RIFLESSIONE SUI RIFLESSIVI
Nella lingua italiana un verbo riflessivo è un verbo che, nella propria coniugazione, è sempre accompagnato da un pronome riflessivo (mi, ti ci, si, vi) ,viene di solito usato quando il complemento oggetto di una frase ne è anche soggetto. Permette di far ricadere l’azione sul soggetto.
Dal punto di vista semantico, spesso i verbi riflessivi hanno la caratteristica di far coincidere l’agente e il paziente (in italiano, il soggetto e il complemento oggetto). In questo senso i linguisti usano anche i termini auto benefattivo e medio.
Categorie di verbi riflessivi
- Riflessivo proprio
Nelle frasi con un verbo riflessivo proprio il soggetto dell’azione corrisponde al complemento oggetto. Questa categoria può essere considerata l’unica e vera categoria di verbi riflessivi.
Es. Mario si pettina (=Mario pettina se stesso)
Es. Sara si lava (=Sara lava se stessa)
- Riflessivo apparente
Nei verbi riflessivi apparenti, la particella riflessiva rappresenta il complemento di termine, essendo già presente un complemento oggetto.
Es. Luigi si asciuga i capelli (=Luigi asciuga i capelli a se stesso)
Es. Luisa si pettina i capelli (=Luisa pettina i capelli a se stessa)
- Riflessivo reciproco
Nei verbi riflessivi reciproci ci sono due soggetti che compiono l’azione descritta (predicato) a vicenda.
Es. Sara e Mario si sposano (= Mario sposa Sara e Sara sposa Mario)
Es. Elena e Laura si scrivono (= Elena scrive a Laura e Laura scrive a Elena)
- Riflessivo pleonastico
Nei verbi riflessivi pleonastici la particella riflessiva non ha un ruolo fondamentale, infatti se questa viene tolta, il senso della frase non varia. Questa particella riflessiva ha la funzione di rafforzare il significato del verbo esprimendo piacere o soddisfazione nel compimento dell’azione espressa dal verbo.
Es. Si è mangiato una pizza (= Ha mangiato una pizza)
Es. Si è bevuto l’aranciata (= Ha bevuto l’aranciata)
Es. Mi sono comprata una gonna (= Ho comprato una gonna)
Es. Mi sono fatta un regalo per aver superato l’esame (= Ho comprato un regalo per me quale premio per il mio esame).
N.d.R.: Ho fatto questa premessa esplicativa per introdurre il seguente mio dubbio personale riguardo a due verbi riflessivi che sentiamo tutti i giorni: sposarsi e laurearsi.
Mi sono sposato: non vuol dire che io ho sposato me stesso. Infatti, ho sposato la donna, fidanzata o compagna, che è salita con me sull’altare o nell’ufficio del Sindaco.
SPOSO e SPOSA
ETIMOLOGIA dal latino sponsus e sponsa, participio passato del verbo spondére ‘promettere solennemente, garantire’.
Oggi, le parole sposo e sposa suonano sempre dolci, tenere: gli sposi si chiamano così solo nel giorno del matrimonio o poco dopo; essi sono sempre, per definizione, “novelli”. Il padre accompagna la sposa all’altare, lo sposo può baciare la sposa dopo la celebrazione, gli sposi sono in luna di miele nel primo mese dopo le nozze. Dopodiché, si tramutano in banali mariti e mogli. Chiamare, in seguito, il proprio coniuge “sposo” o “sposa” significa assurgere a vette di pura, irresistibile poesia.
In realtà, in latino gli sponsi erano tali prima del fatidico giorno matrimoniale (le nuptiae, da cui l’italiano nozze): erano i fidanzati, i promessi sposi (quest’uso della parola è oggi, in italiano, obsoleto o regionale). La parola sponsus, però, non era altro che il participio passato del verbo spondére, cioè “promettere solennemente, garantire”. A sua volta, poi, spondére derivava dal greco σπένδω (spéndo), che indicava anzitutto l’azione di versare un liquido, poi il fare una libagione per sancire ritualmente un accordo, e infine, semplicemente, fare un patto o un trattato. Dalla stessa radice greca derivano anche rispondere (anche nel senso di “essere responsabile per qualcosa”), corrispondere e sponsor (che in latino era il mallevadore, il garante). Anche sponsus, peraltro, con un cambio di declinazione diventava la malleveria, la garanzia. Insomma, è chiaro che qui si parla di accordi suggellati, e delle relative assicurazioni richieste e concesse. In una parola: affari, business.
A tutto questo noi italiani, quando pronunciamo la parola sposa, con quel suo dolce suono spirante vita in fiore e rosei orizzonti, non pensiamo affatto. Non così invece gli ispanofoni, probabilmente, quando pronunciano la parola esposa. Intanto, rispetto all’italiano sposa, lo spagnolo esposa non indica la fidanzata o la sposa novella (che si traducono con novia) bensì, formalmente, la moglie, la consorte. Soprattutto, però, le esposas (solo al plurale), oltre che le mogli sono anche le manette, mentre il verbo esposar non dà proprio adito a dubbi: significa “ammanettare” e nient’altro.
Piacerebbe, agli inguaribili romantici, pensare che si tratti di una circostanza casuale, di una coincidenza. Ahinoi, no: la cosa è proprio intenzionale. Lo spiritosone che ha partorito per primo quest’insolente metafora intendeva precisamente abbinare spose e manette in quanto entrambe nemiche dell’indomita libertà del maschio.
È vero che anche noi italiani non esprimiamo un concetto molto diverso con la parola scapolo, derivante dal latino excapulare, letteralmente “liberarsi dal cappio”.
Quindi, anche etimologicamente, io mi sposo sembra essere una espressione verbale impropriamente detta ed adoperata.
In realtà, chi è preposto alla funzione di sposare qualcuno dovrebbe essere il sacerdote o il sindaco, quindi gli interessati alle nozze sembra che subiscano un’azione fatta da altri da sé.
Attenzione, però! Secondo la Chiesa Cattolica, i ministri del matrimonio sono lo sposo e la sposa. Il sacerdote, pur se presente, non è ministro del sacramento delle nozze. Cosa questa non molto sottolineata e conosciuta a livello popolare. Sono gli sposi che, RECIPROCAMENTE, si impegnano nel contratto del matrimonio, mentre gli officianti dovrebbero limitare la loro sfera di competenza alla ratifica amministrativa. In questo senso, dunque, gli sposi si sposano, l’un l’altro, si prendono promettendosi la continuità della vita in comune. Io mi sposo, ancora di più, è espressione impropria.
Io mi sono laureato.
In Italia è tradizione recente porre una corona di alloro sul capo di uno studente che ha conseguito la laurea.