Numero1808.

Gaudeamus igitur, iuvenes dum sumus.

Post iucundam iuventutem,

post molestam senectutem,

nos habebit humus!

 

Vita nostra brevis est, brevi finietur,

venit mors velociter,

rapit nos atrociter,

nemini parcetur.

 

Spassiamocela dunque, finché siamo giovani.

Dopo l’allegra gioventù,

dopo la fastidiosa vecchiaia,

ci riceverà la terra!

 

La nostra vita è breve, in breve finirà,

arriva la morte in un lampo,

ci strappa crudelmente,

non risparmierà nessuno.

 

De brevitate vitae (Sulla brevità della vita)    canzone dei Clerici Vagantes Medioevali, è considerata l’inno goliardico internazionale.

 

 

Numero1806.

Oggi, nella giornata contro la violenza sulle donne, sento e vedo sui telegiornali, che in Italia un Italiano su quattro pensa che la colpa della violenza dei maschi sulle donne è da attribuirsi al modo con cui queste si vestono, si atteggiano e si rendono disponibili.
Questa convinzione, per fortuna largamente minoritaria, fa ridere.
È una esecrabile panzana!
Per onestà intellettuale, riferisco che, un giorno, ho chiesto ad una gentile e ben agghindata rappresentante del sesso femminile se le donne si vestissero in modo “glamour” o provocatorio per eccitare le fantasie dei maschi o per far schiattare d’invidia le concorrenti femmine.
Indovinate cosa mi ha risposto l’interpellata!
Da parte mia, riporto la scritta che ho letto su un cartello di manifestanti femmine a Londra, comparsa su un reportage giornalistico :

A dress

is not

a “yes”.

 

Un vestito

non è

un “sì”.

Mi pare una considerazione obiettivamente intelligente!

Numero1805.

Letto alla Festa del nostro Anniversario.

 

25  ANNI  ASSIEME.

 

In questi ultimi tempi, ho scritto, non molto ma abbastanza, un po’ per me, per i miei hobby e i miei interessi, talvolta per qualche ricorrenza di amici o amiche, qualche poesiola, cose di poco conto, cose a destra e a manca, da dilettante della parola, ma da professionista del sentimento. In quest’ultimissimo anno, in particolare, mi sono dedicato alla redazione di un BLOG, del quale vi dirò più tardi.
Ma, mi sono accorto che, tranne che in qualche rara occasione di molto tempo fa, a te, Rita, io non ho mai scritto niente di veramente significativo.

In questa circostanza, in questa ricorrenza dei nostri 25 anni assieme, circondati da persone care e amiche, ho sentito il dovere, e il piacere, di rimediare alla mancanza, per farmi perdonare, se ce ne fosse bisogno, e se ne sono capace.

E comincio a scrivere di noi, per ricordare e ricordarci , a spanne e con un po’ di emozione, cosa sono stati questi lunghi e brevi anni di serena compagnia e di buona vita.
La nostra. Insieme. Sì, separati nei luoghi di residenza, ma sempre insieme.
L.A.T.: acronimo inglese che significa Living Apart Together, cioè Vivere Separati Insieme. Formula consigliabile, se possibile, per un L.L.L., altro acronimo inglese che vuol dire Long Lasting Love, cioè Amore che Dura a Lungo.

A sgranare il rosario dei giorni dopo i giorni, tanti belli, alcuni difficili e dolorosi, altri impegnativi oppure normali, non ci penso proprio. Se siamo qua, bene o male, la salute ci ha sorretto e, quel che conta, abbiamo fatto del nostro meglio per rendere, l’un l’altra, la vita degna di essere vissuta.
E, per quanto mi riguarda, io ho avuto, da te e con te, in questi 25 anni, il pezzo migliore della mia vita.

Per superare, con un po’ di faccia tosta e disinvoltura, l’approccio all’”incipit”, che è sempre difficile, del mio discorso, prendo a prestito, anche se corro il rischio di apparire melodrammatico, parole che mi sono venute in mente, parole non mie, ma che faccio mie per modificarne il senso. Sono i versi di una delle più belle romanze della musica lirica Italiana di sempre, “Sono andati, fingevo di dormire….”, da “La Bohéme”, versi di Giacosa e Illica per la musica indimenticabile di Giacomo Puccini, là dove Mimì, stesa sul giaciglio di morte, dice a Rodolfo: “Ho tante cose che ti voglio dire, o una sola, ma grande come il mare. Come il mare, profonda ed infinita….” E qui, segue un verso che io non citerò per motivi di privacy, sono parole che si dicono nell’intimità di una coppia, ma che molti conoscono.

Ebbene, voglio cambiare il finale della frase, riprendendo e ripetendo: “Ho tante cose, che ti voglio dire, o una sola, ma grande come il mare. Come il mare profonda ed infinita: Grazie, Rita!” Così ho fatto pure la rima! E ridiamoci su, tanto per sdrammatizzare, se no mi metto a piangere.

E da altre parole in musica, traggo lo spunto per proseguire, precisamente dai versi del “Faber” De Andrè, nella sua magnifica “La Canzone dell’amore perduto”, là dove dice: “L’amore che strappa i capelli è finito ormai, non resta che qualche svogliata carezza…. e un po’ di tenerezza”. E dirò, a mia volta, chiosando, che sulla “svogliata carezza”, sorvolerei, per i motivi di privacy prima citati, mentre avrei da eccepire,  vigorosamente, sul “po’ di tenerezza”.
Non di tenerezza di poco conto si tratta, quella che tu hai saputo regalarmi in tutti questi anni, ma di un continuo, costante, assiduo, attento impegno per i miei bisogni materiali e, soprattutto, di un sorprendente, eccezionale, magnifico senso di affettuosa complicità e dedizione sul piano spirituale e sentimentale. Di nuovo, grazie, Rita!
In 25 anni condivisi insieme, “mi sono fatto persuaso” di aver vinto un premio.  Il mio affetto per te non è mai mutato, ma si è arricchito di comprensione, rispetto, devozione e gratitudine. E, da te, ho avuto pazienza, lealtà, umiltà e mitezza nei tuoi capelli sempre più bianchi, nei tuoi occhi a volte stanchi. Di cuore, grazie, Rita!

E ti voglio chiedere scusa per un po’ di cose.
Scusa, se ti sgrido quando scrivi male le lettere delle parole crociate, al punto che non sai neanche leggere le parole che scrivi; scusa, se ti sgrido, perché non ne ricordi i significati, dopo averteli spiegati più volte; scusa, perché ti zittisco sempre quando canti, stonata come una campana rotta, eppure sapessi come mi piace, sempre e comunque, il tuo  sgangherato cantare; scusa, se perdo le staffe, quando ti metti a starnazzare come un’anitra impazzita tutte le volte che, in macchina, supero i 50 all’ora, o quando ti appassioni a programmi televisivi che io detesto.

Ma di una cosa, soprattutto, ho bisogno di farmi perdonare da te. Perché m’inalbero e do in escandescenze, ogni volta che nei telegiornali, sento parlare di mafia, di corruzione, di omertà, di collusione, di sprechi, di degrado ambientale e morale, di truffe e di furbetti di ogni specie, nella tua terra, “amara e bella”, da cui provieni.
Eppure tu, Rita, figlia di un poliziotto degli Uffici Giudiziari del Palazzo di Giustizia di Palermo, che ha combattuto e contrastato la mafia e la mentalità mafiosa, ai tempi di Falcone e Borsellino, tu sei di una specchiata onestà e di una trasparenza cristallina, in tutto quello che pensi e fai. E, come te, tuo fratello e tutti i tuoi parenti e amici, la cui disponibilità e generosità ho conosciuto e apprezzato.
Se m’incazzo, non è uno sfogo denigratorio contro di te, e tu lo sai. Ma so di procurarti un dispiacere. E di questo ti chiedo scusa, anche se succederà di nuovo. E’ più forte di me. Tu sei una “terrona” sui generis, un’anomalia eccezionale che conferma la regola. Ed è a te che io voglio bene, perché sei il contrario di ciò che detesto.
Ma, tutto sommato, come tutti possono capire, tutte queste scuse non sono una “captatio benevolentiae”, si tratta di ben piccole cose: bazzecole di nessun conto. Le mie incazzature e i tuoi difettucci. Mentre invece, se metto sull’altro piatto della bilancia, le tue doti e i tuoi meriti…..non ho abbastanza parole per dirti ancora: grazie, Rita!

Io non sono il tipo che ti dice: ”Non posso vivere senza di te”, perché non sarebbe vero. Nella mia vita ho fatto a meno di persone che credevo indispensabili, ho passato periodi in cui nemmeno io volevo farmi compagnia, sono sopravvissuto alla solitudine e ne ho fatto un mio punto di forza. Potrei vivere benissimo senza di te, la differenza è che non voglio. Mi manchi già da subito, appena hai varcato la soglia per uscire. E di questo, sempre grazie, Rita!

Le belle persone sono sempre belle. Anche se passano gli anni, anche se sono senza trucco, se sono stanche, se hanno le rughe. Perché la bellezza che hanno dentro non invecchia mai. Diventa, con gli anni, più fragile e preziosa, ma le belle persone non smettono mai di brillare. E tu sei una bella persona, non bella in senso fisico, ma bella e basta, bella perché, con un gesto, mi fai felice, anche se non te lo dico, bella perché fai parte di me e mi rendi migliore.

Ecco, proprio di questo, più che per gli altri motivi, ti voglio, infine, ringraziare. Perché, vivendoti accanto, ho imparato a guardarmi attraverso i tuoi occhi e, davanti alle manifestazioni del tuo affetto, ho avuto un riscontro, una risposta di ritorno, un formidabile “feed back” di gradimento che mi ha confortato e rasserenato: se questo è ciò che io significo per te, se io sono un uomo buono per te, allora, in stretto sillogismo e per la proprietà transitiva, io valgo qualcosa. E, nel profondo della mia interiorità, l’autostima e la fiducia hanno cacciato i feticci delle incertezze e delle insicurezze. Per questo mi hai reso migliore. Per questo, il grazie più grande, Rita!

I nostri prossimi 25 anni che verranno, sperabilmente un po’ di meno, almeno per me, sappiamo solo che saranno i più difficili. Ma, come abbiamo fatto sempre, ci adatteremo con pazienza, ma non con rassegnazione, alle condizioni della nostra età e della nostra salute, per portare a dignitoso compimento questo percorso che stiamo facendo insieme e che si chiama: la nostra vita.
E….prendiamola con allegria.

Ecco, l’allegria. Due sono stati i capisaldi del nostro rapporto: il rispetto reciproco e l’allegria. Del primo dirò che è stato costantemente presente, in modo spontaneo e naturale. Talvolta, possono esserci scappati,  un’imprecazione o un “vaffa…”: un momentaneo deragliamento, ma tutto è sempre rientrato nei binari del buon senso e del buongusto, stemperando l’alterazione con una risata e una parola di rabbonimento. Mai un muso lungo, una ripicca. E ci ha aiutato molto l’allegria, l’ironia bonaria, mai rancorosa. Una coppia può perdere la passione, può perdere pure il desiderio, ma se perde, anche, la capacità di ridere insieme, allora è finita. Noi stiamo bene assieme perché ci divertiamo, ci prendiamo in giro: è autoironia di coppia. Non ci sono segreti: le affinità fanno la coppia, le differenze la fanno durare. Non è la mancanza d’amore, ma la mancanza di amicizia che rende infelici i rapporti, come dice il mio amico Friederich Nietzsche.

Satis superque.

A voi, miei cari e amici miei, dico grazie di cuore, anche a nome di Rita, per essere qui, con noi, in questo giorno significativo. Avevo bisogno di voi, che ci conoscete e condividete con noi frequentazioni e compagnia, come uditorio qualificato, per testimoniare, anche emotivamente, di questa mia esternazione. Grazie per avermi ascoltato pazientemente e vi sento miei complici e sodali negli apprezzamenti che io ho rivolto alla mia compagna di vita, che è anche vostra amica a cui tutti voi, nessuno escluso, so che volete bene.
Rita, non so come andrà, non so che futuro ci aspetta: tu devi ancora trovare, capire quale strada percorrere; io, su un sentiero sconnesso, sto già camminando.
L’unica mia certezza è che voglio rinascere per essere migliore, per poter dare di più e ricevere di più, fuori dal grigiore e dalla consuetudine, dentro al vero me stesso. L’unico mio motore, quello che mi aiuta a continuare in questo mio cammino, è l’affetto che ho per te: profondo, intenso, unico. Questo sentimento, che la maturità, anzi, la vecchiaia, non rende effimero, è radicato in una certezza: con te mi sento vivo.
Con te, sento che potrò affrontare quello che la vita ha da proporre, con energia e consapevolezza, con fantasia ed ironia. Conto su di te, sulla tua presenza, rara ma cara, accanto a me. L’unico posto, che spero di continuare ad occupare, sta nel tuo cuore. E spero che, anche tu, aspiri alla stessa cosa. E che sia su questa terra, dove siamo nati per starci, e che non è nell’aldilà.

Quante rondini occorrono
perché sia primavera?
Quanti baci ci vogliono,
perché viva un amore?
Di cosa ha bisogno una vita,
per essere tale?
La mia ha bisogno di Rita.

Grazie.

Tricesimo, 23 Novembre 2019

Numero1804.

EL  PLEVAN  DI  MALBORGHET

 

El plevan di Malborghet

se nol ves vut nancje un difiet

sares stat Pape,

ma al beveve, al porconave,

al fumave e al girave

ator cu l’Ape.

 

Une dì cun doi amis

e son sus fur di pais

par cambià arie,

al è tornat dut spetenat

cence amis e compagnat

da ‘ne massarie.

 

Le à cjatade sul stradon

c’al va jù viers Fossalon

sot el soreli.

Je jà dit: “Ma sior plevan

ca no mi tocj cun che man

se no i bergheli”.

 

Lui jà dit: “Ma ce biei voi

a son come doi pedoi

ator pa muse”.

Je jà dit: “Ma ce nas larc,

a mi par di viodi un farc

c’al jes da buse”.

 

Lui jà dit: “Cjale ce tetes

a son come las sachetes

da me mantele.

Je jà dit: “Pense al to cul

ca l’è grues come un baul

mi par ‘ne siele”.

 

E se al è dur a no l’è mol,

ben si sa che dopo al cjol

cui c’al disprezze.

Ân pensat ben di fa la pas

e po la voe ju à cjapas

come une frezze.

 

A son sus sù tal camarin

e àn sunat il mandulin

fintremai sere.

Po je jà dit: “Ma ce biel jet

quattri breis e un cavalet,

durmin par tiere”.

 

Cussì il plevan di Malborghet

al è stat tre dis pognet

cun che massarie

e par no lassale plene

i cjarezzave il fil de schene

cu la manarie.

 

E al Monsignor di Cividat

une bigote jà contat

dute la storie.

Al è sut sù tal indoman,

satu ce c’al veve in man?

Une gruesse scorie.

 

Ma il plevan di Malborghet

a nol podeve sta quiet

cence fa ‘ne frape.

Al à butat la so velade,

al à molat ‘ne celerade

e vie cu l’Ape.

 

Cussì lu àn scomunicat,

ancje la cros i àn gjavat,

al sta in campagne.

Cumò al fas il mantignut

da la massarie, che a so mut,

si la guadagne.

 

La massarie dal plevan

e à sclipat il capelan

par fa la scuete

e par no patì la fan

e guadagne un toc di pan

cu la sunete.

Numero1801.

Uno dei più bei testi di protesta e contestazione da un personaggio fra i più amati dal mondo intellettuale e non solo teatrale.

Canzone interpretata da Francesco Guccini.

C I R A N O                              Musica di Giancarlo Bigazzi    Parole di Giuseppe Dati.

Venite pure avanti voi con il naso corto
signori imbellettati, io più non vi sopporto,
infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio
perché con questa spada vi uccido quando voglio.

Venite pure avanti poeti sgangherati
inutili cantanti di giorni sciagurati
buffoni che campate di versi senza forza
avrete soldi e gloria, ma non avete scorza,
godetevi il successo, godete finché dura
ché il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura
e andate chissà dove per non pagar le tasse
col ghigno e l’arroganza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna
però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L’arrivismo? All’amo non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!

 

Facciamola finita, venite tutti avanti
nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze
feroci conduttori di trasmissioni false
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte
coraggio liberisti, buttate giù le carte,
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese
in questo benedetto, assurdo bel paese.
Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato
spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco
io non perdono, non perdono e tocco!

Ma quando sono solo con questo naso al piede
che almeno di mezz’ora da sempre mi precede,
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore.
Non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute
per colpa o per destino le donne le ho perdute
e quando sento il peso d’essere sempre solo
mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo.
Ma dentro di me sento che il grande amore esiste
amo senza peccato, amo, ma sono triste,
perché Rossana è bella, siamo così diversi,
a parlarle non riesco, le parlerò coi versi
le parlerò coi versi.

Venite gente vuota, facciamola finita
voi preti che vendete a tutti un’altra vita,
se c’è, come voi dite, un Dio nell’infinito
guardatevi nel cuore, l’avete già tradito
e voi materialisti col vostro chiodo fisso
che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso
le verità cercate per terra da maiali,
tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali.
Tornate a casa nani, levatevi davanti
per la mia rabbia enorme mi servono giganti,
ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!

Io tocco i miei nemici col naso e con la spada
ma in questa vita oggi non trovo più la strada,
non voglio rassegnarmi ad essere cattivo
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo.
Dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto,
non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un’ombra e tu, Rossana, il sole.
Ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perché oramai lo sento, non ho sofferto invano
se mi ami come sono per sempre tuo,
per sempre tuo, per sempre tuo, Cirano.

 

Numero1799.

Ho appena finito di guardare in TV la replica di una delle innumerevoli  puntate  della serie del Commissario Montalbano. L’avevo già vista, come tante altre; ma le rivedo volentieri perché mi piace ascoltare il dialetto Siciliano: trovo che, nelle sue coloriture, esprime, come pochi altri, il carattere della gente che lo parla.
Ma quello che mi interessa anche, è constatare la bravura del protagonista, Luca Zingaretti, fratello dell’attuale leader politico del Partito Democratico.
È certamente un validissimo attore ma, a parte le sue doti artistiche, quello che mi intriga, ogni volta che lo guardo, è la somiglianza della sua figura con quella di Benito Mussolini. Basterebbe aggiungervi l’espressione tronfia, l’atteggiamento borioso e la loquela drammatica e trionfalistica del “Duce” e sarebbe perfetto. Un regista, teatrale o cinematografico, lo arruolerebbe ad occhi chiusi: non esisterebbe, al mondo, un attore che, meglio di lui, potrebbe vestire i panni e dare il volto al Cavalier Benito.
E mi sono chiesto: se io fossi Zingaretti e mi fosse fatta la proposta di interpretare un tale personaggio, cosa farei? Accetterei o no?
Francamente non saprei risolvere il dilemma.
È talmente stridente la dicotomia fra la “persona” e il “personaggio” che io sarei in difficoltà a decidere. Non so lui.
Sappiamo tutti che un attore dovrebbe essere  in grado di interpretare qualunque ruolo gli venga proposto, almeno dal punto di vista tecnico: stiamo parlando di “fiction”. Ma è vero anche che un personaggio bisogna “sentirlo”, in qualche modo, come simile a sé, per darne una valida interpretazione. La sola  somiglianza fisica potrebbe essere necessaria ma non sufficiente.
Io non conosco le idee politiche di Luca Zingaretti, magari sono in linea con quelle del fratello; comunque, i tratti storici ed umani del “Duce” sarebbero anche in contrasto con il profilo del popolare Commissario, famoso in tutto il mondo. Penso che, proprio per opportunità e coerenza, potrebbe rifiutare.
E se, per pura ipotesi accademica, accettasse? Ci sarebbe una sollevazione popolare? O una interpellanza parlamentare?
Questo diventerebbe un caso, seppur in linea ipotetica, di vero e proprio OSSIMORO artistico.
Tutto sommato, alla fine di questa riflessione, per quanto fittizia e di “finzione”, io “mi sono fatto persuaso” che, se fossi in lui, rifiuterei.