Numero3446.

 

LEGGI  DEL  LINGUAGGIO  SCOPERTE  DALLA  NEUROSCIENZA

 

Le preoccupazioni dette diventano reali.
Il cervello trasforma la paura verbalizzata in profezia.

Il tuo modo di parlare crea le tue relazioni.
I pattern linguistici determinano la qualità dei rapporti.

Cambia le parole e cambi i pensieri.
Il linguaggio modifica direttamente i processi mentali.

Le parole controllano il corpo.
Ogni organo risponde al linguaggio che usiamo.

Le abitudini linguistiche decidono la felicità.
Come parli determina quanto sarai felice nella vita.

 

@healingsoulmusic436.

Numero3086.

 

da  QUORA

 

Scrive Vincenzo Politi, corrispondente di QUORA

 

Quali cose il mondo invidia all’Italia?

 

  1. Cose molto superficiali, come il cibo, il bel tempo e la moda. Questo può essere un limite per gli italiani stessi. Immagina un professionista italiano che va all’estero e che NON lavora nel campo della cucina o della moda. Non dico che incontrerà ostilità ma, inconsciamente, verrà preso poco sul serio. Un po’ come un giapponese che va a lavorare in Europa o in America: se si occupa di tecnologia e intelligenza artificiale, allora va bene, perché “i giapponesi sono bravi in quelle cose”, ma se vuole fare lo stilista, allora incontrerà delle resistenze. Stessa cosa per gli italiani che vogliono lavorare in campi che non rientrano in quelli in cui, per stereotipi, “gli italiani sono bravi”.
  2. Cose che gli italiani stessi non apprezzano affatto: l’arte, le città, la storia della musica classica (Verdi, Bellini, Rossini, Donizetti, eccetera), la storia del cinema (neo-realismo, Fellini, Visconti, Antonioni, eccetera). All’estero siamo conosciuti per questo, in Italia non sappiamo manco chi sia Bernini. Molti apprezzano anche alcuni scrittori italiani: Pavese, Calvino, Eco ed altri sono conosciuti in tutto il mondo. In Italia, leggiamo Moccia e Fabio Volo, al massimo la biografia di Corona. La lingua italiana, pur essendo praticamente inutile, visto che è parlata solo in Italia e in qualche cantone Svizzero, è una delle più studiate al mondo – dicono addirittura che sia più studiata del francese! Questo perché, all’estero, la lingua italiana è considerata chic, una lingua di nicchia, una lingua culturale. Chi studia canto lirico deve sapere soprattutto l’italiano, visto che i libretti delle più grandi opere sono scritte nella nostra lingua; a seguire, vengono francese e tedesco. Chi studia storia dell’arte, anche all’estero, prima o poi con la lingua italiana dovrà farci i conti. Tutti amano anche l’estrema eleganza e la naturale musicalità dell’italiano. Questo, all’estero. E nelle strade italiane? Altro che estrema eleganza e musicalità dell’italiano! Congiuntivi sbagliati, parole pronunciate male, una totale mancanza di rispetto per le regole grammaticali di base. Un’ignoranza diffusa che va dal cosiddetto popolo fino alle classi politiche attuali. E, per giunta, tutti che si vantano della loro totale e imbarazzante ignoranza. Pare che saper coniugare i verbi, di questi tempi, sia troppo ‘radical chic’. Poi, cosa voglia dire, ‘radical chic’, nessuno te lo sa dire. Per non parlare di quelli che si credono ‘international’ e creano mostruosità aberranti tipo ‘apericena’, o parole in inglese, o in una specie di inglese, pronunciate malissimo e ‘italianizzate’ alla bell’e meglio. Una coltellata ai timpani sarebbe meno dolorosa.

In conclusione, all’estero ci invidiano le cose belle ma che, alla fine, non sono poi così fondamentali (si può vivere pure senza la pizza e il mandolino), oppure cose che appartengono al patrimonio storico e culturale dell’Italia e che, paradossalmente, gli italiani stessi stanno sistematicamente distruggendo. Un po’ come l’opera di “distruzione culturale” compiuta dagli sciacalli dell’ISIS, che per difendere il Medio Oriente lo stanno letteralmente demolendo, più di quanto avrebbe potuto fare il tanto temuto Occidente infedele e peccatore!

Numero2979.

 

E S T    M O D U S    I N    V E R B I S           ( C’ È    U N    M O D O    N E L    D I R E    L E    C O S E )

 

Una circonlocuzione elegante,

accademicamente cruscante,

è un ipocrita e surrettizio

trucco della mente, un artifizio

per ingentilire un po’ il pensiero

che non è, per questo, meno sincero.

Una espressione diretta, papale,

pure se sembra che suoni un po’ male,

ha, però, la sua chiara verità,

persino con palese volgarità.

Non c’è regola nel dire le cose,

che siano interessanti o noiose.

Così, nella scelta delle parole,

talvolta, quello che ci va ci vuole.

Numero2756.

 

RIFLESSIONE  SUI  RIFLESSIVI

 

Nella lingua italiana un verbo riflessivo è un verbo che, nella propria coniugazione, è sempre accompagnato da un pronome riflessivo (mi, ti ci, si, vi) ,viene di solito usato quando il complemento oggetto di una frase ne è anche soggetto. Permette di far ricadere l’azione sul soggetto.

Dal punto di vista semantico, spesso i verbi riflessivi hanno la caratteristica di far coincidere l’agente e il paziente (in italiano, il soggetto e il complemento oggetto). In questo senso i linguisti usano anche i termini auto benefattivo e medio.

Categorie di verbi riflessivi

  • Riflessivo proprio

Nelle frasi con un verbo riflessivo proprio il soggetto dell’azione corrisponde al complemento oggetto. Questa categoria può essere considerata l’unica e vera categoria di verbi riflessivi.

Es. Mario si pettina (=Mario pettina se stesso)

Es. Sara si lava (=Sara lava se stessa)

  • Riflessivo apparente

Nei verbi riflessivi apparenti, la particella riflessiva rappresenta il complemento di termine, essendo già presente un complemento oggetto.

Es. Luigi si asciuga i capelli (=Luigi asciuga i capelli a se stesso)

Es. Luisa si pettina i capelli (=Luisa pettina i capelli a se stessa)

  • Riflessivo reciproco

Nei verbi riflessivi reciproci ci sono due soggetti che compiono l’azione descritta (predicato) a vicenda.

Es. Sara e Mario si sposano (= Mario sposa Sara e Sara sposa Mario)

Es. Elena e Laura si scrivono (= Elena scrive a Laura e Laura scrive a Elena)

  • Riflessivo pleonastico

Nei verbi riflessivi pleonastici la particella riflessiva non ha un ruolo fondamentale, infatti se questa viene tolta, il senso della frase non varia. Questa particella riflessiva ha la funzione di rafforzare il significato del verbo esprimendo piacere o soddisfazione nel compimento dell’azione espressa dal verbo.

Es. Si è mangiato una pizza (= Ha mangiato una pizza)

Es. Si è bevuto l’aranciata (= Ha bevuto l’aranciata)

Es. Mi sono comprata una gonna (= Ho comprato una gonna)

Es. Mi sono fatta un regalo per aver superato l’esame (= Ho comprato un regalo per me quale premio per il mio esame).

 

N.d.R.: Ho fatto questa premessa esplicativa per introdurre il seguente mio dubbio personale riguardo a due verbi riflessivi che sentiamo tutti i giorni: sposarsi e laurearsi.

Mi sono sposato: non vuol dire che io ho sposato me stesso. Infatti, ho sposato la donna, fidanzata o compagna, che è salita con me sull’altare o nell’ufficio del Sindaco.

SPOSO e SPOSA

ETIMOLOGIA dal latino sponsus e sponsa, participio passato del verbo spondére ‘promettere solennemente, garantire’.

Oggi, le parole sposo e sposa suonano sempre dolci, tenere: gli sposi si chiamano così solo nel giorno del matrimonio o poco dopo; essi sono sempre, per definizione, “novelli”. Il padre accompagna la sposa all’altare, lo sposo può baciare la sposa dopo la celebrazione, gli sposi sono in luna di miele nel primo mese dopo le nozze. Dopodiché, si tramutano in banali mariti e mogli. Chiamare, in seguito, il proprio coniuge “sposo” o “sposa” significa assurgere a vette di pura, irresistibile poesia.

In realtà, in latino gli sponsi erano tali prima del fatidico giorno matrimoniale (le nuptiae, da cui l’italiano nozze): erano i fidanzati, i promessi sposi (quest’uso della parola è oggi, in italiano, obsoleto o regionale). La parola sponsus, però, non era altro che il participio passato del verbo spondére, cioè “promettere solennemente, garantire”. A sua volta, poi, spondére derivava dal greco σπένδω (spéndo), che indicava anzitutto l’azione di versare un liquido, poi il fare una libagione per sancire ritualmente un accordo, e infine, semplicemente, fare un patto o un trattato. Dalla stessa radice greca derivano anche rispondere (anche nel senso di “essere responsabile per qualcosa”), corrispondere e sponsor (che in latino era il mallevadore, il garante). Anche sponsus, peraltro, con un cambio di declinazione diventava la malleveria, la garanzia. Insomma, è chiaro che qui si parla di accordi suggellati, e delle relative assicurazioni richieste e concesse. In una parola: affari, business.

A tutto questo noi italiani, quando pronunciamo la parola sposa, con quel suo dolce suono spirante vita in fiore e rosei orizzonti, non pensiamo affatto. Non così invece gli ispanofoni, probabilmente, quando pronunciano la parola esposa. Intanto, rispetto all’italiano sposa, lo spagnolo esposa non indica la fidanzata o la sposa novella (che si traducono con novia) bensì, formalmente, la moglie, la consorte. Soprattutto, però, le esposas (solo al plurale), oltre che le mogli sono anche le manette, mentre il verbo esposar non dà proprio adito a dubbi: significa “ammanettare” e nient’altro.

Piacerebbe, agli inguaribili romantici, pensare che si tratti di una circostanza casuale, di una coincidenza. Ahinoi, no: la cosa è proprio intenzionale. Lo spiritosone che ha partorito per primo quest’insolente metafora intendeva precisamente abbinare spose e manette in quanto entrambe nemiche dell’indomita libertà del maschio.

È vero che anche noi italiani non esprimiamo un concetto molto diverso con la parola scapolo, derivante dal latino excapulare, letteralmente “liberarsi dal cappio”.

Quindi, anche etimologicamente, io mi sposo sembra essere una espressione verbale impropriamente detta ed adoperata.

In realtà, chi è preposto alla funzione di sposare qualcuno dovrebbe essere il sacerdote o il sindaco, quindi gli interessati alle nozze sembra che subiscano un’azione fatta da altri da sé.
Attenzione, però! Secondo la Chiesa Cattolica, i ministri del matrimonio sono lo sposo e la sposa. Il sacerdote, pur se presente, non è ministro del sacramento delle nozze. Cosa questa non molto sottolineata e conosciuta a livello popolare. Sono gli sposi che, RECIPROCAMENTE, si impegnano nel contratto del matrimonio, mentre gli officianti dovrebbero limitare la loro sfera di competenza alla ratifica amministrativa. In questo senso, dunque, gli sposi si sposano, l’un l’altro, si prendono promettendosi la continuità della vita in comune. Io mi sposo, ancora di più, è espressione impropria.

 

Io mi sono laureato.

Cosa vuol dire laurearsi?
È il riconoscimento ufficiale del compimento di un corso di studî universitario, che in Italia dà diritto al titolo di dottore: conferire, conseguire, prendere la laurea.
Anche in questo caso, la riflessività dell’azione del verbo è piuttosto opinabile: non è il dottorando o laureando che laurea  se stesso, ma è la Commissione d’esame di Laurea che conferisce la laurea a chi ha compiuto il corso di studi, coronato dalla presentazione di una Tesi di Laurea. Quindi si dovrebbe dire più propriamente: ho conseguito la laurea. Come espressione riflessiva, io mi sono laureato sembra essere auto benefattiva e pleonastica.
La laurea (formalmente anche diploma di laurea) è un titolo di studio universitario rilasciato da un istituto di istruzione superiore, generalmente un’università, dopo aver completato l’intero ciclo di studi previsto da ogni facoltà.
La parola deriva dal latino laurea, femminile di laureus (cinto d’alloro, laurus in lingua latina). Questo aggettivo poteva inoltre essere preceduto dal sostantivo corona e, in tal caso, indicava la corona d’alloro, il lauro imperiale o poetico.
In Italia è tradizione recente porre una corona di alloro sul capo di uno studente che ha conseguito la laurea.
N.d.R.: amara considerazione! Riconosco adesso, solo dopo aver scritto la presente riflessione, che i due argomenti di cui ho trattato, cioè matrimonio e corso di studi, sono gli unici due che nella mia vita hanno avuto come risultato un “nulla di fatto”, cioè un fallimento. È stata una riflessione molto “riflessiva”.

 

 

 

 

Numero2651.

 

G L I   I T A L I  A N I   E   L’ I N G L E S E

 

Da Quora

 

Perché tanti italiani non conoscono l’inglese anche se lo hanno studiato a scuola?

Il motivo principale è scomodo da dire, ma è la verità: la maggior parte degli insegnanti italiani non sono in grado di insegnare l’inglese vivo, semplicemente perché non hanno dovuto studiarlo per laurearsi. Nella maggior parte dei casi, hanno frequentato Lingue e Letterature Straniere, dove gli esami sono in italiano e ci si specializza nello studio della letteratura, non della LINGUA. Le programmazioni delle scuole superiori, quindi, sono improntate sulla (non) preparazione di questi esperti di storia delle letteratura. Di conseguenza, per un preciso calcolo e manifesta incapacità, la scuola italiana non fornisce ciò che serve ai ragazzi, ma ciò che fa comodo ai docenti. I quali, per convenienza, naturalmente ingigantiscono l’importanza della letteratura. Per forza, sono in grado di insegnare solo quella e in quella si rifugiano.

Nella scuola italiana si insegna pertanto la base nozionistica: liste di vocaboli alle elementari (animali, colori e oggetti per 5 anni) e grammatica a ripetizione alle medie (facile, basta dire la regola ai ragazzi e assegnare esercizi all’infinito). Nessuno insegna a parlare fluentemente o a leggere un giornale.

Arrivati al liceo, la mazzata finale: i ragazzi italiani vengono letteralmente imbottiti di letteratura inglese, la cui utilità – rispetto agli obiettivi – è zero. Non si capisce perché un sedicenne italiano debba essere un esperto dei simbolismi di James Joyce e Virginia Woolf, ma non sia in grado di fare una semplice conversazione, mandare un’email, sostenere un colloquio di lavoro, comprendere un film in lingua originale.

Motivo? La maggior parte degli insegnanti italiani non hanno le competenze linguistiche per insegnare la lingua viva – comunicazione, scrittura, interazione reale e al passo con i tempi. Perché, per poterlo fare, è necessario avere un livello di inglese almeno B2-C1.

Per insegnare letteratura, invece, l’inglese non è necessario saperlo. Si tratta perlopiù di nozioni da memorizzare. Le lezioni si possono tenere in italiano (nessuno lo vieta), si studia la traduzione dei brani di letteratura e la biografia di scrittori e poeti a memoria. I liceali italiani, pertanto, sanno che THOU era antico per YOU (informazione fondamentale), scrivono dotte dissertazioni sullo stream of consciousness (corrente di consapevolezza) (che manco a Oxford), ma non sono in grado di scrivere un commento su Instagram, di interagire con un coetaneo in inglese, di sostenere una banale conversazione sull’attualità, di fare una telefonata per prenotare un volo.

Approfondire la letteratura compete all’università e deve essere una scelta volontaria, perché di nicchia. Negli anni formativi va insegnata la LINGUA VIVA a 360 gradi, non il passato letterario. Così si azzoppa la conoscenza dell’inglese proprio negli anni in cui ci sarebbe il tempo e l’energia per impararlo. Da insegnante, infatti, vedo quanto drammatico è doversi mettere a studiare l’inglese a 40 anni, quando diventa una vera impresa, per ovvi motivi di tempo – e di cervello. Perché se è vero che “una lingua la impari quando vuoi”, è purtroppo altrettanto vero che la plasticità del cervello giovane fa un’enorme differenza. Direi abissale.

Il risultato di questa scelta di comodo – per gli insegnanti – è che, a fronte di almeno un decennio di inglese (!), i ragazzi italiani usciti dal liceo non sanno nemmeno ordinare una birra al pub. Non capiscono, non parlano. L’inglese per loro è una lingua morta.

Per fare un parallelo: che ne direste se, a scuola guida, invece di insegnarvi a GUIDARE un’automobile e a decifrare i cartelli stradali, vi facessero lezioni interminabili sulla vita di Enzo Ferrari o sulla storia della Mercedes-Benz? Ecco, questo fa la scuola italiana ai propri ragazzi. Li intontisce a forza di contenuti teorici e non dà loro gli strumenti pratici per utilizzare la lingua che, piaccia o no, fa funzionare il mondo intero.

L’inglese vivo è la patente per il mondo. E chi non ce l’ha rimane a piedi.

 

Eleonora  Andretta

 

E che ne è della pronuncia dell’Inglese?

 

Per imparare la pronuncia inglese devi avere degli insegnanti di madrelingua, non insegnanti italiane che spesso soffrono di un forte accento dialettale meridionale e che in Inghilterra avranno speso al massimo qualche settimana in famiglia o in vacanza.

Il problema più diffuso tra gli studenti è quello di non riuscire a comprendere l’inglese parlato. Sanno benissimo la grammatica, meglio degli stessi inglesi, sanno a volte tradurre un testo scritto, ma non capiscono un accidente quando interloquiscono con un inglese madrelingua.

Questo perché si insegna la pronuncia nelle scuole italiane da persone spesso poco preparate le quali insistono sulla pronuncia di una singola parola, come se gli inglesi parlassero facendo una pausa ad ogni parola. Gli inglesi parlano come noi, come noi usano un vocabolario abbastanza ristretto, utilizzano-come noi- molti modi di dire e parlano senza molte interruzioni. La pronuncia di una parola va vista nel contesto della frase e può variare moltissimo a seconda che ci cada sopra o no l’accento ritmico. La maggior parte delle vocali è semimuta , diventa una scevà o schwa , foneticamente descritta come una “e” rovesciata “ə”, quando non ci cade sopra l’accento. Bisogna apprendere le frasi intere e non le singole parole. Ecco perché 99 su 100 non comprendono cosa dice l’interlocutore, la radio o il testo di una canzone.

 

Un insegnante d’Inglese.

 

Numero2649.

 

RISERVATO A COLORO CHE HANNO STUDIATO IL LATINO

Piccolo ripasso e approfondimento sulla pronuncia delle lettere e delle parole in latino.

Io stesso riscopro e apprendo ora alcune cose che riguardano le mie conoscenze del latino del Liceo Classico.

 

da QUORA

 

Nella pronuncia ecclesiastica del latino, la parola “amicae” viene letta come “amice” o “amiche”?

Amice: la pronuncia “amike” è dovuta a evoluzione. Ossia il Latino dell’epoca di Cicerone o Cesare pronunciava in modo molto diverso dalla pronuncia che vi viene insegnata a scuola che è la pronuncia del latino ecclesiastico. Ma in realtà è la pronuncia del Latino di epoca tarda: essa comincia a cambiare alla fine del II secolo, cioè più o meno all’ epoca della dinastia dei Severi e diventa la pronuncia predominante a partire dal III secolo. Così la C si pronunciava davanti a vocale K; si diceva cioè Kikero e non Cicero; e il dittongo ae si pronunciava ae e non e: Kaesar e non Cesar, se non addirittura ai che era la pronuncia di questo dittongo agli inizi del primo secolo a. Cr. , come prova ad esempio la iscrizione della edicola di Giuturna nel Foro Romano: Iuturnai Sacrum ( e non Iuturnae). E il famoso TI si pronunciava ti e non z . Lo stesso in Greco: la pronuncia moderna non è assolutamente quella degli Antichi: un esempio facile e’ Athenai che in greco moderno si pronuncia Athine o, addirittura, Athina.

Hanno senso soltanto due pronunce. Quella Ecclesiastica, perché è la pronuncia di una lingua viva, lingua ufficiale di uno stato (Vaticano) e quella classica ricostruita o restituta. Però io odio il fatto che sia usata a scuola, perché, puntualmente poi, quando arrivi all’università e devi studiare la storia della lingua e la filologia, e confrontarti con altri studiosi seri di latino, quella pronuncia non ha senso. L’unica che ha senso, è la pronuntiatio restituta, ovvero la forma ricostruita della pronuncia classica. Ti faccio un esempio: La pronuntiatio ecclesiastica rende la frase di Brenno, VAE VICTIS (GUAI AI VINTI), come “vé victis”. Ora prova ad immaginare come possa mai aver fatto VAE a trasformarsi nell’italiano “guai” (ma anche in “ahi!” e nel napoletano “ué!”). Prendi invece la pronuntiatio restituta di VAE che è “uae”, con la u semiconsonantica come nell’italiano “uomo”, l’accento sulla a e la e finale breve e chiusa, quasi indistinguibile da una i (la trascrizione in caratteri fonetici IPA sarebbe /’waj/ oppure /’wae̯/). Adesso è chiaro come si tratti della stessa parola che si è “evoluta”? Chiaro, no? VAE > guai. Se rifletti sul fatto che il cane “guaisce” e che il significato originale di “guaio”, anche come usato da Dante (“che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio”), vuol dire lamento, suono di pianto, tutto torna, giusto? Aggiungo che la parola in questione, VAE, è strettamente imparentata con l’inglese (germanico) “woe” e che entrambe le parole derivano da una radice indeuropea ricostruita *wai.
Ci sono migliaia di altri esempi che dimostrano chiaramente che la restituta è la pronuncia che più si avvicina a quella che doveva essere del latino classico. Chi lo nega (di solito preti) è in malafede. Ti faccio solo un altro esempio tratto proprio dalla nomenclatura di chiesa. L’italiano “parrocchia” viene dal latino PAROECIA. La pronuncia ecclesiatica che insegnano a scuola in Italia sarebbe “parécia”, quella restituta “paròechia” o “paròichia”. Cosa ci dice la logica? Ti lascio con un ultima domanda. Perché il soprannome di Mussolini era “duce” ma diciamo “i duchi” se entrambe le parole derivano dal latino DUX?
Se vuoi, in un post ulteriore, ti spiego bene come è la pronuntiatio restituta o pronuncia scientifica e ti faccio altri esempi a dimostrazione di ogni regola.

Ci sono moltissimi indizi per la ricostruzione di tutti i suoni del latino. Sono particolarmente importanti i prestiti latini in altre lingue, parole latine scritte in altri alfabeti (soprattutto in greco), i testi dei grammatici latini, le iscrizioni e graffiti con i loro “sbagli”, la metrica e anche le lingue romanze.

Vediamo:

  • ⟨C⟩ latina = /k/: ad esempio, in tedesco ci sono i prestiti Kiste, Keller, Kaiser ‘cassa, cantina, imperatore’ < CISTA, CELLA, CAESAR, in basco si ha, fra l’altro, gela, bake e kipula < CELLA, PACE, CEPULLA. Inoltre c’è, ovviamente, il sardo logudorese che ha conservato la pronuncia velare, e un’ipotetica velarizzazione spontanea (cioè, che il sardo chena deriverebbe da un antico /ʧena/ o /ʦena/) è pressoché impossibile da un punto di vista fonetico, mentre la palatalizzazione si è verificata pure altrove (cf., ad esempio, le parole tedesche Kinn e Kiste con chin e chest in inglese o anche le palatalizzazioni secondarie in rumeno o ladino: QUID > *ki > ci /ʧi/ ‘che cosa’ in ladino, ma che in italiano).
  • ⟨V⟩ latina = /u w/: il suono /v/ (di vino) non faceva parte dell’inventario fonematico latino, cioè ⟨V⟩ poteva stare per /u/ o per /w/ (di uomo), ad esempio in VENVS che si pronunciava U̯enus. Il primo indizio ci dà la grafia: è molto probabile che i Romani avrebbero usato due grafemi diversi per scrivere suoni talmente diversi come /u/ e /v/. Siccome però /w/ è soltanto la “variante semiconsonantica” di /u/ è plausibile usare lo stesso grafema, tanto più che hanno fatto così anche con la I che, a sua volta, poteva essere sia vocale sia approssimante (IVLIVS). (Il latino classico non aveva i grafemi ⟨U J⟩). Un indizio più diretto (anche se non l’ho mai visto citato altrove) si ha nelle forme del passato remoto: la desinenza -ò della terza singolare presuppone un più antico -au, desinenza che è anche conservata in siciliano. Cioè, se CANTĀVIT fosse pronunciato */kantaːvit/, il risultato italiano sarebbe *cantave. Siccome però la pronuncia era */kantaːwit/, la grafia CANTĀVIT > *cantau̯t > cantau̯ > cantò non pone problemi.
  • ⟨L⟩ latina = [l ~ ɫ]: in questo caso erano i grammatici a informarci che il fonema /l/ aveva gli allofoni [l] (in contesto palatale) e [ɫ] (di hall inglese, fala portoghese, in contesto velare). Infatti, chiamavano la prima “exilis” e la seconda “pinguis”. Inoltre, ci sono anche altri indizi per tale pronuncia, ad esempio la coppia volō ‘voglio’ e velim (congiuntivo di volō): ci si aspetterebbe *velō invece di volō. Tuttavia, la vocale velare -ō ha portato alla pronuncia velare [-ɫ-] che ha poi innescato la velarizzazione della *e radicale.
  • ⟨R⟩ latina = /r/: la /r/ latina era certamente velare (cioè, non “moscia”), perché altrimenti la /s/ non avrebbe subito il rotacismo (/s/ > /r/: plūs, ma plūr-ālis): è un fenomeno che interessa soltanto consonanti frontali, appunto perché anche l’esito, la /r/ è un suono frontale. Un ipotetico passaggio /s/ > [ʁ ʀ] è quasi impensabile.
  • ⟨H⟩ latina = [h] ~ ∅: che, un tempo, la ⟨H⟩ latina corrispondesse proprio al suono [h], può essere desunto sia dalla metrica in alcune poesie sia partendo dalla ricostruzione del proto-indoeuropeo o con il confronto con altre lingue indoeuropee antiche. Tuttavia, sappiamo anche molto bene che già in età classica non era più pronunciata. A questo riguardo, sono una fonte molto importante i graffiti pompeiani che presentano sia parole con ⟨H⟩ omesse, ad es. ortu per hortum ‘giardino (orto)’: […] sic te amet que custodit ortu Venus (CIL IV 2776) ‘così ti ami Venere che custodisce il giardino’, sia ipercorrezioni con ⟨H⟩ anetimologica “restituita”, ad es. have per ave: Cresces, have, anima / dulcis et suavis, (CIL IV 1131).
  • ⟨M⟩ latina = [m] ~ ∅: il graffito succitato con ortu per hortum attesta, del resto, anche il dileguo di -m finale. Un altro indizio ne è l’assenza totale di tracce nella Romània (con eccezione dei monosillabici CUM, SUM > con, son(o)).
  • La quantità delle vocali è attestata perfettamente dalla metrica, ma anche dalle lingue romanze. La quantità latina si rispecchia nelle qualità italiane: DĬCTŬ > detto, ma FĪLU > filo; CĒNA > céna, ma PĔRDŌ > pèrdo ecc.

N.d.R.: Ripasso di fonetica con due definizioni.

VELARE: velare In fonetica, articolazione (consonante, vocale, fonema ecc.) in cui il dorso della lingua tocca o fronteggia a distanza variabile il velo palatino. In italiano sono velari le consonanti k, ġ,  (cioè n davanti a un’altra velare, per es., granchio ‹ġràṅkio›) e anche le vocali (dette anche labiovelari) ò, ó, u.

PALATALE: In linguistica si dice di suono articolato in un punto del palato duro. Si hanno vocali palatali, dette anche anteriori ‹ä, è, é, i› e consonanti palatali., la cui articolazione richiede, secondo i casi, un accostamento o un momentaneo contatto tra il dorso della lingua e un punto del palato.
In fonetica articolatoria, una consonante palatale è una consonante, classificata secondo il proprio luogo di articolazione. Essa viene articolata accostando il dorso della lingua al palato, in modo che l’aria, costretta dall’ostacolo, produca un rumore nella sua fuoriuscita.