RISERVATO A COLORO CHE HANNO STUDIATO IL LATINO
Piccolo ripasso e approfondimento sulla pronuncia delle lettere e delle parole in latino.
Io stesso riscopro e apprendo ora alcune cose che riguardano le mie conoscenze del latino del Liceo Classico.
da QUORA
Nella pronuncia ecclesiastica del latino, la parola “amicae” viene letta come “amice” o “amiche”?
Amice: la pronuncia “amike” è dovuta a evoluzione. Ossia il Latino dell’epoca di Cicerone o Cesare pronunciava in modo molto diverso dalla pronuncia che vi viene insegnata a scuola che è la pronuncia del latino ecclesiastico. Ma in realtà è la pronuncia del Latino di epoca tarda: essa comincia a cambiare alla fine del II secolo, cioè più o meno all’ epoca della dinastia dei Severi e diventa la pronuncia predominante a partire dal III secolo. Così la C si pronunciava davanti a vocale K; si diceva cioè Kikero e non Cicero; e il dittongo ae si pronunciava ae e non e: Kaesar e non Cesar, se non addirittura ai che era la pronuncia di questo dittongo agli inizi del primo secolo a. Cr. , come prova ad esempio la iscrizione della edicola di Giuturna nel Foro Romano: Iuturnai Sacrum ( e non Iuturnae). E il famoso TI si pronunciava ti e non z . Lo stesso in Greco: la pronuncia moderna non è assolutamente quella degli Antichi: un esempio facile e’ Athenai che in greco moderno si pronuncia Athine o, addirittura, Athina.
Hanno senso soltanto due pronunce. Quella Ecclesiastica, perché è la pronuncia di una lingua viva, lingua ufficiale di uno stato (Vaticano) e quella classica ricostruita o restituta. Però io odio il fatto che sia usata a scuola, perché, puntualmente poi, quando arrivi all’università e devi studiare la storia della lingua e la filologia, e confrontarti con altri studiosi seri di latino, quella pronuncia non ha senso. L’unica che ha senso, è la pronuntiatio restituta, ovvero la forma ricostruita della pronuncia classica. Ti faccio un esempio: La pronuntiatio ecclesiastica rende la frase di Brenno, VAE VICTIS (GUAI AI VINTI), come “vé victis”. Ora prova ad immaginare come possa mai aver fatto VAE a trasformarsi nell’italiano “guai” (ma anche in “ahi!” e nel napoletano “ué!”). Prendi invece la pronuntiatio restituta di VAE che è “uae”, con la u semiconsonantica come nell’italiano “uomo”, l’accento sulla a e la e finale breve e chiusa, quasi indistinguibile da una i (la trascrizione in caratteri fonetici IPA sarebbe /’waj/ oppure /’wae̯/). Adesso è chiaro come si tratti della stessa parola che si è “evoluta”? Chiaro, no? VAE > guai. Se rifletti sul fatto che il cane “guaisce” e che il significato originale di “guaio”, anche come usato da Dante (“che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio”), vuol dire lamento, suono di pianto, tutto torna, giusto? Aggiungo che la parola in questione, VAE, è strettamente imparentata con l’inglese (germanico) “woe” e che entrambe le parole derivano da una radice indeuropea ricostruita *wai.
Ci sono migliaia di altri esempi che dimostrano chiaramente che la restituta è la pronuncia che più si avvicina a quella che doveva essere del latino classico. Chi lo nega (di solito preti) è in malafede. Ti faccio solo un altro esempio tratto proprio dalla nomenclatura di chiesa. L’italiano “parrocchia” viene dal latino PAROECIA. La pronuncia ecclesiatica che insegnano a scuola in Italia sarebbe “parécia”, quella restituta “paròechia” o “paròichia”. Cosa ci dice la logica? Ti lascio con un ultima domanda. Perché il soprannome di Mussolini era “duce” ma diciamo “i duchi” se entrambe le parole derivano dal latino DUX?
Se vuoi, in un post ulteriore, ti spiego bene come è la pronuntiatio restituta o pronuncia scientifica e ti faccio altri esempi a dimostrazione di ogni regola.
Come è avvenuto il processo di recupero della corretta pronunzia del latino?
Ci sono moltissimi indizi per la ricostruzione di tutti i suoni del latino. Sono particolarmente importanti i prestiti latini in altre lingue, parole latine scritte in altri alfabeti (soprattutto in greco), i testi dei grammatici latini, le iscrizioni e graffiti con i loro “sbagli”, la metrica e anche le lingue romanze.
Vediamo:
- ⟨C⟩ latina = /k/: ad esempio, in tedesco ci sono i prestiti Kiste, Keller, Kaiser ‘cassa, cantina, imperatore’ < CISTA, CELLA, CAESAR, in basco si ha, fra l’altro, gela, bake e kipula < CELLA, PACE, CEPULLA. Inoltre c’è, ovviamente, il sardo logudorese che ha conservato la pronuncia velare, e un’ipotetica velarizzazione spontanea (cioè, che il sardo chena deriverebbe da un antico /ʧena/ o /ʦena/) è pressoché impossibile da un punto di vista fonetico, mentre la palatalizzazione si è verificata pure altrove (cf., ad esempio, le parole tedesche Kinn e Kiste con chin e chest in inglese o anche le palatalizzazioni secondarie in rumeno o ladino: QUID > *ki > ci /ʧi/ ‘che cosa’ in ladino, ma che in italiano).
- ⟨V⟩ latina = /u w/: il suono /v/ (di vino) non faceva parte dell’inventario fonematico latino, cioè ⟨V⟩ poteva stare per /u/ o per /w/ (di uomo), ad esempio in VENVS che si pronunciava U̯enus. Il primo indizio ci dà la grafia: è molto probabile che i Romani avrebbero usato due grafemi diversi per scrivere suoni talmente diversi come /u/ e /v/. Siccome però /w/ è soltanto la “variante semiconsonantica” di /u/ è plausibile usare lo stesso grafema, tanto più che hanno fatto così anche con la I che, a sua volta, poteva essere sia vocale sia approssimante (IVLIVS). (Il latino classico non aveva i grafemi ⟨U J⟩). Un indizio più diretto (anche se non l’ho mai visto citato altrove) si ha nelle forme del passato remoto: la desinenza -ò della terza singolare presuppone un più antico -au, desinenza che è anche conservata in siciliano. Cioè, se CANTĀVIT fosse pronunciato */kantaːvit/, il risultato italiano sarebbe *cantave. Siccome però la pronuncia era */kantaːwit/, la grafia CANTĀVIT > *cantau̯t > cantau̯ > cantò non pone problemi.
- ⟨L⟩ latina = [l ~ ɫ]: in questo caso erano i grammatici a informarci che il fonema /l/ aveva gli allofoni [l] (in contesto palatale) e [ɫ] (di hall inglese, fala portoghese, in contesto velare). Infatti, chiamavano la prima “exilis” e la seconda “pinguis”. Inoltre, ci sono anche altri indizi per tale pronuncia, ad esempio la coppia volō ‘voglio’ e velim (congiuntivo di volō): ci si aspetterebbe *velō invece di volō. Tuttavia, la vocale velare -ō ha portato alla pronuncia velare [-ɫ-] che ha poi innescato la velarizzazione della *e radicale.
- ⟨R⟩ latina = /r/: la /r/ latina era certamente velare (cioè, non “moscia”), perché altrimenti la /s/ non avrebbe subito il rotacismo (/s/ > /r/: plūs, ma plūr-ālis): è un fenomeno che interessa soltanto consonanti frontali, appunto perché anche l’esito, la /r/ è un suono frontale. Un ipotetico passaggio /s/ > [ʁ ʀ] è quasi impensabile.
- ⟨H⟩ latina = [h] ~ ∅: che, un tempo, la ⟨H⟩ latina corrispondesse proprio al suono [h], può essere desunto sia dalla metrica in alcune poesie sia partendo dalla ricostruzione del proto-indoeuropeo o con il confronto con altre lingue indoeuropee antiche. Tuttavia, sappiamo anche molto bene che già in età classica non era più pronunciata. A questo riguardo, sono una fonte molto importante i graffiti pompeiani che presentano sia parole con ⟨H⟩ omesse, ad es. ortu per hortum ‘giardino (orto)’: […] sic te amet que custodit ortu Venus (CIL IV 2776) ‘così ti ami Venere che custodisce il giardino’, sia ipercorrezioni con ⟨H⟩ anetimologica “restituita”, ad es. have per ave: Cresces, have, anima / dulcis et suavis, (CIL IV 1131).
- ⟨M⟩ latina = [m] ~ ∅: il graffito succitato con ortu per hortum attesta, del resto, anche il dileguo di -m finale. Un altro indizio ne è l’assenza totale di tracce nella Romània (con eccezione dei monosillabici CUM, SUM > con, son(o)).
- La quantità delle vocali è attestata perfettamente dalla metrica, ma anche dalle lingue romanze. La quantità latina si rispecchia nelle qualità italiane: DĬCTŬ > detto, ma FĪLU > filo; CĒNA > céna, ma PĔRDŌ > pèrdo ecc.
N.d.R.: Ripasso di fonetica con due definizioni.
VELARE: velare In fonetica, articolazione (consonante, vocale, fonema ecc.) in cui il dorso della lingua tocca o fronteggia a distanza variabile il velo palatino. In italiano sono velari le consonanti k, ġ, ṅ (cioè n davanti a un’altra velare, per es., granchio ‹ġràṅkio›) e anche le vocali (dette anche labiovelari) ò, ó, u.
PALATALE: In linguistica si dice di suono articolato in un punto del palato duro. Si hanno vocali palatali, dette anche anteriori ‹ä, è, é, i› e consonanti palatali., la cui articolazione richiede, secondo i casi, un accostamento o un momentaneo contatto tra il dorso della lingua e un punto del palato.
In fonetica articolatoria, una consonante palatale è una consonante, classificata secondo il proprio luogo di articolazione. Essa viene articolata accostando il dorso della lingua al palato, in modo che l’aria, costretta dall’ostacolo, produca un rumore nella sua fuoriuscita.