Numero1428.

IL  TEMPO  PASSÒ
Il tempo veloce passò
su favole appena iniziate
su giochi bambini
finiti in castigo
su grandi avventure
sognate sui libri di scuola.
Il tempo veloce passò
su candidi giovani amori
su lunghe poesie
mai dette a nessuno
su timidi sguardi
su piccoli grandi segreti
e passò…
Il tempo veloce passò
sul volto dell’unica donna
sul sogno di vivere
insieme per sempre
su grandi promesse
su poche parole d’addio.

Numero1426 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Detto fra noi, ho la netta consapevolezza di essere un ignorantello. Eppure, dicono e lo dico anch’io, ho studiato tanto, nel passato, perché ho sempre avuto una curiosità sfrenata di conoscere le cose. Ma lo scibile umano è immenso e, per quanto mi sforzi, ho la sensazione che sto tentando di riempire continuamente un recipiente senza fondo, o di svuotare il mare con un secchiello. Però, non è solo la mia limitatezza nell’applicazione che mi fa sentire inadeguato, è anche e, soprattutto, il cambiamento e l’aggiornamento delle notizie che, oggi molto più che in passato, rimescolano le carte e modificano le regole del gioco del sapere.
Sto passando in rassegna tante cose, che costituiscono, il patrimonio consolidato dei dati storici acquisiti, nel comune notiziario degli studi scolastici ed accademici e, qua e là, mi accorgo di uno stillicidio di errori od omissioni o, verosimilmente, di cattive e capziose interpretazioni dei dati, che sono passati per veri e costituiscono il nostro comune, consueto, tradizionale bagaglio del sapere corrente.
Insomma, mi sto accorgendo che non me l’hanno raccontata giusta, nelle aule delle scuole, seppur qualificate, nei libri di testo, spesso infarciti di luoghi comuni, nell’approccio ad una verità che possa essere storicamente accettabile, probabile, condivisibile.
So bene che la verità non è mai stereotipata, sclerotizzata, dogmatica. Mentre, invece, è in costante cammino di revisione, di aggiornamento: la verità storica, in particolare, è “in fieri” per definizione, ed io mi sto appassionando ad una serie di “gialli storici”, in cui mi sento, e mi diverto a impersonare, una sorta di Commissario Montalbano.
Intendiamoci bene, io non voglio riscrivere la storia, Voglio solo, invece, interpretarla a modo mio, forse pretestuosamente o presuntuosamente, ma mi piace farlo in barba a tutte le autorità accademiche che possano eccepire e confutare.

Numero1425 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Uno dei “gialli storici” che più mi stanno appassionando in questi tempi, è quello che riguarda la “Gioconda”, il dipinto di Leonardo da Vinci, ad olio su tavola di legno di pioppo di 77 X 53 cm e 13 mm di spessore, che si trova al Museo del Louvre di Parigi.
La sua datazione è imprecisata, ma copre un arco di tempo che va dal 1503-4 al 1512-13 e anni seguenti fino alla data della morte del Maestro, nel 1519.
Va subito detto che si tratta di un dipinto incompiuto. Da quando Leonardo cominciò a dipingerlo, vi pose mano continuamente fino ai suoi ultimi giorni. Con grande pazienza e amorevole devozione. Vi si notano, infatti, affioramenti dei colori di base. In alto, a destra, vicino alla cornice, si nota un piccolo tratto color blu brillante, che non è il colore del cielo, come alcuni critici scrivono, bensì il colore di fondo. Mentre il color marrone affiora, a chiazze, dietro le spalle del personaggio. Leonardo, come altri pittori, partiva dalla tavola di legno levigata, vi applicava del gesso duro, che lasciava asciugare. Poi, applicava del blu nella metà alta e del marrone in quella bassa e, una volta seccati questi due colori di fondo, cominciava a dipingere.
Il quadro è integro, non è stato tagliato o ridotto. Si può riscontrare solo una maggiore opacità, causata da una disastrosa pulitura con solvente effettuata nel 1809 e da una successiva applicazione d’una vernice che provocò la comparsa della finissima “craquelure” oggi visibile.
Già studi radiografici avevano reso noto che, sulla tavola di pioppo, c’erano almeno 3 versioni del dipinto.
Nel 2004, lo scienziato francese Pascal Cotte, fondatore della Società di Ingegneria Elettronica “Lumiere Technology” di Parigi, ha analizzato, con la sua equipe, migliaia di immagini multispettrali, archiviato 3 miliardi di punti dati e individuato 155 elementi nascosti sotto la vernice e non visibili ad occhio nudo.
Cotte non si lancia in interpretazioni da critico d’arte, ma racconta così quello che ha trovato.
“Abbiamo analizzato esattamente cosa c’è fra i vari strati del dipinto e siamo in grado di ricostruire tutta la cronologia della creazione del quadro”. Ci sarebbe un primo ritratto, nascosto sotto la Gioconda che noi vediamo, che Leonardo avrebbe iniziato a dipingere nel 1503; era più grande rispetto alla cosiddetta “Monna Lisa”, che noi oggi vediamo, più grande la mano e la manica destra, più grandi e orientate verso il basso le dita della mano sinistra. Poi, ci sarebbe un secondo ritratto con l’aggiunta di molti dettagli stupefacenti: ampie cancellature del ritratto precedente, che sembrano eseguite con la mano destra (Leonardo era mancino naturale ma, anche, ambidestro), aghi o spilloni per sorreggere l’acconciatura dei capelli e diversi elementi decorativi a forma di stella sulla veste. Le mani sono già impostate e così la balaustra e il paesaggio, ma subiranno ulteriori trasformazioni. Gli accessori e le gioie sono proprie di un ritratto di dama facoltosa: in questo caso, sembrano corrispondere bene e riferirsi credibilmente, anche a una Lisa Gherardini, il cui marito, Francesco del Giocondo, , mercante e strozzino, era molto ricco.
Nel terzo ritratto nascosto, lo studio di Cotte rileva come Leonardo abbia cancellato e ridisegnato alcuni contorni, stendendo un nuovo strato di fondo. Spariscono spilloni e perle, cambia la cuffia, l’acconciatura dei capelli sulle spalle è differente da quella della versione precedente e della quarta, e finale, visibile oggi.
Modificati anche i lineamenti del volto e del naso, la veste ha più volume, la bocca appare molto più piccola, il collo e le spalle diverse dalla versione conclusiva; la camicia con décolleté è differente dall’attuale e così, anche, molti dettagli delle maniche.
Una sottolineatura particolare merita il sottilissimo velo (o veletta) di seta scura che si trova sul capo e sui lati del volto della figura femminile. Va  ricordato che questo accessorio, nella vita comune dell’epoca, era il segno distintivo della donna in gravidanza o in puerperio e, quindi, la sua presenza è un rafforzativo dell’ipotesi che il volto abbia a che fare con “la maternità”.
Pensate anche voi quello che penso io? Che, presto o tardi, il Louvre dovrà cambiare la targhetta con il nome del personaggio dipinto? Vedremo.

Numero1424 (Testo completo dal 1426 al 1421).

La denominazione “La Gioconda” o “Monna Lisa” deriverebbe dall’interpretazione di un passo, contenuto nel “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” di Giorgio Vasari (1511-1564), che mai conobbe Leonardo e mai vide il quadro, dove parla diffusamente di una testa, non mai di un ritratto, che Leonardo dipinse raffigurando Monna Lisa Gherardini (1479-1542), andata in sposa (per lui era la terza moglie) a Francesco del Giocondo (1460-1528). Tale testa sarebbe stata eseguita da Leonardo al tempo del suo soggiorno a Firenze (1504-1506), dopo le campagne militari di Cesare Borgia.
Della testa il Vasari così scrive: “Prese Lionardo a fare, per Francesco del Giocondo, il ritratto di Monna Lisa sua moglie, e, quattro anni penatovi, lo lasciò imperfetto, la quale opera è appresso il re Francesco di Francia, a Fontanableò”. Attenzione, dunque, al fatto che il dipinto era incompiuto e non si poteva parlare di ritratto finito. Si dilunga, in seguito, in una serie di lodi del dipinto, in realtà piuttosto generiche.
Ma dalla descrizione del Vasari, sorgono molti dubbi: egli parla, infatti, della peluria delle sopracciglia magnificamente dipinte ed esalta la grazia delle fossette sulle guance. Invito il lettore ad osservare attentamente il volto della donna dipinta e si accorgerà che non vi è traccia di sopracciglia (cosa piuttosto rara ed inconsueta), né, tanto meno, di fossette. Le une e le altre sono completamente assenti.
Il Vasari potrebbe aver attinto la sua descrizione, da un “sentito dire”, a memoria, sull’opera, com’era visibile a Firenze fino al 1508, quando il pittore lasciò la città. D’altra parte Il Vasari era ed è ritenuto uno spregiudicato e superficiale raccoglitore di “fake news” sensazionali, piuttosto che uno storico rigoroso.
Sta di fatto che la descrizione del Vasari non concorda con la realtà visibile a tutt’oggi. Chissà dove sarà finita la testa di cui parla Vasari; potrebbe essere il primo volto trovato da Cotte, ma lui e i posteri recensori l’hanno fatta coincidere con il dipinto che si trovava a Fontaineblau, quello che che noi oggi vediamo. Il quadro è passato dalle mani di Gian Giacomo Caprotti, chiamato dal maestro “Salaì”, giovane, scapestrato allievo e amante di Leonardo, destinatario della donazione di molte opere del Maestro, alla proprietà di Francesco I, previo esborso di una considerevole somma, si dice addirittura a peso d’oro. Non è vero dunque che il dipinto sarebbe stato “rubato” dai Francesi. In un documento del 1525, in cui vengono elencati alcuni dipinti, che si trovavano tra i beni di Gian Giacomo Caprotti, l’opera viene menzionata, per la prima volta, come “La Joconda”.
Devo, tuttavia, sottolineare che, nell’Italiano antico, “gioconda” significava allegra, che vivifica, che consola e ispira gioia. Infatti San Francesco d’Assisi, nel suo “Cantico delle Creature”, definisce “jocundo” il fuoco.
Può essere mai, che l’appellativo “gioconda” si riferisca non alla appartenenza familiare, bensì al sorriso indecifrabile e imperscrutabile, all’enigmatico, ironico e misterioso atteggiamento del volto? In una canzone degli anni ’60, Nat King Cole la canta, chiamandola “the Lady with a mystic smile”.
A proposito del sorriso, dirò che a me non pare di cogliervi granché di sensuale o, addirittura, di sessuale, bensì una calma, serena, benevola espressione materna. Così come, dirò delle mani, che trovo in una elegantissima, abbandonata, “protettrice” postura.
Altra precisazione doverosa è che, nella Firenze di Leonardo, una donna (specialmente se bella, perché spesso additata, indicata o sparlata), riceveva un nomignolo tratto dal cognome paterno (patronimico), non da quello del marito. Per esempio, Ginevra de’ Benci, che aveva sposato Luigi Niccolini, era nota come la Bencina, non come la Niccolina. Dunque, Lisa Gherardini, che fu brava moglie e brava mamma, ma non una sex symbol, la si doveva chiamare,semmai, “La Gherardina”, figlia di Antonmaria Gherardini di Montagliari, e non “La Gioconda”. Il termine “Monna”, che troviamo davanti al nome, è un diminutivo, per crasi, di “Madonna”, derivante, a sua volta, dal latino “Mea Domina”, che oggi avrebbe lo stesso significato di “Signora”.
Ultima notazione, di non poco rilievo, è che nel 1503, quando il dipinto sarebbe stato cominciato, Lisa Gherardini avrebbe dovuto avere 24 anni. A me pare, francamente, che la donna ritratta sia più vicina alla quarantina, che ne dite?
Al Vasari, il mondo accademico storico e artistico ha creduto. Io no.
Così come non credo alla congerie, improbabile e fumosa di altre attribuzioni, snocciolate nei secoli da illustri recensori. Altre ipotesi, più o meno fondate sull’identità della signora riguardano: Costanza di Avalos, Caterina Sforza, Bona Sforza, la napoletana Isabella Gualandi, Isabella d’Aragona, duchessa di Milano nel 1489. C’è anche chi ha formulato l’ipotesi che la figura femminile ritratta sia nient’altro che “Salaì”: Il Maestro, notoriamente omosessuale e amante del bello, sopra tutto di quello mascolino effeminato, si sarebbe divertito a rappresentare l’allievo e amante, vestito da donna, con gli abiti femminili che “Salaì” indossava fra le mura domestiche.
Tutto questo appartiene al “sapere diffuso”, alla credulità popolare, tramandato sui libri di scuola e accettato supinamente, acriticamente, per vero.
Da qui, comincia un’altra storia, sulla quale mi sono documentato: la mia.

Numero1423 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Nell’anno 1492, muore, a Firenze, Lorenzo il Magnifico. Da Clarice Orsini ha 10 figli: 3 morti, 4 figlie e 3 maschi: Piero (detto il Fatuo) è il primogenito, che sarà cacciato da Firenze, dove viene instaurata la Repubblica, e morirà in giovane età; Giovanni, che è Cardinale, dall’età di 17 anni, e si trova a Roma: diventerà Papa Leone X; Giuliano, il più giovane, duca di Nemours (1479-1516), è un bambino “vivolino e frescolino com’una rosa, gentile, pulito e nettolino come uno specchio, lieto e tutto contemplativo, con quegl’occhi”. Crescendo, sviluppa una fine cultura letteraria. Anche lui, bandito dalla Firenze repubblicana e costretto all’esilio, nel 1505 riceve da Elisabetta Gonzaga, moglie di Francesco Maria Della Rovere, nipote di Papa Giulio II, l’invito alla sua corte nel castello dei Montefeltro ad Urbino. Lì risiedono anche Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione e altri letterati ed artisti dell’epoca.
Giuliano è un libertino e, anche alla corte urbinate, è sempre a caccia di fanciulle con le quali potersi intrattenere. Fra le sue relazioni, una più delle altre, gli sconvolge il cuore. Lei si chiama Pacifica Brandani, figlia naturale, poi legalizzata, di Giovanni Antonio Brandani, un uomo ricco e influente, molto vicino alla casata dei Montefeltro; dunque non è una popolana, ma una benestante, intelligente, sensibile, sposata ma, probabilmente, vedova. I due diventano amanti e Pacifica rimane incinta. Corre l’anno 1511, viene il tempo del parto e Giuliano è altrove, a Roma. Lui non è sicuro di essere il padre della creatura concepita, pensando potesse essere “figliuolo di un misser Federico Ventura, suo concorrente nella pratica della gentildonna”. Subito dopo il parto, Pacifica Brandani muore. Un attimo prima di spirare, però, afferma che il bambino è figlio di Giuliano. In punto di morte, l’attendibilità è fuori discussione. Il fatto giunge alle orecchie di Giuliano.
Al pargolo viene dato il nome di Pasqualino e, il 19 Aprile 1511, viene esposto, ancora in fasce, davanti alla chiesa di Santa Chiara de’ Cortili, sede di culto molto legata alla corte. Secondo la ricostruzione storica di Roberto Zapperi, “il piccolo aveva addosso un panno bianco e una fascia con una moneta, come segno di riconoscimento….”. Tre giorni dopo che era stato esposto, fu affidato a tale Bartolomeo di Giorgio.
Il notaio più importante della città, Lorenzo Spaccioli, interviene nella faccenda e, senza sentir ragioni, impugna l’affidamento già stabilito, dichiarando di voler provvedere alle spese di mantenimento per i successivi quattro anni. Ma, appena qualche mese più tardi, Giuliano de’ Medici bussa alla sua porta e riconosce il bambino come suo figlio naturale. Detto per inciso, sarà il suo unico figlio. Già che c’è, sceglie per lui un altro nome: Ippolito. Preso con sé il piccolo, riparte per Roma,  in Vaticano, da suo fratello maggiore, il futuro Papa Leone X.
A Roma, Ippolito cresce, ma piange e si lamenta, gli manca la mamma. Chiede di lei, ma nessuno sa consolarlo. Siamo nel 1515, il bimbo ha quattro anni. Giuliano ha, allora, un’idea: chiama Leonardo da Vinci, che in quei tempi risiede in Vaticano, al Palazzo del Belvedere, dove lavora alle dipendenze di Giuliano, pagato mensilmente. Lavora a progetti urbanistici e alla bonifica delle Paludi Pontine ma, notoriamente, è grande artista anche come pittore. Giuliano chiede a Leonardo di realizzare un dipinto da dare al bimbo, con le fattezze di una mamma. Leonardo non aveva mai visto Pacifica Brandani e, tutto quello che sapeva era ciò che, in qualche modo, risultava dalla descrizione che Giuliano gli faceva della donna. Ma poco importava se non c’era somiglianza somatica, credibile o plausibile. Quello che contava era che il bimbo sentisse il “feeling” materno, da una figura rassicurante e dolce: quella che, per lui, sarebbe stata la sua mamma. Se di ritratto si tratta, fu un ritratto inventato o, tutt’al più, raccontato.
Leone X entra in conflitto con la Francia. Manda Il fratello Giuliano, a capo degli armati, nella pianura Padana. Questi, male in salute, da tempo, per via della tubercolosi, nelle vicinanze di Firenze, si ammala e, improvvisamente, muore. Il dipinto non è finito, il committente è deceduto, il destinatario, cioè il bimbo Ippolito, non lo vedrà mai. Leonardo non rimane a Roma, anche perché là, nell’ambiente artistico, va per la maggiore un certo Raffaello Sanzio, da Urbino, esclusivista delle committenze papali. Porta il dipinto con sè, in Francia, dove sarà accolto da un suo grande estimatore: il re Francesco I. Papa Leone X e Giuliano sono ritratti da Raffaello. Anche Ippolito (1511-1535), che da adulto sarà Cardinale e uomo d’armi, viene ritratto da Raffaello, da bambino, in un affresco delle Stanze del Vaticano, (l’Incoronazione di Carlo Magno),  e più tardi, da uomo, in un ritratto ad olio su tela, anche da Tiziano Vecellio. Morirà, a soli 24 anni, avvelenato dal proprio siniscalco, Giovanni Andrea de’ Franceschi di Borgo San Sepolcro. Questi fu processato, ammise il veneficio ma, ciononostante, fu liberato, forse perché aveva confessato che i mandanti erano Papa Paolo III e il Duca di Firenze.

Numero1422 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Ser Piero da Vinci era un facoltoso notaio di Firenze, proprietario di tutte le terre, lì intorno a Vinci, dove viveva una bellissima fanciulla, Caterina di Antonio di San Pantaleone. Lui, all’epoca, era il 1451, aveva 25 anni e Caterina, di anni ne aveva 15. Si incontrarono, si piacquero, si presero per tutta l’estate. Poi ser Piero se ne tornò a Firenze, mentre Caterina, durante la vendemmia, si accorse di essere incinta.
“Spòsati mentre non si vede ancora, dopo non ti vorrà più nessuno”, le consigliò la sorella. “E ser Piero?”
“Ser Piero fa il notaio a Firenze. Toglitelo dalla testa”.
Questa giovanissima contadina, dava alla luce, il 15 di Aprile 1452, il più grande genio della storia umana: Leonardo da Vinci.
Questi, nell’infanzia, ha avuto due mamme: la nobile Albiera degli Amadori, sposa di ser Piero da Vinci, che lo ha riconosciuto e cresciuto, e Chataria, cioè Caterina, orfana di padre e di madre irreperibile, che lo ha messo al mondo e lo ha allattato.
Caterina e ser Piero si rividero davanti alla chiesa, il giorno di san Leonardo. Lui era fidanzato con Albiera degli Amadori e l’avrebbe sposata. Caterina gli disse del bimbo in arrivo, lui si emozionò: “Mio Figlio!”.
A lei disse che avrebbero pensato a tutto lui e sua madre, Monna Lucia: “Sistemeremo tutto. Bella come sei, ti troveremo anche un marito”. Poi le consegnò un sacchettino pieno di ducati: “Abbiti cura, Caterina, la madre di mio figlio non deve soffrire di privazioni”. Leonardo venne al mondo, bello, paffuto e biondo come i putti delle pitture sacre. E con gli occhi color del fiordaliso. La data e l’ora precisa della sua nascita vennero scrupolosamente annotate dal nonno paterno, ser Antonio, sul suo registro di notaio. “Sei stata brava!”, le disse Monna Lucia, emozionata come tutte le nonne.
Per allattare Leonardo, i da Vinci avevano destinato a Caterina una stanza nell’ala riservata ai domestici. Lei vi si trasferì subito dopo il battesimo. Due mesi dopo, entrò in casa da Vinci anche Albiera, novella sposa di Piero. “Non ho mai visto un bambino così bello” esclamò quando Caterina venne chiamata a presentarle Leonardo. Monna Lucia prese il bambino dalle braccia di Caterina per darlo ad Albiera: “E’ ora che il nostro Leonardo vi conosca. Caterina lo allatterà finché ce ne sarà bisogno”. E, rivolta a Caterina: “Puoi andare, Leonardo, adesso, sta con noi. Te lo riporto per la poppata”.
“Sono la tua mamma”, gli sussurrava Caterina ogni volta che gli dava il suo latte. Leonardo aveva quasi un anno e mezzo, quando Monna Lucia disse a Caterina che il suo latte non serviva più. Le tese un sacchettino di monete, “Per il tuo buon servizio”.
Caterina avrebbe voluto urlare che le si strappava l’anima, ma capiva che il suo destino era di amarlo da lontano. E uscì, senza voltarsi indietro. Ser Piero e la madre erano stati di parola: le avevano trovato un marito, Toni Buti del Vacca, detto l’Accattabriga. La loro prima figlia nacque a novembre, seguita da altri quattro. Lei vide Leonardo molto tempo dopo e per caso. Lei era con una bambina al collo, lui con lo zio. “Non mi riconosci? Sono quella che ti ha dato il latte…….”. Poi lo aveva rivisto ai funerali del nonno: era bello, aveva 12 anni ed era alto quanto lei. Già si diceva che fosse un genio.
Lo rivide quando stava per partire per Milano, chiamato alla corte degli Sforza: il bambino che lei aveva messo al mondo era diventato ingegnere ducale, progettava le città, imbrigliava le acque, dipingeva ritratti lodati perfino dai poeti.
Molti anni dopo, quando suo marito Toni morì, Caterina decise di raggiungere Leonardo a Milano. Là, malata e morente, con le mani strette nelle mani del figlio, sul letto di morte si sentì chiamare, per la prima e l’ultima volta: ”Madre”.

Numero1421 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Leonardo da Vinci è in Francia, nel piccolo castello di campagna di Clos-Lucé, messogli a disposizione dal Sovrano francese Francesco I, suo grande ammiratore, sponsor e patrono. La località è vicino a Cloux, presso Amboise. Vi si trova in compagnia del suo fedele Francesco Melzi e del fidato domestico Batista de Vilanis. Salaì non c’è. Solamente quando la salute di Leonardo peggiorerà, egli tornerà ad assistere il suo Maestro ed amante. Il 10 ottobre 1517, vengono in visita a Leonardo il Cardinale Luigi d’Aragona e il suo segretario Antonio De Beatis. Nello studio di pittura, si trovano esposti tre dipinti. Uno grande è la “Madonna col bambino e sant’Anna”, il secondo, è il “San Giovanni”, il terzo, il più piccolo, è la “Gioconda”. Antonio De Beatis rivolge a Leonardo la domanda: chi era la dama ritratta nel quadro e chi glielo aveva commissionato. Risponde Leonardo che si trattava di una dama fiorentina e che la committenza era del Magnifico Giuliano de’ Medici. Ma questi non poteva conoscere Lisa Gherardini, perché in quegli anni era in esilio, lontano da Firenze. Non si parlò, dunque, di Monna Lisa Gherardini e di Francesco del Giocondo. Ma, Leonardo equivocò, credo volutamente, sulla provenienza della dama dipinta, probabilmente perché Giuliano non glielo aveva mai detto e poi, anche, per depistare la curiosità dei visitatori, perché il Cardinale d’Aragona apparteneva ad una casata ostile ai Medici. Così facendo, difese anche la privacy e i sentimenti del suo patrono Giuliano, morto da un anno.
Quanto riferito è contenuto storico di una approfondita ricerca del Prof. Roberto Zapperi, che ribadisce e conferma l’ipotesi, fatta già diversi decenni prima (1957) dal Prof. Carlo Pedretti, il maggior esperto  della vita di Leonardo. La figura di donna dipinta sul quadro conosciuto come “La Gioconda”, non è Monna Lisa Gherardini e il committente non è suo marito Francesco del Giocondo. Si tratterebbe, dunque, di Pacifica Brandani? E chi può dirlo?
Qui si innesta la mia perplessità. Leonardo avrebbe dovuto rappresentare il volto di quella gentildonna. Ma come fa il volto della Gioconda ad assomigliare a quello della Pacifica, quando sappiamo che Leonardo non l’aveva mai vista e ne aveva avuto solo una descrizione sommaria da Giuliano de’ Medici? Può essere un ritratto somigliante al vero, se dipinto a memoria o a fantasia? Va bene essere genio, ma fino a questo punto….
Giuliano aveva chiesto, verosimilmente , a Leonardo di rappresentare il volto di una madre, che sorride benignamente ad un bambino orfano; doveva trasparire solo l’atmosfera della serenità e dell’affetto materno. Il piccolo Ippolito non aveva mai visto sua madre. La somiglianza con il soggetto reale non era richiesta, non era neanche un “optional”.
Stando alle stupefacenti ricerche del Dott. Cotte, ci sarebbero tre dipinti sotto quello definitivo.
Il primo potrebbe essere il ritratto della Lisa Gherardini, iniziato e impostato con certi dati somatici, fra cui le famose sopracciglia e fossette, che non si vedono nel volto finale. Leonardo, come faceva spesso e, come dice il Vasari, non lo aveva finito. Infatti non risulta che fosse stato pagato. Ma il Maestro aveva conservato la tavola già impostata. Alla richiesta di Giuliano di dipingere un volto femminile di madre, a memoria o ad immaginazione, Leonardo, è la mia ipotesi, adoperò la stessa tavola, apportandovi le opportune modifiche  e inserendo anche i particolari decorativi che potessero connotare il rango di nobildonna della Pacifica Brandani. Probabilmente, ci fu ancora una ulteriore fase di ripensamento, forse dovuta ai suggerimenti che Giuliano poteva dargli sui particolari. Quindi la reimpostazione di un altro volto. Ma dopo la morte del suo patrono e committente, cosa fece Leonardo del dipinto? Non aveva nessuno a cui consegnarlo. Lo portò, allora, con sé e continuò a dipingerlo e ritoccarlo con infinito amore, modificando ancora una volta i particolari troppo specifici del volto precedente, ivi compresi, spilloni con perle, drappeggi decorati di stelle e quant’altro, perché ormai aveva in mente di rappresentare per sé, e soltanto per sé, un volto che era, a lui, il più caro e che lui non aveva mai guardato abbastanza: quello di sua madre.
Come intuì Sigmund Freud, in un suo geniale saggio sull’infanzia di Leonardo, pubblicato nel 1911, il sorriso conturbante della supposta “Gioconda”, è un ricordo di Caterina, la madre dell’artista fiorentino e l’unica donna che egli abbia veramente amato.
Come ho già scritto in premessa, io non intendo qui profferire una verità storica inoppugnabile. Siamo nel campo dei più sottili e profondi sentimenti umani, dove i fatti e i comportamenti sono meno impositivi delle sensazioni e delle intuizioni. E, una di queste intuizioni, modesta e dimessa, quanto si voglia, ma mia, mi dice che, davanti alla incertezza degli accadimenti, debba prevalere, sempre e anche in questo caso, la strada del cuore: sì, il sorriso della figura femminile del dipinto più famoso del mondo è il sorriso di una madre. Questo è il suo valore universale e intramontabile.

Dedicato a mia madre.

P.S. : Chi l’ha conosciuta lo può confermare. Secondo me, mia madre assomigliava, se non molto, certamente abbastanza, alla figura femminile denominata “La Gioconda”.