Numero2715.

 

DEMOCRAZIA,  PARTITOCRAZIA,  IPOCRISIA.

 

In questo periodo in cui siamo soliti fare le Dichiarazioni dei Redditi, mi è saltato in mente il ghiribizzo di affrontare un argomento che, anch’io, finora, ho trascurato, e che mi ha dato il destro per considerare un parallelismo, a dir poco, sorprendente con la nostra situazione politica istituzionale, che dovrebbe rispondere ai canoni della DEMOCRAZIA rappresentativa. Sì, un parallelismo che mi ha indignato, come uomo e come cittadino.

Per mettere a fuoco il ragionamento che intendo sviluppare, devo fare ricorso ad una informativa che riguarda lo Stato, la Chiesa ed i cittadini, in merito ad una istituzione (2, 5, 8 per1000), che poi è legge dello Stato Italiano, ed un comportamento, che è diventato cronico e biasimevole, ma che continua a rimanere dissimulato, nascosto, sorvolato.
Quello che, qui di seguito, trovate riportato, è reperibile da chiunque abbia la volontà di chiarirsi le idee, attingendo alle fonti di pubblicazioni facilmente accessibili. Ma, si tratta di notizie molto poco diffuse, per quanto di pubblico dominio. A questo stato di cose mi riferisco quando scrivo, nel titolo, la parola IPOCRISIA. Ma, cominciamo.

 

2, 5 e 8 per mille: le scelte non espresse

La mancata scelta della destinazione del 2, 5 e 8 per mille determina la ripartizione del gettito in base alle scelte effettuate dagli altri contribuenti

Ogni anno i contribuenti italiani possono scegliere di destinare una parte del proprio gettito fiscale Irpef a determinati soggetti; nello specifico, possono scegliere se destinare:

  • l’8 per mille allo Stato oppure a un’istituzione religiosa;
  • il 5 per mille a enti di interesse sociale;
  • il 2 per mille a un partito politico;
  • il 2 per mille a una associazione culturale.

Ognuna di queste scelte è autonoma, e l’indicazione della destinazione non comporta una maggiorazione delle imposte dovute.

Con la scelta della destinazione dell’otto per mille il contribuente decide se destinare una parte delle imposte versate allo Stato oppure a un ente religioso a sua scelta.

Con la scelta della destinazione del cinque per mille il contribuente decide se destinare una parte delle imposte versate a un ente non-profit o a particolari finalità quali la ricerca scientifica o universitaria o sanitaria.

Con la scelta della destinazione del due per mille il contribuente decide se destinare una parte delle imposte versate a un partito politico e una associazione culturale.

I contribuenti che predispongono la dichiarazione effettuano la scelta contestualmente alla predisposizione del modello Redditi PF o del modello 730.

Da coloro che, invece, sono esonerati dalla predisposizione della dichiarazione, la scelta potrà essere effettuata:

  • allo sportello di un ufficio postale che provvederà a trasmettere la scelta all’Agenzia delle Entrate;
  • a un intermediario abilitato alla trasmissione telematica;

Il contribuente può liberamente scegliere a chi destinare queste piccole porzioni della propria imposta, ma nei limiti degli elenchi predisposti dall’Agenzia delle Entrate; infatti, gli enti che vogliono usufruire di questo beneficio hanno l’obbligo di accreditarsi presso l’amministrazione finanziaria delle Stato, utilizzando l’apposito software messo a disposizione dall’Agenzia delle Entrate.

È risaputo che circa la metà dei contribuenti italiani non effettua una scelta in merito alla destinazione di queste imposte; quello che però non è altrettanto risaputo è che non esprimere una scelta non vuol dire non destinare a nessuno le proprie imposte; infatti queste verranno ripartite agli interessati in proporzione alle scelte effettuate da coloro che hanno deciso a chi destinare le loro imposte.

È grazie a questo meccanismo che istituzioni religiose come la Chiesa Cattolica riescono ad ottenere la maggioranza dei fondi a disposizione, essendo la più scelta da coloro che hanno effettuato la scelta.

I contribuenti che vogliono che queste risorse restino in capo alla fiscalità generale, invece che non scegliere, dovrebbero scegliere espressamente lo Stato come beneficiario.

Questo modo di procedere è

FONDATO SULL’INGANNO

L’8×1000 è bocciato anche dalla Corte dei Conti, la quale dice, nel silenzio più assordante:

“ognuno è coinvolto, indipendentemente dalla propria volontà, nel finanziamento delle confessioni”,

“lo Stato mostra disinteresse per la quota di propria competenza”,

“non ci sono verifiche sull’utilizzo dei fondi erogati alle confessioni”,

“emergono rilevanti anomalie sul comportamento di alcuni intermediari”.

 

Come funziona

L’otto per mille è il meccanismo adottato dallo Stato italiano per il finanziamento delle confessioni religiose. Lo Stato ogni anno raccoglie l’IRPEF e ne mette l’8‰ in un calderone. Anche la parte di coloro che non hanno fatto alcuna scelta. Sembra una quota piccola, ma in realtà sono molti soldi: circa un miliardo di euro. Questi soldi vengono poi ripartiti a seconda delle scelte che sono state espresse.

N.d.R. : Ho fatto alcune ricerche, ma non sono venuto a capo di nulla. Coloro che non sono tenuti alla Dichiarazione dei Redditi sembra che possano, anche loro, esprimere una scelta per la destinazione . Ma di quanto non si sa. So soltanto che nel 2021, in Italia, c’erano 7.734.000 incapienti, il cui reddito è inferiore a 7.500 Euro l’anno, che certamente non fanno alcuna scelta per destinazione, anche se i soldi non li sborsano loro direttamente.
Mi viene da pensare che il corrispettivo venga erogato dall’Agenzia per le Entrate, mettendo tutto nello stesso calderone.

Possono accedere all’otto per mille solo le confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato e che abbiano avanzato apposita richiesta, approvata dal Parlamento. Al 2014 i destinatari sono: Chiesa cattolica, Chiesa valdese, Unione delle Chiese metodiste e valdesi, Unione delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia (Pentecostali), Unione delle comunità ebraiche italiane, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia, Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia ed esarcato per l’Europa meridionale, Chiesa apostolica in Italia (pentecostali), Unione buddhista italiana, Unione induista italiana.

Dai Patti lateranensi fino al 1984 la Chiesa Cattolica riceveva dallo Stato la cosiddetta “congrua”, a risarcimento dei beni confiscati alla Chiesa e per il mantenimento dei preti. Nel 1984, con la revisione del Concordato firmata da Craxi, è stata eliminata la congrua ed introdotto l’otto per mille, che è poi stato concesso anche ad altre confessioni religiose. Da allora l’aumento delle tasse e del reddito degli italiani ha fatto salire vertiginosamente le cifre in gioco, passando dai 398 milioni di euro del 1990 ai 1.067 del 2010 (per la sola Chiesa Cattolica).

In teoria ogni tre anni una commissione potrebbe modificare la percentuale (da otto per mille a sei per mille, ad esempio), ma in realtà questo non è mai stato fatto. La Corte dei Conti nel 2014, nel 2015, nel 2016 e nel 2018 ha prodotto relazioni critiche (vedi sopra) nei confronti del meccanismo dell’8×1000, evidenziando “la problematica delle scelte non espresse e la scarsa pubblicizzazione del meccanismo di attribuzione delle quote; l’entità dei fondi a disposizione delle confessioni religiose; la poca pubblicizzazione delle risorse erogate alle stesse; la rilevante decurtazione della quota statale”.

Cosa accade in pratica


Queste sono state le scelte nella dichiarazione dei redditi del 2015 (dati definitivi pubblicati dal Ministero). Che fine fanno i soldi di chi non firma per nessuno?

Nessuna scelta   56.8%
Chiesa cattolica  34.46%
Stato   6.29%
Valdesi   1.39
Unione buddhista   0.44
Ebrei   0.15
Assemblee di Dio   0.10
Luterani   0.07
Avventisti   0.06
Ortodossi   0.08
Induisti   0.05
Battisti   0.04
Apostolici   0.02

Anche quelli finiscono nel calderone e vengono ripartiti a seconda dei voti di chi ha espresso la scelta. Nel 2019 il gettito è stato ripartito così:

Nessuna scelta   0.0
Chiesa cattolica  80.73%
Stato   14.11%
Valdesi   3.08
Unione buddhista   0.97
Ebrei   0.33
Assemblee di Dio   0.10
Luterani   0.16
Avventisti   0.13
Ortodossi   0.17
Induisti   0.11
Battisti   0.09
Apostolici   0.02

Una minoranza determinante

Negli ultimi anni circa quattro contribuenti su dieci hanno firmato esplicitamente per l’otto per mille. La maggior parte di chi firma (34% circa alla Chiesa Cattolica e 6% circa allo Stato Italiano), circa il 70% di questo 40%, sceglie la Chiesa Cattolica: con questo trucco, la stessa riceve ogni anno l’80% della torta, cioè più di un miliardo di euro. Invece quasi sei persone su dieci non scelgono niente, e la loro quota viene gestita dagli altri!

Contestazione

Quasi nessuno sa come funziona e i mezzi di informazione si guardano bene dal dirlo. Lo Stato non si fa nessuna pubblicità e tra le confessioni religiose solo la Chiesa Cattolica può permettersi grandi campagne. Chi non deve presentare la dichiarazione dei redditi (alcuni lavoratori dipendenti o i pensionati) spesso non sa come scegliere a chi destinare l’otto per mille: non sa neanche come fare, se vuole farlo.

Attenzione

Le gerarchie ecclesiastiche hanno lanciato campagne pressanti dirette a commercialisti ed ai responsabili dei Caf. Molte persone segnalano che le scelte su otto e cinque per mille cambiano misteriosamente al momento della trasmissione dei dati all’Agenzia delle Entrate. Consigliamo di controllare sempre sulla copia che resta al contribuente!

In realtà nessuno destina il proprio gettito: il meccanismo assomiglia di più ad un gigantesco sondaggio d’opinione, al termine del quale si “contano” le scelte, si calcolano le percentuali ottenute da ogni soggetto e, in base a queste percentuali, vengono poi ripartiti i fondi.

Come se non bastasse, la mancata formulazione di un’opzione non viene presa in considerazione: l’intero gettito viene ripartito in base alle sole scelte espresse.

Due sole confessioni, le Assemblee di Dio e la Chiesa Apostolica, lasciano allo Stato le quote non attribuite, limitandosi a prelevare solo i fondi relativi a opzioni esplicite a loro favore. Una scelta più onesta e coerente, prevista dalla legge 222/1985, che NON è esercitata dalla Chiesa cattolica e dalle rimanenti dieci confessioni, che ottengono un finanziamento quasi triplo rispetto ai consensi espliciti a loro favore.

Ecco perché è importante compilare questa sezione della dichiarazione dei redditi.

 

LA DISTRIBUZIONE DEL GETTITO

Il MEF (Ministero dell’Economia e delle Finanze) – Dipartimento delle finanze mette a disposizione statistiche e serie storiche sull’Otto per mille.

Ogni anno, prima della pubblicazione sul sito del MEF, i dati della ripartizione più recente vengono comunicati alla CEI, che in questo modo gestisce in anteprima la comunicazione alla stampa. Si veda ad esempio come la CEI «rende noto» l’ammontare del gettito a suo favore già a maggio 2018.

Ripartizione 2021 (redditi 2017 dichiarati nel 2018)
Totale da ripartire: 1.429.436.792 euro. Contribuenti: 41.211.336, di cui hanno espresso una scelta valida: 41,79%.

Beneficiario % contribuenti % gettito Importo Prende anche scelte inespresse
Chiesa Cattolica 32,81 78,50 1.136.166.333                        SÌ
Stato 6,54 15,65 215.839.692                        SÌ
Chiesa Evangelica Valdese 1,31 3,13 42.694.723                        SÌ
Unione Buddista Italiana 0,40 0,96 13.094.867                        SÌ
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai (IBISG) 0,16 0,37 5.046.980                        SÌ
Unione Comunità Ebraiche Italiane 0,14 0,34 4.637.765                        SÌ
Assemblee di Dio in Italia 0,10 0,24 1.380.854 No, rinuncia e lascia allo Stato
Arcidiocesi Ortodossa 0,09 0,22 3.000.907                        SÌ
Chiesa Evangelica Luterana in Italia 0,07 0,17 2.318.883                        SÌ
Unione Induista Italiana 0,06 0,13 1.773.263                        SÌ
Unione Chiese cristiane avventiste del 7° giorno 0,05 0,13 1.773.263                        SÌ
Unione Cristiana Evangelica Battista 0,04 0,10 1.364.049                        SÌ
Chiesa Apostolica 0,02 0,05 345.213 No, rinuncia e lascia allo Stato

Fonte: Dipartimento delle Finanze (vedere anche relazione uffici studi di Camera e Senato)

Si noti che, in tale occasione, su oltre quaranta milioni di contribuenti solamente il 43% ha espresso un’opzione e solo il 33% ha espresso una scelta a favore della Chiesa cattolica, alla quale però è stato consentito di mettere le mani su quasi l’80% dei fondi.

COME VENGONO SPESI QUESTI SOLDI?

  • Chiesa Cattolica
    Nato come meccanismo per garantire il sostentamento del clero, tale voce è diventata, percentualmente, sempre meno rilevante (circa il 36% del totale). Parrebbe infatti che la Chiesa cattolica prediliga destinare i fondi ricevuti dallo Stato alle cosiddette “esigenze di culto” (43,7%): finanziamenti alla catechesi, ai tribunali ecclesiastici, e alla costruzione di nuove chiese, manutenzione dei propri immobili e gestione del proprio patrimonio. Ovvio che non vedremo mai spot su queste tematiche: ai tanto strombazzati aiuti al terzo mondo, cui è dedicata quasi tutta la pubblicità cattolica, va – guarda caso – solo l’8,6% del gettito. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.8xmille.it nel quale, cliccando di seguito sulle sezioni “rendiconto” e “scelte per la Chiesa Cattolica”, si accede a una pagina che riporta le percentuali di scelta di fantomatici contribuenti senza specificare se siano la totalità o si tratti solo di coloro effettivamente firmano per destinare l’Otto per Mille.
  • Stato
    Lo Stato è l’unico competitore per l’otto per mille che ha deciso di non farsi pubblicità (fece qualcosa nel 2017, ma la Corte dei conti sentenziò che “l’attività segnalata è risultata irrilevante rispetto alla pubblicità posta in essere dalle confessioni religiose”). Lo Stato Italiano rinuncia deliberatamente a fare concorrenza alla Chiesa Cattolica. Che ringrazia. Il Governo dedica alla gestione dei fondi di pertinenza statale una sezione del suo sito internet. L’ultima ripartizione delle scelte di sua competenza è andata soprattutto a beneficio del risanamento del bilancio pubblico e alle calamità naturali. In generale la legge 222/1985 prevede che i fondi siano destinati a «interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali». Con la legge 147/2013 è stata aggiunta la seguente destinazione: «ristrutturazione, miglioramento, messa in sicurezza, adeguamento antisismico ed efficientamento energetico degli immobili di proprietà pubblica adibiti all’istruzione scolastica».

 

NEGLI ALTRI PAESI NON FUNZIONA COSÌ.

In Svizzera ed in Germania, ad esempio, il cittadino viene tassato (direttamente) solo se si dichiara membro registrato di una istituzione religiosa riconosciuta. Altrimenti i soldi restano a lui.
Da noi si è trovato questo escamotage per trasferire denaro dallo Stato alla Chiesa, in maniera subdola e surrettizia, coperta con una legislazione e con decreti attuativi di purissimo stile levantino. Il camuffamento consiste nella attribuzione ai cittadini delle scelte sulle ripartizioni.. Ma, come abbiamo visto e dimostrato, non è affatto così.

Si sbaglia di grosso colui che, non scegliendo il destinatario del proprio 8 per 1000, pensa che i soldi restino allo Stato Italiano (Agenzia delle Entrate). Al contrario tutto viene ripartito e ridistribuito secondo le indicazioni di una minoranza (40 – 42%) che deicide per se e anche per gli altri. Questa non è la Democrazia, applicata alla Finanza e all’Economia, che il cittadino dovrebbe aspettarsi.
Questo andazzo di cose è ricavato di sana pianta, ecco il parallelismo, dal Sistema Elettorale Italiano, come vedremo qui di seguito.

 

Da quest’ultima considerazione parto per affondare i remi nel mare magnum della politica Italiana in generale ed, in particolare, nel concetto e nella forma di DEMOCRAZIA che, in Italia, si è instaurata e si è strutturata secondo criteri che hanno ben poco a che fare con la DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA in senso stretto e perfetto. Infatti, in Italia, anche la rappresentatività parlamentare procede parallelamente, ed ha ispirato metodologicamente, i criteri distributivi e ripartitivi che abbiamo riscontrato sopra. Stessa presa per il culo.

Ho già ampiamente affrontato questi temi nei seguenti Numeri:

Numero2076. : Autorità
Numero2023. : Scontento popolare ed Astensionismo
Numero2001. : Stavolta parlo di Politica
Numero1999. Il valore del dissenso. La rilevanza delle schede bianche nel computo elettorale.

In questi Numeri, trovate un’ampia disanima, corredata da dati, statistiche, percentuali ed algoritmi in atto per distorcere, a bella posta, l’espressione genuina della volontà popolare in Italia.
Riporto, qui di seguito, i passaggi più salienti dei concetti e dei dati di fatto là enunciati e denunciati, per il confronto con le procedure, tutte legalizzate, che si applicano per il 2, 5, 8 per mille.

Come tutti sanno, da diversi anni, cresce sempre più la percentuale di coloro che, ad ogni tornata elettorale, in diverse forme, non esprimono il proprio voto. Il 40 -45% degli Italiani non vota. Ma succede che, ed a nessuno conviene dirlo, le decisioni, in sede Parlamentare, vengono prese, anche per loro, dagli altri votanti, secondo la distribuzione percentuale dei voti ai Partiti.
Questa grossa minoranza rappresenta il più numeroso Partito (PARTITO DEL NON VOTO) che c’è in Italia e la sua voce non ha modo di esprimersi e contare nell’esercizio della Politica e della Amministrazione dello Stato.

Dal Numero1999. :

L’astensionismo, infatti, è stato lungamente ricondotto ad un problema di scarsa cultura
civica e di marginalità socio-politica di alcune ristrette (N.d.R. oggi tutt’altro che ristrette)
fasce della popolazione. Il risultato di un’alienazione che, quale che fosse il suo modo di
esprimersi – non arrivando ad avere alcuna incidenza sul numero degli eletti – non intaccava
né le sfere di potere, né i rapporti di forza tra i partiti. Senz’altro una sacca critica della
democrazia, dunque, ma tutto sommato innocua e per certi versi comoda: non meritevole,
quindi, di vera attenzione.
Non si è potuto però nascondere che, nel tempo, il fenomeno, nel suo incrementarsi, abbia
assunto connotazioni vieppiù politiche: al non voto di chi è incapace di scegliere, si è
aggiunto – e massicciamente – il non voto di chi si rifiuta di scegliere.
La ricerca sociologica più accorta ha potuto, allora, distinguere dall’ astensionismo da
apatia che attribuisce la decisione di non votare a una forma di estraneità e distacco, un
astensionismo di protesta che assume il significato di un atto intenzionale, compiuto da
cittadini consapevoli che, in questo modo, esprimono la loro opinione.
Se è, quindi, certamente non corretto dare una lettura univoca del “partito del non voto”,
occorre, tuttavia, individuare al suo interno ragioni precise, che si concretano in
atteggiamenti diversificati, suscettibili, come tali, di valutazioni differenti. Ed infatti,
tralasciando qui di soffermarsi sulle motivazioni di coloro che non si recano alle urne, di cui
sarebbe azzardato interpretare gli umori, ma che senz’altro delegano ad altri la loro scelta
e, sgombrato il campo dagli errori tecnici che caratterizzano le schede nulle, ben diversa
appare la condotta di chi, di fronte alle proposte dei partiti, non si sente di esprimere la sua
preferenza nei confronti di nessun candidato e, quindi, depone nell’urna una scheda
bianca. E’ difficile qui immaginare che il cittadino “non sappia” decidersi, una volta giunto
al seggio elettorale. Dati, infatti, i costi in termini di tempo (raggiungimento del seggio, a
volte lunghe file) che l’operazione richiede e l’informazione martellante della campagna
elettorale che lo ha accompagnato fino a quel momento, quando l’elettore va a votare,
presumibilmente, è ben convinto di ciò che farà.
Nel lasciare volontariamente in bianco la scheda, esprime quasi sempre la negazione del
proprio consenso, un giudizio consapevole ed intenzionale di rifiuto, una bocciatura in
risposta all’offerta dei partiti ed alle loro strategie.

Come tale, la scheda bianca è un comportamento di voto in senso pieno.

Il senso del voto

Con la partecipazione elettorale, il popolo è esso stesso parte di un
processo di competizione tra attori politici, in cui interviene, dando luogo ad una conta
dalla quale dipende l’esclusione o l’inclusione dei candidati nell’organismo
rappresentativo. Nel momento in cui delega la propria sovranità, in cui sceglie i propri
rappresentanti, il cittadino è realmente sovrano e ciò che conferisce responsabilità e
quindi senso democratico alla dinamica rappresentativa è proprio la prospettiva
competitiva.
In quest’ottica, può avere senso il voto bianco? In effetti, il cittadino che vota in questo
modo non compie un gesto eversivo e fuori dal sistema, al contrario lo ossequia: si reca
alle urne e vota. Ora, questo gesto non ha alcun significato, ma se è, come appare,
una bocciatura, l’altra possibile faccia di una scelta, gioverebbe alla competizione e quindi
alla democrazia se esso avesse un’efficacia sui 
risultati elettorali.
Se le proposte dei partiti, infatti, non consentono di esprimere una preferenza convinta,
perché deve “chiamarsi fuori” l’elettore e non il candidato?

Ci si accorge che il voto bianco, che pure è un’opinione espressa, un parere dato,
non ha nessuna corrispondenza nei risultati elettorali.
 Se, infatti, la partecipazione al voto
deve dar luogo ad una rappresentanza, allo stato delle cose, l’intero corpo elettorale
è effettivamente rappresentato dagli eletti?

Dove sta il Dettato Costituzionale che “La sovranità appartiene al Popolo?”

Ed è democratico un Parlamento che non tiene conto dell’opinione di una buona
percentuale di elettori?

Le schede bianche dovrebbero concorrere alla formazione di una propria cifra elettorale,
assimilabile alle altre cifre nazionali di lista, da dividere per il quoziente elettorale
nazionale.

Naturalmente, si obietterà che esigenze di governabilità suggeriscono di non tenere conto
di proposte, come questa, “corrosive” delle compagini governative.

Bisogna però chiedersi quanto queste siano legittimate ad esercitare il loro potere,
quando risultino espressione di 
percentuali fortemente minoritarie di cittadini.

Ove si consideri, poi, che i seggi vengono assegnati sulla base della popolazione residente,
in certe zone in cui l’astensionismo è ormai una componente costante e consistente
del comportamento di voto, i seggi finiscono per “contare”, in termini di voti validi,
assai meno di quanto non accade in quelle con forte partecipazione. 

E questo è un paradosso pericoloso per la democrazia.

Sarebbe invece opportuno dare voce al dissenso e recuperare in questo modo
il più ampio numero di cittadini alla partecipazione attiva, quanto mai necessaria in un
mondo che dovrebbe aspirare all’inclusione di ciascuno nel gioco democratico.
Inoltre, sarebbe un monito forte ed efficace ad una politica dei migliori, senza dimenticare
il non trascurabile vantaggio per le pubbliche casse, prodotto, automaticamente e
democraticamente, da un minor numero di eletti.

Quindi io, cittadino qualunque, che non sono d’accordo sui valori ideali e sui programmi
di nessuno dei partiti in lizza, nel ventaglio parlamentare, non ho modo di esprimere
il mio dissenso: se non vado a votare, nel computo redistributivo è come se ci fossi stato;
o se vado a votare e voto scheda bianca, il mio voto va, comunque, a legittimare ancora
di più la rappresentatività dei partiti e degli uomini che non hanno il mio gradimento
e la mia fiducia. Questa non è Democrazia: è, invece, Partitocrazia truffaldina.

Si tenga conto che, finalmente, il Parlamento ha legiferato in merito al numero dei suoi componenti:

“Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 261 del 21 ottobre 2020. La legge costituzionale prevede la riduzione del numero dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi.

Bene, benissimo, era ora. Ma, se basta nel numero, non basta nel merito.

Infatti, se i partiti eletti, per semplificare, hanno raccolto il 60% dei voti, dovrebbero occupare il 60% dei seggi.
Il restante 40%, cioè la parte che corrisponde alla frazione del corpo elettorale che non ha espresso alcun voto, né scelto nessuno, dovrebbe occupare il corrispondente settore del semicerchio: ne consegue che questo 40% degli scranni parlamentari dovrebbe restare vuoto. E dovrebbe – è mia ferma convinzione – essere riempito da altri che non siano quelli già eletti nel 60%.
Ma, come tutti sanno, per oltre 70  anni di cosiddetta DEMOCRAZIA, questo posto è stato occupato e riempito (oserei quasi dire: confiscato) dagli eletti dal 60% dei votanti, che fino ad oggi hanno esercitato il potere legislativo, in nome e per conto anche degli altri 40%.
Chi ha dato a questi, il mandato, il compito, la delega, la rappresentanza – chiamatela come vi pare – per farlo?
Se lo sono arrogati da soli. Perché? Sembra in nome di una presunta agevolazione della governabilità. Non mi convince per niente: nel nome di una praticità strumentale, io non sono disposto a derogare sui principi di questa DEMOCRAZIA decurtata, sottratta, derubata. Questa è una PARTITOCRAZIA.

Il parallelismo fra la redistribuzione delle indicazioni di scelta del 2, 5, 8 per mille e l’accaparramento partitico delle indicazioni di voto nelle Elezioni Parlamentari mi sembra evidentissimo. Roba da azzeccagarbugli.

Questo andazzo di cose si potrebbe modificare?

È un libro dei sogni che mi piacerebbe scrivere. Ho alcune idee in proposito, ma sono quelle di un pazzo visionario: Don Chisciotte contro i mulini a vento. A me Don Chisciotte è sempre piaciuto: nella letteratura mondiale, è il primo “eroe” moderno (non un supereroe) che, però, quando rinsavisce, muore.

 

Numero2682.

 

E C O N O M I A   C O N T R O V E R S A

 

«Se l’Italia si regge ancora è grazie al mercato nero ed all’evasione fiscale, che sono in grado di sottrarre ricchezze alla macchina parassitaria ed improduttiva dello Stato per indirizzarle invece verso attività produttive».

 

Questo è il pensiero di Milton Friedman.
Milton Friedman (1912 – 2006), Nobel per l’Economia nel 1976, fu uno dei fautori del pensiero liberista portato alle estreme conseguenze, tanto da sostenere l’idea dell’anarco-capitalismo con soppressione completa di qualsivoglia ruolo, funzione o competenza statale nel settore economico.

Numero2160.

 

L A   C O R R U Z I O N E

 

Articolo del FATTO QUOTIDIANO del 1 Marzo 2021

di Dario Immordino     Avvocato e dottore di ricerca in Diritto interno e comunitario

Una recente ricerca internazionale (del centro Rand) stima che la corruzione costa all’economia dei paesi europei oltre 900 miliardi di euro l’anno e a quella italiana almeno 237 miliardi, pari a circa il 13% del Pil. Si tratta di numeri difficili da verificare, ma l’impatto negativo della corruzione sui sistemi economici risulta ormai ampiamente comprovato.

Secondo i dati della Banca Mondiale (indici 2017), il reddito medio nei paesi con un alto livello di corruzione è circa di un terzo inferiore a quello dei paesi con un basso livello di corruzione, ed una ricerca dell’Istituto per la competitività certifica che il radicamento del fenomeno corruttivo inibisce l’afflusso di capitali stranieri e incide negativamente sull’occupazione spingendo le imprese a mantenere una dimensione ridotta; mentre la riduzione del livello di corruzione favorisce l’avvio di nuove imprese, il radicamento di capitali e imprese straniere, rende più agevole la gestione delle attività pubbliche, incide positivamente sull’occupazione giovanile.

Non a caso il premier nel discorso di insediamento ha evidenziato la necessità di contrastare la corruzione e i suoi effetti: meno investimenti, riduzione dell’occupazione, dei redditi e dei consumi, delle entrate fiscali, della quantità e qualità dei servizi pubblici, lievitazione dei costi burocratici e del contenzioso contro cittadini ed imprese.

Un recente rapporto dell’Anac rivela che nel triennio 2016-2019 in Italia si sono registrati un episodio di corruzione a settimana e un arresto ogni 10 giorni. Il numero può sembrare piuttosto esiguo se rapportato ad un apparato pubblico di decine di migliaia di unità, ma risulta allarmante se si considera che i dati ufficiali (riferiti ai provvedimenti della magistratura) non forniscono una stima attendibile della reale entità del fenomeno corruttivo, che resta in larga misura sommerso e deve pertanto essere considerato molto più esteso di quanto lascino intendere le statistiche giudiziarie.

Le norme penali sono molto severe, ma si sono dimostrate inadeguate a contrastare il dilagare della corruzione a causa del ridotto numero di denunce, della difficoltà di scoprire e sanzionare i casi e di accertare il passaggio di denaro o il conseguimento di altri vantaggi, dei tempi lunghi delle indagini e dei processi, che richiedono svariati anni e spesso si interrompono a causa della prescrizione.

Per ovviare a queste criticità, la legge del 2012 ha imposto a tutte le amministrazioni, gli enti e le società pubbliche di perseguire come eventi corruttivi tutti i casi di malaburocrazia e violazione di norme, a prescindere dal conseguimento di denaro e dalla conclusione delle indagini penali, e di adottare un piano anticorruzione e una serie di strumenti per prevenire e contrastare il fenomeno: rotazione del personale, regole stringenti sul conflitto di interessi, codici di comportamento, tutela di chi segnala episodi corruttivi, incompatibilità specifiche per alcuni incarichi dirigenziali, obblighi di trasparenza per gli atti pubblici e i dati su dipendenti, dirigenti e amministratori, adozione di meccanismi di prevenzione del rischio di corruzione, informatizzazione e digitalizzazione dei procedimenti amministrativi, accesso generalizzato agli atti pubblici, misure di semplificazione dell’organizzazione burocratica e dell’attività amministrativa, controlli efficienti.

Queste norme consentono di anticipare, estendere e rendere più efficace il contrasto alla corruzione. Tuttavia le relazioni dell’Anac e della Corte dei conti rivelano che le amministrazioni e le società pubbliche le hanno applicate solo formalmente, come complessi e fastidiosi adempimenti burocratici. Il campionario delle elusioni è vasto: piani anticorruzione fotocopia, sostanziale inattuazione delle misure precauzionali imposte dalla legge e delle regole di semplificazione e trasparenza, controlli inefficaci, scarsa responsabilizzazione del personale, assenza di coordinamento tra il piano anticorruzione e quello della performance, scarso coinvolgimento di dirigenti e vertici politici.

Le sanzioni, inoltre, sono soltanto virtuali, poiché l’Anac non ha la struttura adeguata per verificare l’attività di venti regioni, oltre ottomila comuni e decine di migliaia di altri soggetti che svolgono funzioni pubbliche, e per verificare la legittimità di un infinta mole di atti. Questa allarmante situazione potrebbe notevolmente aggravarsi a causa dell’emergenza sanitaria, che impone di accelerare procedimenti e acquisti pubblici attraverso deroghe alle regole standard, riduzione e semplificazione dei controlli.

Basti pensare al regime speciale (provvisorio) per l’affidamento degli appalti pubblici introdotto dal cosiddetto decreto Semplificazioni, che estende l’applicazione delle procedure di urgenza per l’affidamento e la consegna dei lavori, amplia la possibilità di aggiudicare gli appalti senza gara, “taglia” numerosi adempimenti e controlli previsti dal Codice dei contratti, consente di procedere all’aggiudicazione delle gare e all’esecuzione dei lavori in deroga a ogni disposizione di legge (con pochi vincoli: il rispetto delle norme penali, della normativa antimafia e delle regole europee), accentra in capo ai commissari pressoché tutti i poteri di aggiudicazione ed esecuzione delle opere di particolare rilievo.

Queste norme, peraltro, vengono abbinate alle disposizioni che rendono non punibili gli sprechi di risorse pubbliche causati da grave negligenza, superficialità, mancanza del livello minimo di prudenza di dipendenti e amministratori pubblici, depotenziano il reato di abuso di ufficio ed introducono limiti all’annullamento dei contratti dichiarati illegittimi dai giudici amministrativi.

Questo regime speciale comporta un rischio concreto di proliferazione degli episodi di corruzione, degli sprechi e delle irregolarità negli acquisti pubblici. Non a caso le verifiche dell’Anac hanno evidenziato una vasta gamma di criticità: proliferazione degli affidamenti diretti, gare revocate, difformità dei servizi eseguiti rispetto a quelli appaltati, prodotti non certificati.

Per invertire la rotta è indispensabile garantire il rispetto delle norme sulla trasparenza, che facilitano i controlli; inserire l’adempimento delle misure anticorruzione tra gli indicatori di performance dei dipendenti pubblici che condizionano percorsi di carriera e retribuzione accessoria; prevedere controlli efficienti sulla qualità dei piani anticorruzione e sulla corretta attuazione delle misure previste; coinvolgere concretamente dirigenti e vertici politici nell’attuazione dei piani e renderne effettiva la responsabilità; rendere efficienti i procedimenti disciplinari.

Durante l’emergenza sanitaria, in particolare, è necessario compensare le deroghe alle regole che garantiscono la qualità e l’economicità dell’attività amministrativa e degli acquisti pubblici con controlli efficienti e misure che garantiscano la trasparenza di atti e contratti della Pa.

La soglia di adempimento alle regole anticorruzione potrebbe essere considerata come requisito per l’attribuzione di finanziamenti a società pubbliche ed enti locali, in modo da premiare le amministrazioni virtuose e sanzionare quelle inefficienti.

Numero2006.

 

Q U A N T O   G U A D A G N A N O   I   D I P E N D E N T I   D I   C A M E R A    E   S E N A T O ?

 

N.d.R.   Mi chiedo se questi signori sono al servizio degli Italiani, o se sono gli Italiani che sono al servizio di questi signori. Chiamatemi pure “qualunquista”, ma datemi una spiegazione.

 

 

Quanto guadagna chi lavora alla Camera e al Senato? Ovvero barbieri, uscieri, elettricisti, falegnami? I privilegi di lavorare nei palazzi del potere non riguardano solo i politici.

Ecco gli stipendi dorati di tutti i dipendenti della Camera dei Deputati e Senato della Repubblica.

Gli stipendi d’oro del personale di Camera e Senato

Dal primo gennaio 2018 è terminato il periodo di “purgatorio” che durava dal 2014 e che prevedeva, per i dipendenti di Camera e Senato, un tetto salariale di 240.000 euro l’anno.

Ora i dipendenti più anziani di Camera e Senato possono tranquillamente andare oltre i 350.000 euro l’anno di stipendio. Cifre esagerate e ridicole che superano di gran lunga lo stipendio di ministri, sottosegretari, deputati e senatori, di Mattarella o della Merkel.

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Camera e Senato: la casta dei 1.494 dipendenti

Più nel dettaglio le retribuzioni del 44% dei 137 funzionari di Camera e Senato, una sessantina, sforano il tetto di 240.000 euro arrivando in alcuni casi alla cifra record di 480.000 euro lordi.

Ecco le cifre (dati ufficiali Parlamento italiano) degli stipendi annui massimi effettivamente percepiti:

  • un segretario parlamentare, stipendi fino a 156.000 euro annui
  • un documentarista/tecnico/ragioniere, stipendi fino a 237.000 euro
  • un collaboratore tecnico, stipendio fino a 152.000 euro
  • un consigliere parlamentare/un traduttore fino a 358.000 euro annui

Questi stipendi possono contare su aumenti biennali del 2,5% e interessano un personale di 1.494 dipendenti, divisi in 5 livelli retributivi in base “alla complessità del lavoro, alla sfera di autonomia e alle connesse responsabilità”.

Il segretario generale è ai vertici della piramide retributiva (406.399,02 euro, in aumento del 2,5% ogni due anni) così composta:

  • 176 consiglieri parlamentari;
  • 4 interpreti e traduttori;
  • 288 tra documentaristi, tecnici e ragionieri;
  • 397 segretari parlamentari;
  • 156 collaboratori tecnici;
  • 411 assistenti parlamentari (commessi, barbieri, ex addetti alla buvette e al ristorante)
  • 59 operatori tecnici.

Da leggere: Gli stipendi d’oro degli ambasciatori italiani

Un barbiere o un centralinista guadagnano 136mila euro l’anno

La tabella riserva molte sorprese. Un barbiere, uno stenografo, un centralinista, un elettricista o un falegname hanno una retribuzione d’ingresso pari a 30mila euro, ma possono guadagnare oltre 50mila euro dopo 10 anni, oltre 90mila dopo il 20° anno, oltre 120mila dopo il 30° anno, oltre 127mila dopo il 35°, per volare sopra i 156mila euro dopo il 40° anno di attività.

Un consigliere parlamentare parte da una retribuzione di ingresso di oltre 64mila euro, per arrivare a ben 358mila euro l’anno.

Ex dipendenti di Camera e Senato: pensione

Ma non è finita qui. Schizzano verso l’alto anche le spese per le pensioni degli ex dipendenti. Nel 2017 i 1.300 lavoratori dalla Camera verseranno 80 milioni di contributi ma i loro ex colleghi riceveranno 265 milioni di pensioni, ovvero il doppio dei vitalizi dei politici.

Per ogni euro di contributi versati la categoria dei dipendenti del Parlamento riceve 3,5 euro di pensione. La differenza? Ce la mettono le famiglie e le imprese italiane.

Da leggere: Pensioni da fame

Privilegi Made in Italy

Grazie ai tagli, dal 2014 al 2107, erano tornati nelle casse dello Stato 24 milioni di euro. L’addio al tetto comporterà nel 2018 un aumento del peso degli stipendi dei dipendenti pari al 4,55% rispetto al 2017, ovvero 178 milioni sui 950 di uscite complessive dalla Camera.

Perché un barbiere, un centralinista, un elettricista, un segretario o un ragioniere devono avere stipendi da manager di alto livello o un reddito triplo o quadruplo rispetto agli altri cittadini solo perché operano nelle Istituzioni?

Queste schifezze succedono solo in Italia. Tanto paga come sempre Pantalone.