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Più di sessant’anni fa, frequentavo la quinta classe del Ginnasio al Liceo Classico Jacopo Stellini di Udine. Per un breve periodo, avemmo, come supplente della professoressa d’Italiano, una giovane insegnante, laureata di fresco. Stavamo studiando il Leopardi, e lei stava spiegando, infervorata e con una certa teatralità, la famosa ode “La quiete dopo la tempesta”. Ci si accorgeva che era inesperta, che un po’ recitava, forse per darsi un tono, o uno stile, che ancora non aveva. Dopo averla seguita con pazienza nel suo sproloquio didascalico, io mi alzai e buttai lì la mia polpetta avvelenata: sostenni di aver trovato, in una vecchia antologia della Letteratura Italiana, il testo di un’ode intitolata “Temporale estivo”, presumibilmente del Leopardi, che costituiva l’antefatto, in sequenza cronologica, di cui “La quiete dopo la tempesta” sarebbe stata la prosecuzione. La giovane professoressa mi chiamò alla cattedra per essere interrogato e mi chiese di parlare di questa poesia, che, in realtà, non risultava scritta da nessuna parte, e che esisteva solo nella mia immaginazione e nella mia memoria. L’avevo inventata io di sana pianta, in perfetto e credibile stile leopardiano, come potrete leggere. Così gliela recitai, dalla prima all’ultima parola. Lei volle che gliela mettessi per iscritto, mi diede un bel voto e cominciò una zuccherosa recensione dell’ode truffaldina, senza metterne minimamente in dubbio la provenienza e l’attribuzione. Tutta presa nella sua esposizione oratoria, non si accorgeva delle sghignazzate in silenzio e degli ammiccamenti furtivi dei miei compagni di classe, che si erano accorti della burla, anche perché mi conoscevano bene e sapevano che ero in grado di creare un “falso d’autore” di un tale livello.
Il giorno dopo, all’ora d’Italiano, la giovane insegnante ci informò che aveva cercato dappertutto il testo che le avevo consegnato, ma che non era riuscita a trovarlo. Allora, io mi alzai, chiesi scusa della gherminella, e confessai che la poesia, effettivamente, l’avevo scritta io. I miei compagni erano sotto i banchi per le risate. Ma lei si arrabbiò di brutto, prese il foglio con il testo e andò dal preside. Al suo ritorno, un bidello mi disse che dovevo presentarmi in Presidenza. Il preside era un tipo un po’ particolare, noi lo chiamavamo, familiarmente, “Bagigio”. Non ricordo neanche perché. Questi mi fece una lavata di testa, mi richiamò al rispetto degli insegnanti, che non dovevano essere fatti bersaglio di scherzi. Però, poi, volle sincerarsi, con la poesia in mano, che fossi proprio io l’autore e me la fece, prima scrivere e poi recitare, seduta stante. Cosa che feci, disinvoltamente. Lui si fermò a pensare un po’, in silenzio, poi, boffonchiando qualcosa fra sé, si lasciò sfuggire una frase che assomigliava a qualcosa come: “Accidenti, ci sarei cascato anch’io!”.
Qui, di seguito, il testo.
TEMPORALE ESTIVO
Di piombo è il cielo
e scuro di cupi nembi;
scende sulla natura
un velo opaco di morte.
Apronsi le porte ai venti.
Scendon dall’alto irati
come falchi dal nido
sull’umile preda,
imperversan sui prati,
per l’aie, negli orti,
piegan gli intorti
rami sibilando.
E, con loro,
l’arida polve
s’alza sconvolta
dal turbo fuggente
che tutto involve.
L’alta arbore tronfia,
piegata da cotal possanza,
china l’agile chioma
e piange, sull’erba del prato,
le infiacchite foglie
che il vento raccoglie
e guida in frenetica danza.
Scende la pioggia,
violenta sui tetti,
di striscio sui muri,
picchietta argentina
sugli otri, sui vasi,
sui ferrei portali,
bevanda divina
sull’aride zolle
da tanto satolle
d’estiva calura.
Sull’uscio di casa,
il pio colono
alza il guardo pregando:
“O Dio del cielo,
persa non sia
la mia fatica
da ria furia inimica:
il raccolto m’è vita!”
Così sperando dice
e il cielo acconsente;
omai lontan si sente
quell’irato tuonar.
Sbadiglia una finestra
disserrando le imposte,
spiove la gronda,
scola la fronda antica
la quercia dell’orto,
si ripopola l’aia,
s’ode vivace e gaia
la sinfonia consueta.
Da qui, a seguire, si poteva recitare “La quiete dopo la tempesta” in un “continuum” di sacrilega impostura.
Alberto …sei un grande