspetta una donna è ancora caldo di chi mi ha preceduto: a me va bene lo stesso. Quanto al dolore che potrei procurare: non lo sentirò io.

Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:
io nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore”.

E al termine della mia giornata e della mia vita, credo d’aver imparato che la vita è tutta una violenza. Calando, la notte mi regala un po’ di pace e di oblìo. Potrò ancora illudermi. Il sole va a portare la guerra altrove e io posso concentrare la mia attenzione su chi sta morendo accanto a me. Anche se non so chi sia, anche se la sua carne non duole a me, madre, io provo dolore; anzi, verso di lui provo solo pietà e nessun rancore. Che sia proprio questo l’amore? Che la Pietà sia l’altro nome dell’Amore? Sarebbe facile.
«Madre, ho imparato l’amore!». Così, tutto si risolve in questo grido di vittoria.
PS. Ma chi sarà questa madre ? Forse non conosco abbastanza la poetica e la vita di Fabrizio de André, così non so sciogliere questo enigma. Io però, faccio ugualmente mio questo grido di vittoria. Io so a Chi pensare. E a me basta.

Numero2057.

 

Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme.
Feconda una donna ogni volta che l’ami
così sarai uomo di fede.
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
e tanti ne uccide la fame.
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore:
ma non ho creato dolore.

Fabrizio De André     I dieci comandamenti. (Il testamento di Tito).