Numero3572.

 

U M B E R T O    G A L I M B E R T I

Appunti da una sua conferenza.

 

Partiamo dalla cultura medioevale: Inferno, Purgatorio, Paradiso; dove l’arte è arte sacra, dove persino la donna è “donna angelo”.

Se togli la parola Dio dalla cultura medioevale, non capisci niente di quel mondo; ma se togli quella parola dal mondo contemporaneo lo capisci ancora? Sì, sì, lo capisci benissimo.

Non lo capiresti più se togliessi la parola “tecnica” o se togliessi la parola “denaro”, che è diventato il generatore simbolico di tutti i valori.

Allora, come dice Nietzsche, “Dio è morto”.

Che cosa sono diventate le chiese se non le tombe e i sepolcri di Dio?

I nostri tempi non sono più pieni di futuro.

Io mi anestetizzo (mi drogo) nel presente perché non voglio vedere il futuro.

Non ho più l’orizzonte di senso: questo è il sentire delle generazioni di oggi perché il futuro non è più una promessa.

La scienza non guarda il mondo per contemplarlo, ma per manipolarlo.

Lo scienziato anticipa la sua teoria, poi verifica se questa sia riscontrabile ed attuabile nella natura e, da qui, la fa diventare legge di natura universale. Per sempre? No. Fino alla formulazione di una legge più raffinata e perfezionata, adattandosi alle nuove scoperte.

La scienza ha un intento manipolatorio.

È come un giudice che costringe l’imputato a rispondere alle sue domande.

Cartesio dice che l’uomo, con questo metodo, diventa “maitre et possesseur de la nature” (padrone e possessore della natura).

E ne è diventato anche la forza più distruttiva.

 

 

Numero3516.

 

da  QUORA

 

Scrive Jason Bondurant Deglianelli, corrispondente di QUORA

 

S T R A N E    C O N O S C E N Z E    D E I    D O G O N

 

Nel 1931, il celebre etnografo francese Professor Marcel Griaule, durante un viaggio nell’Africa occidentale, visitò una tribù sudanese che viveva in un’ansa del fiume Niger, nella Repubblica del Mali. Si trattava dei Dogon, un antico popolo il cui livello di civiltà sembrava indistinguibile da quello delle tribù vicine. Tuttavia, il professore rimase affascinato dagli insoliti racconti e miti tramandati oralmente di generazione in generazione tra questi contadini analfabeti. Raccontavano storie che riguardavano niente meno che l’origine e la struttura dell’universo, nonché gli antichi legami di questo popolo con il cosmo.

Da allora in poi, il professor Griaule e i suoi colleghi intrapresero regolarmente spedizioni tra i Dogon. Gli scienziati vissero a lungo tra gli ospitali africani, che gradualmente impararono a fidarsi dei bianchi, amichevoli e curiosi, e li iniziarono gradualmente ai loro segreti più profondi. Griaule e la sua assistente principale, la professoressa Germaine Deterlen, divennero i più devoti tra queste persone e, dopo la morte di Griaule nel 1956, lei continuò il loro lavoro congiunto. Griaule e Deterlen presentarono i risultati davvero sensazionali delle loro ricerche in una serie di pubblicazioni, la prima delle quali fu pubblicata nel 1950.

La scienza moderna postula che l’Universo abbia avuto origine dal Big Bang originale, prima del quale tutta la materia era compressa a una densità incredibile e occupava un volume infinitamente piccolo, e concetti come spazio e tempo erano inesistenti. Dal Big Bang (circa 13 miliardi di anni fa), l’Universo è in continua espansione, portando alla cosiddetta recessione galattica.

Ecco come si è formato l’universo, secondo le antiche leggende Dogon: “All’inizio di tutte le cose, c’era Amma, Dio, che non riposava sul nulla. Amma era come una palla, un uovo, e questo uovo era chiuso. A parte lui, nulla esisteva”. Nella loro lingua moderna, la parola “amma” significa qualcosa di immobile, altamente compresso ed estremamente denso. Inoltre: “Dentro Amma, il mondo era ancora senza tempo e spazio. Tempo e spazio si fondevano in uno”. Ma arrivò un momento in cui “Amma aprì gli occhi. Il suo pensiero emerse dalla spirale che, ruotando nel suo grembo, segnò la futura espansione del mondo”. Secondo la leggenda, il mondo moderno “è infinito, ma può essere misurato”. Questa frase è molto vicina alla formulazione di Einstein nella teoria della relatività.

I Dogon chiamano la nostra galassia, la Via Lattea, “confine di luogo”. “Il confine di luogo indica una sezione del mondo stellare di cui la nostra Terra fa parte, e questo mondo intero ruota a spirale. Amma ha creato un numero infinito di mondi stellari a forma di spirale.” (La maggior parte delle galassie oggi conosciute ha una forma a spirale.)

È particolarmente degno di nota che, a differenza di altri miti religiosi, i Dogon credano che la Terra non sia il centro dell’universo e che i terrestri non siano gli unici esseri viventi nell’universo. “I mondi stellari a spirale sono mondi abitati. Amma, che ha dato al mondo movimento e forma, ha creato simultaneamente tutti gli esseri viventi… sia sul nostro pianeta che sulle altre Terre…”. Sorprendentemente, le loro leggende includono i concetti di “stelle”, “pianeti” e persino “satelliti dei pianeti”. “Le stelle fisse sono quelle che non ruotano attorno ad altre stelle. Pianeti e satelliti dei pianeti sono stelle che ruotano in cerchio attorno ad altre stelle”. Come potevano persone che apparentemente vivevano in uno stato semi-primitivo sapere che “il Sole ruota sul proprio asse, come sotto la forza di una molla a spirale… e la Terra ruota su se stessa e, così facendo, attraversa lo spazio descrivendo un ampio cerchio”?

Tra i pianeti del sistema solare, i Dogon si concentrano principalmente su quelli visibili a occhio nudo: Marte, Venere, Saturno e Giove. Sanno che Venere ha un satellite, un fatto che la scienza moderna non ha ancora confermato. Quando iniziavano gli studiosi francesi alla conoscenza esoterica, i Dogon accompagnavano i loro racconti con simboli e diagrammi, a volte piuttosto complessi, ma sempre chiari. Rappresentavano Giove come un grande cerchio con quattro cerchi più piccoli, i satelliti del pianeta. Oggi si conoscono 16 satelliti di Giove, di cui i quattro scoperti da Galileo nel 1610 sono i più grandi e luminosi. I Dogon raffiguravano Saturno come due cerchi concentrici, spiegando che il cerchio esterno era uno (o più) anello (o anelli).

Tuttavia, il posto centrale nella mitologia di questo misterioso popolo è occupato da Sirio, la stella più luminosa del nostro cielo. Secondo i Dogon, Sirio è un sistema stellare che “ha un’influenza fondamentale sullo sviluppo della vita sulla Terra ed è il fondamento dell’universo”. Il sistema è costituito da Sirio stessa, da una seconda stella (Sirio B) e da una terza stella (Sirio C). I Dogon sostengono che tutti e tre gli altri corpi celesti siano così vicini alla stella principale da non essere sempre visibili. Gli astronomi moderni hanno scoperto solo la seconda di queste stelle. L’esistenza di Sirio C rimane oggetto di dibattito tra gli scienziati.

I Dogon affermano che Sirio B orbita attorno a Sirio, completando un’orbita completa ogni 50 anni. Quando Sirio B si avvicina a Sirio, quest’ultima inizia a brillare intensamente e, man mano che si allontana, tremola, dando l’impressione che Sirio B si sia trasformata in diverse stelle. Tra l’altro, la periodicità del bagliore di Sirio è stata confermata dagli astronomi.

Sirio B è invisibile a occhio nudo e, fino alla metà del XIX secolo, nessuno, tranne la straordinaria tribù Dogon, ne conosceva l’esistenza. I Dogon affermano che Sirio B è il più pesante di tutti i corpi celesti. È così denso che, se tutte le persone del mondo si riunissero, non sarebbero in grado di sollevarne nemmeno un piccolo frammento. In effetti, Sirio B è la prima “nana bianca” scoperta nell’universo: un corpo compresso e bruciato con un’incredibile densità di 50 tonnellate per centimetro cubo!

Anche i miti Dogon collegano Sirio alla comparsa dei primi esseri umani sulla Terra. Uno di questi sostiene che gli umani furono trasportati sulla Terra da astronavi – “arches celestiali provenienti da un pianeta il cui sole era la stella Sirio B prima della sua esplosione”. Durante la discesa, l’arca descrisse una doppia elica, riflettendo i movimenti della vita nel vortice che animò la sua prima particella. È noto che la molecola di DNA, portatrice del codice genetico, ha la forma di una doppia elica.

Le leggende Dogon narrano di due fasi del viaggio spaziale. La prima è associata all’arrivo sulla Terra di un essere di nome Ogo. La seconda è l’atterraggio di un’arca con a bordo Nommo e i primi umani. L’identità di Ogo non è chiara. Sembra essere una figura satanica, un arcangelo caduto che si ribellò ad Amma e ne imparò alcuni segreti. Si dice che Ogo abbia viaggiato nello spazio tre volte a bordo di piccole arche. È interessante notare che la fonte di energia delle sue astronavi erano le particelle “po”, la base fondamentale dell’universo cosmico.

Un altro eroe, Nommo, è raffigurato come un arcangelo che esegue la volontà di Amma. La sua missione principale è creare la vita sulla Terra e popolarla di esseri umani. Il mito descrive in dettaglio i preparativi per questa importante missione. La nave trasportava tutto il necessario per la creazione della vita, oltre a quattro coppie di gemelli, gli otto progenitori. La nave volò sulla Terra attraverso una speciale “finestra” temporanea nel cielo creata da Amma.

Dopo l’atterraggio, Nommo scese per primo sulla Terra, seguito dagli altri. Quando l’arca fu vuota, Amma tirò verso il cielo la catena di rame a cui era sospesa la nave e chiuse la finestra celeste. Questo significò la rottura di ogni legame tra l’equipaggio dell’arca e la civiltà che l’aveva inviata. Per i primi terrestri, non c’era modo di tornare indietro. Dovevano colonizzare il nuovo pianeta, coltivare la vita, “essere fecondi e moltiplicarsi”.

Oggi nessuno studia i Dogon. Tutto ciò che sappiamo su di loro deriva dalle spedizioni degli anni ’60 e ’70. Chissà quante scoperte avrebbero potuto fare astronomi ed etnografi se avessero lavorato con i Dogon oggi, all’inizio del terzo millennio, utilizzando i computer moderni!

Numero3503.

 

da  QUORA

 

Scrive Heisenberg, corrispondente di QUORA.

 

A L C U N I    F A T T I    C H E    S M E N T I S C O N O    L A    B I B B I A

 

Guarda, te ne posso anche elencare alcuni, ma devo necessariamente premettere che la Bibbia non può essere usata per descrivere la realtà.

Essa contiene miti, leggi, poesie e storie che per la maggior parte sono soggette a interpretazione e soprattutto non possono essere smentite in alcun modo (ma chiaramente non vuol dire che siano verità).

Tuttavia, nel momento esatto in cui uno scriba o un sacerdote vissuto migliaia di anni or sono fa un’affermazione assai specifica, testabile e fattuale sul mondo fisico, può essere smentita, eccome, se la si prende per quello che è.

E infatti, viene smentita di continuo, dacché quando le sue affermazioni si scontrano con la realtà oggettiva (fisica, chimica, biologia, geologia, astronomia ecc.), la Bibbia perde. Sempre.

Dunque, vediamo di accontentarti:

  • Smentita uno; creazione.
    • Bibbia: L’universo, la Terra, le piante, il Sole, gli animali e l’uomo sono stati creati in 6 giorni, in quest’ordine (N.B. le piante create prima del Sole).
      • Realtà: L’universo ha 13,8 miliardi di anni, la Terra 4,5 miliardi. L’ordine è Sole, Terra, animali, piante, uomo.
  • Smentita due: Diluvio.
    • Bibbia: Un diluvio globale ha coperto tutte le montagne (incluse le più alte, es. l’Everest) per sterminare i viventi. Tutta la vita animale (milioni di specie, N.d.A.) è stata salvata su un’Arca di legno.
      • Realtà: Non esiste nessuna traccia (zero) di un singolo strato di sedimento globale e simultaneo. Se fosse successo, lo vedremmo ovunque. Nondimeno, l’acqua necessaria per coprire l’Everest non esiste sul pianeta (e se ci fosse stata, dove sarebbe andata?). In altre parole è impossibile. Tralasciando che adunare due koala dall’Australia (e il loro cibo, l’eucalipto fresco), due pinguini imperatore dall’Antartide e milioni di altre specie (inclusi gli insetti) è un’assurdità che viola ogni legge bioecologica conosciuta.
  • Smentita tre: Esodo.
    • Bibbia: 600.000 uomini (quindi una popolazione totale di circa 2-3 milioni di persone) fuggono dall’Egitto e vagano nel piccolo deserto del Sinai per 40 anni.
      • Realtà: 2-3 milioni di persone (più o meno la popolazione di Roma) che vagano per 40 anni in un deserto avrebbero lasciato tracce massicce: accampamenti, cocci, milioni di tombe, fuochi. Gli archeologi (israeliani inclusi) hanno setacciato il Sinai. Non c’è nulla.
  • Smentita quattro: Giosuè.
    • Bibbia: Per aiutare Giosuè a vincere una battaglia, Dio ferma il Sole in cielo (e la Luna) “per circa un giorno intero”.
      • Realtà: Questa è una fesseria. Per “fermare il Sole”, è la Terra che deve smettere di ruotare. Sicché, i principi della dinamica falsificano totalmente tale affermazione. Se la Terra si fermasse all’improvviso infatti, tutto ciò che non è saldamente ancorato al nucleo (oceani, atmosfera, città, persone ecc.) continuerebbe a muoversi alla velocità di rotazione originale (~1.670 km/h all’equatore). Ebbene, questo non è un miracolo; è un evento di estinzione di massa. Genererebbe un attrito tale da vaporizzare gli oceani e scatenare tsunami e venti supersonici che spazzerebbero via ogni singolo organismo dalla superficie terrestre.
  • Smentita cinque: torre di Babele.
    • Bibbia: Tutta l’umanità parlava un’unica lingua e si riunì per costruire una torre fino al cielo. Dio, infastidito, confuse la loro lingua e li disperse.
      • Realtà: Le lingue umane non funzionano così. Esse non appaiono improvvisamente in un singolo evento, ma bensì evolvono assai lentamente da lingue madri comuni, diversificandosi nel corso di millenni (come l’italiano e il francese si sono evoluti dal latino).
  • Smentita sei: Canaan.
    • Bibbia: Gli Israeliti, guidati da Giosuè, condussero una rapida e brutale invasione militare della terra di Canaan, distruggendo città ben fortificate come Gerico.
      • Realtà: Questo, molto semplicemente, non è mai accaduto. Decenni di scavi (condotti anche da archeologi israeliani) non hanno portato alcuna prova di un’invasione straniera coordinata nell’Età del bronzo. Peraltro, all’epoca presunta dell’invasione, Gerico era un piccolo villaggio quasi disabitato e non c’erano “mura” da far crollare. Anzi, plausibilmente non esisteva in quel periodo; era stata abbandonata da secoli.
  • Smentita sette: patriarchi.
    • Bibbia: Gli uomini prima del diluvio vivevano vite incredibilmente lunghe (Matusalemme detiene il record di 969 anni).
      • Realtà: Non so nemmeno da dove iniziare; ma sicuramente è un’assurdità. La senescenza è un processo cablato nel nostro DNA. E il numero di volte in cui una cellula può dividersi prima di morire (e l’accorciamento dei telomeri a ogni divisione) pone un limite biologico netto alla vita dei mammiferi, con pochissime eccezioni (alcuni cetacei [es. balena artica ~200 anni, orca ~100 anni] e l’uomo [~80 anni]).
  • Smentita otto: censimento di Quirinio.
    • Bibbia: Maria e Giuseppe viaggiarono a Betlemme perché l’Imperatore Augusto ordinò un censimento in cui “tutti andavano a farsi registrare, ciascuno nella propria città”, e ciò avvenne mentre Publio Sulpicio Quirinio era governatore della Siria.
      • Realtà: Un resoconto del genere è l’incubo di ogni storico che si rispetti. Ebbene, i Romani, non hanno mai indetto un censimento che obbligasse le persone a tornare alle città dei loro antenati. Sarebbe stato un caos amministrativo abnorme e inutile; non erano così stupidi. Orbene, Quirinio fece effettivamente un censimento della sola Giudea, ma nel 6 d.C., e i Vangeli dal canto loro collocano generalmente la nascita di Gesù durante il regno di Erode, che morì nel 4 a.C. È dunque impossibile che Gesù sia nato sia sotto Erode che durante il censimento di Quirinio avvenuto dieci anni dopo, pur tralasciando le modalità dell’accaduto.
  • Smentita nove: oscurità della crocifissione.
    • Bibbia: Quando Gesù fu crocifisso, “si fecero tenebre su tutta la terra, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio”.
      • Realtà: Non può essere un’eclissi solare, dacché avvengono solo con il novilunio e la Pasqua avviene sempre durante il plenilunio. Ma in ogni caso, un evento così terrificante (tre ore di buio totale e innaturale sull’Impero Romano!) sarebbe stato con ogni probabilità di gran lunga l’evento più documentato del millennio. Eppure, zero. Nessuno storico, astronomo o scrittore contemporaneo (Seneca, Plinio il Vecchio, ecc.) ne fa menzione.
  • Smentita dieci: zombi.
    • Bibbia: Nel momento in cui Gesù muore, “le tombe si aprirono e molti corpi dei santi, che erano morti, risuscitarono. E, uscendo dai sepolcri, dopo la resurrezione di lui, entrarono nella città santa e apparvero a molti”.
      • Realtà: Ne vogliamo parlare? Un’apocalisse zombi avvenuta a Gerusalemme, una città sotto stretta occupazione romana e documentata meticolosamente dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, e nessuno se n’è accorto? Nessun resoconto romano, nessun testo ebraico, nessuno storico (nemmeno gli altri evangelisti!) menziona un evento così sconvolgente. È un’affermazione che si smentisce praticamente da sola.
  • Smentita undici: parabola del granello di senape.
    • Bibbia: Gesù presenta una parabola affermando che il Regno dei Cieli è come un granello di senape. Egli afferma che questo seme è “il più piccolo di tutti i semi” sulla terra e che una volta seminato, cresce e “diventa un albero” così grande che gli uccelli vengono a nidificare sui suoi rami.
      • Realtà: Questa affermazione è doppiamente falsa. In primis, non è il seme più piccolo; e non lo era nemmeno intorno al 30 d.C. in Palestina. I semi del papavero o della ruta ad es., entrambi comuni nella regione, sono significativamente più piccoli. E se guardiamo al mondo, i semi di orchidea sono i veri detentori del record (sono simili a polvere, e ce ne sono milioni in un singolo grammo). Ma soprattutto, caro Gesù, la senape non diventa un albero. Le piante del genere Brassica o Sinapis sono erbe annuali o, al massimo, grossi arbusti. Effettivamente, possono crescere molto in una stagione (fino a 2-3 metri in condizioni ideali), ma gli steli non sono legnosi e non sono perenni. Sicché, non svilupperanno mai rami robusti in grado di sostenere i “nidi” degli uccelli e in ogni caso, alla fine della stagione, muoiono.
Penso che possa bastare.

Numero3402.

 

R I M P I A N T I

 

Scrivo, qui di seguito, dei 5 rimpianti più comuni in punto di morte.

 

Sono stati identificati da Bronnie Ware, un’infermiera palliativa australiana che ha raccolto le testimonianze di molte persone negli ultimi giorni di vita.

 

1   Avrei voluto avere il coraggio di vivere una vita più autentica, seguendo i miei sogni, invece di assecondare le aspettative degli altri.

 

2   Avrei voluto non lavorare così tanto, dedicando più tempo a me stesso e alla mia famiglia.

 

3   Avreo voluto avere il coraggio di esprimere i miei sentimenti e di dire ciò che davvero pensavo.

 

4   Avrei voluto mantenere i rapporti con i miei amici più stretti, coltivando le amicizie.

 

5   Avrei voluto permettermi di essere più felice e meno preoccupato, godermi di più la vita.

 

MORALE:   Non rimandare la vita a domani. Sii coraggioso, vivi autenticamente e ama senza riserve.

Solo così eviterai i rimpianti che, di solito, si hanno da vivi.

 

@DianaUrsu

 

 

 

 

Numero3148.

 

L’ E D I T T O    D I    C O S T A N T I N O

 

“La donazione di Costantino”, documento falso, che attribuiva alla Chiesa il potere temporale, è mai stato riconosciuto falso dalla Chiesa Cattolica?

 

Il documento, recante la data del 30 marzo 315, afferma di riprodurre un editto emesso dall’imperatore romano Costantino I. Con esso l’imperatore avrebbe attribuito al papa Silvestro I e ai suoi successori le seguenti concessioni:

Il primato (principatum) del vescovo di Roma sulle chiese patriarcali orientali: Costantinopoli, Alessandria d’Egitto, Antiochia e Gerusalemme;

la sovranità del pontefice su tutti i sacerdoti del mondo;

la sovranità della Basilica del Laterano, in quanto “caput et vertex”, su tutte le chiese;

la superiorità del potere papale su quello imperiale.

Inoltre la Chiesa di Roma ottenne secondo il documento gli onori, le insegne e il diadema imperiale ai pontefici, ma soprattutto la giurisdizione civile sulla città di Roma, sull’Italia e sull’Impero romano d’Occidente.

L’editto confermerebbe inoltre la donazione alla Chiesa di Roma di proprietà immobiliari estese fino in Oriente. Ci sarebbe stata anche una donazione a papa Silvestro in persona del Palazzo del Laterano. l

La parte del documento su cui si basarono le rivendicazioni papali recita:

  • «In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo… Finalmente noi diamo a Silvestro, Papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell’Italia e delle regioni occidentali.»
  •  Nel 1440, l’umanista Lorenzo Valla dimostrò, senza ombra di dubbio, la falsità del documento: era scritto in un latino medievale troppo diverso da quello usato ai tempi di Costantino ed era pieno di errori storici o anacronismi.
  • Valla era un esperto filologo, il latino utilizzato nel redigere il documento è inequivocabilmente di un epoca molto più recente di quella in cui era vissuto l’imperatore Costantino. Le lingue si modificano nel tempo: ad esempio l’italiano utilizzato ai tempi di Dante Alighieri è ben diverso rispetto a quello del Manzoni, quindi se volessimo attribuire i Promessi Sposi a Dante Alighieri sarebbe ben evidente che un fiorentino del trecento non avrebbe mai potuto scrivere in quel modo. La donazione di Costantino era scritta in una lingua che mai Costantino avrebbe potuto parlare!
  • È considerato tuttora “storico” dalla Chiesa.

Numero3143.

 

da QUORA

 

L’ A N T R O    D E L L’  I N Q U I S I Z I O N E

 

Scrive Davide Bozzolan, corrispondente di QUORA.

 

Nel cuore oscuro della storia, tra le pieghe più nere della persecuzione e della crudeltà, si nasconde un metodo di tortura tanto agghiacciante quanto poco conosciuto: l’Antro dell’Inquisizione.

Questo terribile strumento di tortura, utilizzato nel tardo Medioevo, rappresenta un capitolo da brividi nella storia dell’orrore umano.

L’Antro dell’Inquisizione non era un’invenzione singola ma piuttosto un metodo combinato di torture che sfruttava l’oscurità e la claustrofobia per massimizzare la sofferenza.

La vittima veniva rinchiusa in una cella sotterranea, una cavità buia e angusta, progettata appositamente per amplificare la paura e la disperazione.

All’interno di questo antro, le condizioni erano spaventose: l’aria era densa, l’umidità alta e la temperatura instabile, creando un ambiente in cui i sensi erano costantemente sollecitati.

Per intensificare la tortura, i carcerieri utilizzavano un metodo psicologico chiamato “la danza delle ombre”.

Utilizzando candele e torce, proiettavano ombre distorte sulle pareti, creando illusioni spettrali che sembravano prendere vita.

Questi giochi di luce e ombra erano accompagnati da suoni inquietanti, come il crepitio di rami e il rumore di passi fantasma, che inducevano un costante stato di terrore nella vittima.

Ma l’orrore non finiva qui. I torturatori avevano l’abitudine di rivelare che la cella conteneva insetti e parassiti, di cui non esisteva alcuna prova concreta, ma che venivano accuratamente descritti in dettaglio.

La paura della infestazione e l’idea di essere mangiati vivi da creature invisibili causavano una grande angoscia psicologica.

Un colpo di scena agghiacciante è che l’Antro dell’Inquisizione non è mai stato documentato in testi storici ufficiali; si parla di esso solo attraverso racconti orali e leggende locali.

I pochi documenti storici che menzionano questa forma di tortura sono stati trovati in archivi segreti, custoditi gelosamente dalle istituzioni religiose che temevano di svelare al mondo l’orrore che avevano perpetuato.

Le vittime di questo metodo subivano anche torture fisiche.

In alcuni casi, i torturatori utilizzavano strumenti appuntiti per infliggere dolore, mentre in altri, i prigionieri erano costretti a rimanere in posizioni scomode per ore, senza cibo né acqua.

L’effetto combinato delle tortura fisica e psicologica portava spesso alla follia e alla morte.

Il mistero e la crudeltà dell’Antro dell’Inquisizione rimangono un macabro promemoria della capacità dell’uomo di infliggere sofferenza. La mancanza di documentazione ufficiale ha solo accresciuto il fascino e il terrore che circondano questa pratica.

Numero3133.

 

da  QUORA

 

Per quale motivo gli Ebrei sono stati e sono il popolo più perseguitato della storia?

 

Scrive Francesco Andreoli Sussex, corrispondente di QUORA

 

3.000 anni fa, gli ebrei erano un popolo minuscolo, circondato da decine di altri popoli, che vivevano in un paese esteso quanto per es. la Lombardia, con una cultura copiata da tutti i popoli circostanti, con una storia molto simile a quella di ogni altro popolo. Come loro Dio avevano scelto YHWH, un Dio onnipotente, esclusivo, unico, che domina tutto, spiegando tutte le avversità della vita come una punizione inflitta da YHWH per non aver obbedito ai suoi comandamenti. Disse loro di sterminare i popoli che vivevano in Canaan e di conquistare il loro paese, perché facevano cose orribili come sacrificare bambini a Baal/Moloch, cosa che YHWH proibisce… Successivamente la loro terra fu conquistata dai Romani e gli ebrei si dispersero in tutto l’impero.

All’imperatore Costantino piacque l’idea di un unico Dio, e radunò tutti i teologi dell’impero Romano al Concilio di Nicea nel 325 d.C. per creare una nuova religione che unificasse tutti i popoli per evitare litigi (il mio Dio è migliore del tuo.. come le squadre di calcio) fondendo tutte le credenze esistenti.

I contatti con l’india portarono all’introduzione di concetti buddisti come “Se ti colpiscono su una guancia, porgi l’altra”… “se ti chiedono la tunica devi dare anche il mantello…” e “le tasse devono essere pagate”.

Dall’induismo presero l’idea di lavare via i peccati con un bagno nel fiume.

I celti avevano l’abitudine di sacrificare persone per ottenere la remissione dei peccati da Dio… e lì hai l’idea di un uomo sulla croce… sacrificato per l’assoluzione dei nostri peccati…

Dall’antica Grecia importarono il concetto di nascita verginale.

Dall’antica mitologia egizia importarono l’immagine di Iside, trasformandola in Maria col Bambino… il concetto di Peccato Originale ecc.

Il Dio protettore di Roma.. il Sol Invictus, fu trasformato in Gesù Cristo. Crearono una religione in cui le decisioni delle autorità dovevano essere accettate totalmente, che predicava che “gli oppressi devono sottomettersi volontariamente con entusiasmo ai loro oppressori” perché i mansueti avrebbero ottenuto giustizia “dopo la loro morte”…

Poiché il concetto filosofico secondo cui c’è UN SOLO DIO che pervade l’universo è troppo remoto per le masse, tutti gli altri Dei furono trasformati in Santi Patroni delle professioni e protettori contro le malattie per rassicurare la popolazione e darle qualcosa di umano con cui relazionarsi. L’Egiziano Osiride fu trasformato in Sant’Onofrio, Marte divenne San Martino. Helios divenne Sant’ Elia, ecc. ecc.

Naturalmente, gli ebrei rifiutarono questa religione guazzabuglio che NON AVEVA NULLA A CHE FARE con la Torah, e iniziarono a essere perseguitati.

La religione creata da Costantino e imposta da Teodosio, era però stata studiata unicamente per i cittadini dell’impero romano. Gli imperatori non erano assolutamente interessati a quello che succedeva fuori dall’impero. Abbiamo documenti che ci provano che l’imperatore cinese aveva sentito parlare dell’impero romano e della religione che vi si praticava, e scrisse chiedendo l’invio di missionari in Cina per far conosce la religione cristiana. La risposta fu chiara e netta. Le autorità religiose cristiane non erano assolutamente interessate ad esportare il Cristianesimo.

Gli ebrei che erano migrati fuori dall’impero romano, per esempio in Cina e in India NON furono perseguitati….

La situazione proseguì per secoli senza cambiare, finché un cammelliere arabo cominciò a predicare la propria religione, totalmente copiata dall’Ebraismo, e raccolse un certo numero di seguaci. Finché alla Mecca i suoi seguaci erano una piccola minoranza, predicava la tolleranza per reclamare uno spazio per la propria religione, ma dopo la fuga e la conquista della Medina, iniziò una campagna di conquista ed egli decise che la religione da lui creata dovesse essere imposta con la forza a tutto il mondo.

Ovviamente, dove arrivarono le truppe di Maometto, iniziarono le persecuzioni antiebraiche…

Numero3099.

 

da  QUORA

 

Scrive Armando La Torre, corrispondente di QUORA

 

Il giorno che cambiò la Chiesa: le vere ragioni delle dimissioni di Papa Benedetto XVI.

 

Il giorno in cui Papa Benedetto XVI annunciò le sue dimissioni, l’11 febbraio 2013, il mondo intero si fermò. La Chiesa, quella struttura marcia fino al midollo, fondata su millenni di ipocrisia e potere, era improvvisamente scossa dalle fondamenta. Ma parliamoci chiaro: Benedetto XVI non si è dimesso per “stanchezza” o per “motivi di salute”. Queste sono le solite fesserie che la Chiesa propina a quei fedeli beoti che credono ancora nella santità del sistema. Le vere ragioni delle sue dimissioni puzzano di escrementi e marciume a chilometri di distanza.

Ratzinger, al di là della facciata da topo di biblioteca e delle omelie noiose come la morte, non era un idiota. È stato per anni il perfetto guardiano del dogma, un pastore dei lupi travestiti da pecore. Ma proprio quando ha messo le mani sul trono di San Pietro, ha iniziato a scoprire cosa realmente si nasconde dietro le sacre mura vaticane. Non sono solo i preti pedofili il problema, quello lo sanno pure i sassi e la Chiesa li copre con la stessa disinvoltura con cui si soffia il naso. Il problema più profondo è il vero potere, quello che non appare nei documenti ufficiali, quello che si muove dietro le quinte con la delicatezza di una spinta in mezzo alle budella.

Benedetto si è trovato con la melma fino al collo. I soldi, le alleanze segrete, le connessioni con banche sospette, traffici illeciti, giochi di potere che avrebbero fatto impallidire Machiavelli. Si parla di ricatti, scandali sessuali, intrighi finanziari che coinvolgevano cardinali e affaristi corrotti fino al midollo. Un’intera struttura mafiosa ben nascosta dietro gli incensi e le preghiere. Che cosa credi? Che il Vaticano, quella macchina infernale di potere, stia lì a perdere tempo a predicare pace e carità? Svegliati. Sono lì a mantenere il controllo, a gestire patrimoni che farebbero sfigurare i magnati più ricchi del pianeta.

Benedetto XVI aveva capito di essersi infilato in una trappola. Ha provato a fare pulizia, a eliminare qualche scheletro dall’armadio, ma si è reso conto che quello non era un armadio, era un mausoleo. E che fare? Continuare a giocare il ruolo del pastore mansueto mentre ti soffocano alle spalle? O fare l’unica cosa possibile per evitare di finire in qualche scandalo che ti avrebbe distrutto la vita e la reputazione? Le dimissioni sono state la sua fuga, la sua via d’uscita da una gabbia di serpenti pronti a morderti alla gola appena volti le spalle.

Alcuni dicono che ci sia stato anche un ricatto vero e proprio. Non ti sorprenderebbe sapere che certe informazioni, se fatte trapelare, avrebbero portato giù non solo lui, ma un’intera generazione di vescovi e cardinali. Magari qualcuno è venuto a bussare alla sua porta, con una bella valigetta piena di prove inconfutabili su qualche schifezza che il mondo non avrebbe mai dovuto vedere. Immaginati la scena: il Papa, il vicario di Cristo in Terra, con un dossier in mano, sudato e pallido come un morto, che realizza che non c’è più scampo. Benedetto, con tutto il suo amore per la dottrina e la teologia, ha semplicemente scelto di mollare.

L’elezione di Papa Francesco, guarda caso, è arrivata subito dopo. Il buon gesuita, che si è subito posizionato come “l’uomo delle riforme”. Ma davvero c’è qualcuno che crede che la Chiesa possa essere riformata? Questa istituzione è marcia fino all’osso e non c’è niente da salvare. Ogni volta che provano a fare una “pulizia”, semplicemente spostano qualche pedina da un angolo all’altro, ma il fetore rimane.

Le dimissioni di Benedetto XVI non sono state un atto di umiltà o di saggezza. Sono state il gesto disperato di un uomo che ha capito di essere circondato da un branco di lupi affamati, pronti a sbranarsi a vicenda per una briciola di potere. Benedetto è scappato perché aveva capito che, restando, sarebbe affondato con loro. Ha preferito sparire piuttosto che essere ricordato come il Papa che ha visto crollare tutto il sistema sotto i suoi piedi.

Quindi, quando la gente parla di “motivi di salute” o di “anzianità”, puoi tranquillamente ridergli in faccia. La realtà è molto più sporca, cinica e disumana di quanto la gente voglia credere. E il Vaticano? Beh, quello continuerà a esistere, con i suoi giochi di potere, i suoi segreti e la sua dannata ipocrisia. Che Dio li perdoni, perché qui sulla Terra di perdono non ce n’è proprio per nessuno.

Numero2895.

 

C R O N O V I S O R E

 

Questo argomento è già stato trattato al Numero1142 e al Numero1141. Qui viene approfondito, almeno in parte, ma meriterebbe di essere sviscerato ulteriormente, perché di enorme importanza.

Pellegrino Ernetti: monaco, fisico, esorcista, esperto di musica

Lunedì 7 Ottobre 2019 di Alberto Toso Fei

 

Se fosse vera – poiché il mistero che vi aleggia e il dibattito che vi si svolse attorno rendono tutto indistinguibile – sarebbe la più sconvolgente scoperta scientifica di tutti i tempi: il “Cronovisore”, un apparecchio che poteva catturare immagini e suoni dal passato, e mostrarli come in una diretta televisiva; come se avvenissero davanti agli occhi di chi osservava.

Il suo inventore, Pellegrino Ernetti, ebbe per questo buona fama, finché ogni cosa – tra smentite e silenzi – fu seppellita dall’oblio. Eppure questo monaco benedettino, che visse e operò per decenni sull’isola di San Giorgio Maggiore, fece parlare a lungo di sé e dei suoi studi, e prima di portare con sé il segreto nella tomba – nel 1994 – operò in più settori singolari.

Frate, fisico, esorcista ufficiale della diocesi di Venezia e titolare dell’unica cattedra del suo genere al mondo (quella di musica prepolifonica) al Conservatorio “Benedetto Marcello”, Pellegrino Alfredo Maria Ernetti nacque a Rocca Santo Stefano – in provincia di Roma – nel 1925: uomo di vasta cultura e di mente estremamente aperta, ebbe la prima intuizione della possibilità di esplorare i confini del tempo dopo la laurea in fisica, a Milano, mentre all’Università Cattolica del Sacro Cuore collaborava con padre Agostino Gemelli. Secondo il suo stesso racconto, gli accadde di essere testimone di un fatto singolare: sul nastro di un registratore era rimasta impressa la voce del defunto genitore di Padre Gemelli, in risposta a una invocazione da parte di suo figlio.

Erano gli anni Cinquanta, e l’idea che la nascente tecnologia elettronica potesse creare dei legami col passato gli sembrò estremamente concreta: la sua “macchina del tempo” (la definizione di “Cronovisore” fu creata più tardi dallo studioso Luigi Borello) si basava sulla teoria che ogni gesto, ogni movimento, ogni azione effettuata dall’uomo si trasforma in energia che non si distrugge ma da quel momento inizia a vagare nell’Universo. Il segreto stava tutto nel decodificare quell’energia, tornando alla posizione che aveva la terra nel momento in cui si svolgeva l’evento passato e “sintonizzandosi” con essa (peraltro seguendo la teoria relativistica di Albert Einstein).

Il gruppo di lavoro sarebbe stato composto da dodici persone, tra cui Enrico Fermi e Werner von Braun, lo scienziato tedesco direttore della Nasa e progettista del missile che più tardi portò l’uomo sulla luna, oltre allo stesso Gemelli. I primi esperimenti riguardarono personaggi vicini a quel tempo, in modo da poter controllare se ciò che veniva visto rispondeva alla realtà conosciuta. Si cominciò dunque con Mussolini, e rapidamente si passò a Napoleone; poi Ernetti e i suoi collaboratori si spinsero nell’antichità, e videro Cicerone mentre pronunciava i suoi discorsi, le legioni romane in marcia, e assistettero alla rappresentazione del “Thyestes” di Quinto Ennio, recitato a Roma nel 169 avanti Cristo, durante i Giochi Pubblici in Onore di Apollo. Arrivarono a trascriverne i passaggi, visto che della tragedia esistevano solo dei frammenti.

Alla fine il gruppo si spinse oltre l’immaginabile, e col visore assistette all’Ultima Cena, al tradimento dell’orto degli ulivi, alla flagellazione, al viaggio sul Calvario, alla crocifissione, sepoltura e resurrezione di Cristo. Videro tutto, sentirono ogni parola, ascoltarono ogni rumore. E giurarono di non dire nulla a nessuno.

Ogni singolo esperimento fu filmato e mostrato a Pio XII; fu proprio il Vaticano a impedire che il progetto venisse divulgato: caduto in mani sbagliate, con la sua potenziale capacità di leggere anche i pensieri – altra forma di energia – il “Cronovisore” sarebbe divenuto un’arma di potere terribile e capace di sconvolgere l’intera umanità. Fu quindi smontato e consegnato alle autorità ecclesiastiche, che ne custodirebbero ancora oggi il segreto. E sebbene già allora una delle immagini diffuse da Ernetti sulla passione di Cristo fu riconosciuta come falsa (anche se i sostenitori dell’esistenza dell’apparecchio ritengono che si trattò di una falsa prova escogitata proprio allo scopo di screditare e far dimenticare l’intera operazione), la fama della macchina del tempo creata da un monaco veneziano e languente in qualche magazzino del Vaticano, coperta di polvere, è lontana dal tramontare.

Numero2872.

 

da QUORA

 

Scrive Joannis, un corrispondente di QUORA.

 

 

“Venerabili fratelli, il momento in cui vi giunge questa nostra prima Enciclica è, sotto più aspetti, di una vera ora delle tenebre”.

 

Ambrogio Ratti nacque nel 1857 e divenne sacerdote 22 anni dopo. Prima Arcivescovo e poi Cardinale, salì al soglio di Pietro nel 1922 assumendo il nome di Pio XI.

I suoi anni di pontificato sono stati i più complessi della storia, attraversati dal nazifascismo e dal comunismo staliniano.

L’interlocutorio suo operato si conclude con un clamoroso enigma: la storia dell’ enciclica Humani Generis Unitas.

Negli ultimi anni di vita, soprattutto dopo la proclamazione delle leggi razziali del 1938, Pio XI iniziò ad avere dei ripensamenti sul suo legame con Mussolini.

Così incaricò il gesuita John La Farge di preparare la bozza dell’enciclica Humani generis Unitas (Unicità del Genere Umano), una condanna della Chiesa contro le discriminazioni.

Lunga 100 pagine, fu vergata a Parigi e poi spedita in Vaticano. Nel 1939, mentre la bozza era sul tavolo pronta per essere firmata e resa ufficiale il giorno dopo, il papa morì improvvisamente.

Così l’enciclica venne distrutta.

Il Segretario della Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari Domenico Tardini disse che venne contattato dal monsignor Montini (futuro Paolo VI) che era stato chiamato dal cardinale Pacelli (futuro Pio XII) e gli intimarono di distruggere tutto il materiale.

Lo so che però una domanda affiora prepotente in voi: “c’è qualcuno che avrebbe potuto uccidere il pontefice?”.

Il medico di Pio XI si chiamava Francesco Petacci, padre di una bella ragazza di nome Claretta….

Numero2862.

 

A I    G I O V A N I    I T A L I A N I

 

Correva l’anno 1818 e, dalla dimora gentilizia in Recanati, dove abitava la famiglia paterna del Conte Monaldo, un giovane, aveva allora 20 anni, Giacomo Leopardi, fra le sue “sudate carte”, mandava un appello, nobile, accorato e quasi commovente, ai suoi coetanei e conterranei. A oltre 200 anni di distanza di tempo, è di una sorprendente attualità. Eccolo.

 

Io non vi parlo da maestro, ma da compagno. Non vi esorto da capitano, ma vi invito da soldato. Sono coetaneo vostro e condiscepolo vostro ed esco dalle stesse scuole con voi, cresciuto fra gli studi e gli esercizi vostri, partecipe dei vostri desideri, speranze e timori.
Abbiate pietà di questa bellissima terra e dei monumenti e delle ceneri dei nostri padri.
Fate che la povera patria nostra, in tanta miseria, non rimanga senza aiuto, perché non può essere aiutata fuorché da voi.

Numero2804.

 

 

C H I    E R A    G E S U’

 

Gesù non era cristiano, era un ebreo osservante, che mai avrebbe immaginato di dar vita a una nuova religione e meno che mai di fondare una “Chiesa”. Mai si è proclamato Messia, e se qualcuno degli apostoli ha ipotizzato che fosse “Cristo” ( “Unto” in greco antico, “Messiah” in ebraico), ha sempre rifiutato questa investitura. Gesù e Cristo sono dunque due figure incompatibili. Storicamente reale il primo, profeta apocalittico ebreo di Galilea, frutto di tre secoli di “invenzione” teologica il secondo, culminati nel Concilio di Nicea.

Paolo Flores d’Arcais

Numero2742.

da Internet

 

Michelangelo Florio Crollalanza, in arte William Shakespeare

 

La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce da varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.

La teoria dell’origine messinese del grande drammaturgo, scrive Principiato, era stata avanzata anche in sede universitaria, nel 1950, dalla cattedra di storia del diritto italiano dell’ateneo di Palermo, dal professor Enrico Besta. Molto più recentemente, Martino Iuvara da Ispica (Ragusa), pubblicò nel 2002 un volume intitolato “Shakespeare era italiano”, in cui riprese le varie tesi esposte nel tempo, arricchendole con alcuni particolari inediti frutto di sue ricerche. «In particolare – precisa Principiato – avrebbe chiarito il mistero del nome italiano del Bardo che, secondo lo studioso ispicese, era Michelangelo Florio, figlio di un medico di origine ebraica e di religione calvinista e di una nobile siciliana, Guglielma Crollalanza, da cui la traduzione inglese di William Shakespeare». La notizia fu «una ghiottoneria per tutti gli organi di stampa, non solo italiani». Lo stesso “Times”, in un articolo di Richard Owen, «uscì sulla vicenda con toni sorprendentemente accondiscendenti verso la tesi di Iuvara», secondo cui il vero Shakespeare, cioè Michelangelo Florio, nacque a Messina il 23 aprile 1564 da Giovanni Florio, medico e pastore calvinista di origine palermitana, e dalla nobile Guglielma Crollalanza.

Il piccolo Michelangelo, cioè il futuro William, si rivelò subito un bambino prodigio, dotato di grande genialità e appassionato della lettura. A 16 anni conseguì il diploma del Gimnasium in latino, greco e storia. Giovanissimo, a conferma delle sue doti, scrisse una commedia in dialetto dal titolo “Tantu trafficu ppi nenti”. «A causa delle credenze religiose del padre, Michelangelo (o Shakespeare, se preferite), non più al sicuro a causa dell’Inquisizione, venne prima mandato in Valtellina e poi a Milano, Padova, Verona, Faenza e Venezia. Ebbe anche il tempo di tornare a Messina, ma la sua permanenza nella città dello stretto durò poco», continua Principiato. A 21 anni Michelangelo iniziò il suo personale “giro del mondo”: soggiornò prima ad Atene, dove fu insegnante, poi in Danimarca, Austria, Francia e Spagna. «Tornato ancora una volta in Italia, precisamente a Treviso, s’innamorò di una giovane di nome Giulietta». Ma la storia tra i due «finì in tragedia con il rapimento, per cause religiose, e la successiva morte di quest’ultima». Sconvolto per la morte dell’amata, Michelangelo si trasferì a Venezia ma, dopo che anche il padre per le stesse ragioni fu trucidato, decise di mettersi in salvo trasferendosi a Londra. «È qui che Michelangelo Florio cambia identità e diventa il famoso William Shakespeare».

«Lasciatosi alle spalle tutte le paure e i dolori precedenti», “Shakespeare” ebbe finalmente modo di dedicarsi a scrivere per il teatro, continua Principiato. «Le rappresentazioni dei suoi testi ebbero grande consenso tra il pubblico. Ma grande merito del successo andava al dotto e letterato cugino che lo aiutò nelle traduzioni dall’italiano all’inglese e alla moglie, sposata quando il drammaturgo aveva 28 anni, e di 8 anni più grande di lui». Superate le iniziali difficoltà legate al problema della lingua, “Shakespeare” «si impadronì perfettamente dell’inglese, coniando addirittura migliaia di nuovi vocaboli e arricchendo in maniera straordinaria la propria produzione letteraria». Divenne ricco e famoso, e le sue opere molto apprezzate. Morì a Londra il 23 aprile 1616, sempre secondo lo Iuvara. Sicché, “Molto rumore per nulla” sarebbe la versione italiana di “Tantu trafficu ppi nenti”, che Michelangelo Florio di Crollalanza scrisse a Messina intorno al 1579 (manoscritto andato perduto). Ma sono davvero tante le argomentazioni sulla presunta messinesità di Shakespeare, a cominciare da “Amleto”, in cui compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guildenstern, che frequentarono l’università di Padova e che Michelangelo Florio aveva conosciuto. Nella stessa opera si trovano poi molti proverbi, pubblicati da Florio, senza pseudonimi, nel volumetto “I secondi frutti”.

L’origine italiana di Shakespeare, continua Principiato, forse può spiegare i molti luoghi, presenti nelle sue opere, che caratterizzano l’Italia e i nomi italiani: “Romeo e Giulietta”, “Otello”, “Due signori di Verona”, “Sogno di una notte di mezza estate” e “Il mercante di Venezia”, oltre a “Molto rumore per nulla”. Poi “La bisbetica domata”, che è di Padova. E ancora: “Misura per misura”, “Giulio Cesare”, “Il racconto dell’inverno” e “La tempesta”, che inizia a Milano. «Più di un terzo (ben 15) dei suoi 37 drammi sono ambientati in Italia». «Nel “Mercante di Venezia” il colore locale è stupefacente: esatte espressioni marinaresche sono poste in bocca a Salanio e Salerio, si parla del traghetto che unisce Venezia alla terraferma,  si dà l’esatta posizione di Belmont (cioè Montebello, un sobborgo di Venezia) e di Padova, e si da notizia del tragitto che deve essere percorso da Porzia e Nerissa». Proprio nel “Mercante”, il Bardo «rivela una approfondita conoscenza della legislazione veneziana del tempo, completamente diversa da quella vigente in Inghilterra e che nessun inglese del tempo conosce così bene». E c’è di più: «Il maestro Bellario, citato nel testo, adombra un personaggio realmente esistito e molto famoso nell’ambiente giuridico padovano, il professor Ottonello Discalzio». La gran parte delle opere firmate Shakespeare rivela una conoscenza diretta dei luoghi che Michelangelo Florio ha visitato durante la sua giovinezza girovaga. E “Giulietta e Romeo” appare chiaramente come una trasfigurazione artistica della storia d’amore vissuta durante la giovinezza.

Nei registri della scuola secondaria di Stratford, la “Grammar School”, non compare il nome di nessun William Shakespeare, annota Principiato. Si sa che l’artista frequentasse a Londra un “Club In”. In quel club, però, non risulta registrato fra i soci nessuno “Shakespeare”, mentre vi risulta registrato Michelangelo Florio. «E’ noto che la sciattezza della biografia di Shakespeare, raffrontata alla grande mole della sua opera teatrale, ha fatto negare a molti studiosi l’autenticità della sua esistenza, e ritenere essere egli il prestanome di personaggi più famosi». I drammi di Shakespeare, poi, «rivelano una straordinaria esperienza secolare». Aveva ad esempio una buona conoscenza della legge, e fece largo uso di termini e precedenti legali: nel 1860 John Bucknill scriveva di lui dicendo che conosceva a fondo la medicina. Lo stesso si può dire delle sue nozioni di caccia, falconeria e altri sport, come pure dell’etichetta di corte. Lo storico John Mitchell lo definisce «lo scrittore che sapeva tutto». Un uomo di lettere? Il padre di William, John, (quello inglese) era un guantaio, commerciava in lana e forse faceva il macellaio. Era proveniente da una famiglia di contadini e piccoli proprietari terrieri (yeomen) del Warwickshire: un suddito rispettato, ma illetterato.

E’ noto che “Shakespeare” conoscesse bene anche la storia romana: sapeva anche che Pompeo aveva soggiornato a Messina, nel 36 a.C. Nella Commedia “Antonio e Cleopatra”, infatti, conoscendo questi fatti storici, parla della casa di Pompeo che è a Messina e proprio lì ambienta l’atto II, scena I: “Messina. In casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Menas, in assetto di guerra”». In “Molto rumore per nulla”, commedia degli equivoci, «sono riscontrabili modi di dire e doppi sensi propri della parlata messinese», addirittura “Mìzzeca, eccellenza!” (Atto V scena I). Osserva Principiato: “crollare”, in italiano antico, significava “scrollare”, dimenare qua e là; quindi “crollalanza” è il traducente perfetto di “shakespeare”. «L’atto da cui deriva il cognome  risale alla “Germania” di Tacito: “Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt. Honoratissimum adsensus genus est armis laudare», (capitolo 11). Traduzione: “Se il parere non è piaciuto, [I germanici in assemblea] lo respingono mormorando; se invece è piaciuto [s]crollano le lance. È il modo più onorevole d’approvazione, lodare con le armi”. E la voce “crollare”, nell’autorevolissimo Tommaseo-Bellini, «dimostra indubitabilmente l’accezione antica di “crollare” che equivale al “concutio” tacitiano e all’inglese  “shake” scespiriano».

I biografi, aggiunge Principiato, ipotizzano che Shakespeare abbia maturato la sua vasta conoscenza della legge e la sua accurata familiarità con i modi, il gergo e i costumi degli avvocati dopo essere stato lui stesso, per poco tempo, il cancelliere del tribunale di Stratford. Ipotesi ben poco credibile. E poi: chi conservò i manoscritti di Shakespeare? Attorno a Stratford non ve n’era traccia. «Un religioso del XVIII secolo controllò tutte le biblioteche private nel raggio di 80 chilometri da Stratford-on-Avon senza trovare un solo volume che fosse appartenuto a Shakespeare». E i manoscritti dei drammi, aggiunge Principiato, costituiscono un problema ancora maggiore: «Non risulta che sia stato preservato nessuno degli originali. Trentasei drammi furono pubblicati nel primo in-folio del 1623, sette anni dopo la morte di Shakespeare. E’ da ritenere che tutte le opere fossero in mano ai Florio, che non potevano ufficialmente giustificarne la provenienza». Tutto questo, nonostante tenga ancora banco – ufficialmente – la vulgata della nazionalità britannica del grande artista.

L’opinione maggioritaria tra gli studiosi identifica infatti il drammaturgo con il William Shakespeare nato a Stratford-on-Avon nel 1564, trasferitosi a Londra e diventato attore e contitolare della compagnia teatrale chiamata “Lord Chamberlain’s Men”, proprietaria del Globe Theatre a Londra. Quest’uomo divise la propria vita tra Londra e Stratford, dove si ritirò nel 1613 e dove sarebbe poi morto nel 1616. Di lui possediamo la data di battesimo, il 26 aprile 1564. Oltre ad alcuni particolari sui genitori di Shakespeare, gli storici sono inoltre in possesso del certificato di matrimonio di William – datato 27 novembre 1582 – e dei certificati di battesimo dei suoi tre figli. «La visione scettica afferma invece che lo Shakespeare di Stratford fu semplicemente il prestanome di un altro drammaturgo non rivelatosi». Argomenti a sostegno di questa tesi: «Le ambiguità e le informazioni mancanti nella visione tradizionale e l’affermazione che le opere teatrali di Shakespeare richiedevano un livello culturale (compresa la conoscenza per le lingue straniere) maggiore di quello che si suppone Shakespeare avesse». In più, svariati indizi «suggeriscono che l’autore sia deceduto mentre lo Shakespeare di Stratford era ancora in vita: i dubbi sulla sua paternità espressi da suoi contemporanei».

Gli “stratfordiani” sostengono che Shakespeare avrebbe potuto frequentare la The King’s School di Stratford fino all’età di quattordici anni, dove avrebbe studiato i poeti latini e le opere teatrali di autori come Plauto e Ovidio. Ma si tratta di semplici congetture, obietta Principiato, perché «non esistono registri di ammissione o di frequenza che parlino di lui in alcuna scuola secondaria, college o università». Molti “anti-stratfordiani”, poi, si interrogano sul trattino che spesso appare nel nome, spezzandolo in due (“Shake-speare”): secondo loro indica che si tratti di uno pseudonimo. Quel trattino, ad esempio, appare sul frontespizio dei “Sonetti” del 1609. Uno studioso di Oxford come Charlton Ogburn fa notare che, fra le 32 edizioni delle opere di Shakespeare pubblicate prima del “First Folio” del 1623 in cui l’autore veniva menzionato, il nome conteneva il trattino in ben 15 casi, quasi la metà. «Ciò è molto significativo, poiché rafforza la tesi del cognome composto: scrolla = shake, lanza/lancia=speare». Altre stranezze, infine, sulla sua morte: nel 1700 Richard Davies scrisse che morì da cattolico, «frase che forse potrebbe confermare la circostanza che egli fosse in precedenza calvinista, come Michelangelo Florio, per poi convertirsi al cattolicesimo». Ma soprattutto: «Quando muore, il 23 aprile 1616, nessuna commozione né lutto nazionale si registrano in Inghilterra, quasi fosse uno straniero».

 

 

WILLIAM SHAKESPEARE

ERA ITALIANO?

di C. Sangiglio

 

1.

Non è affatto improbabile che sussista, al pari della “questione omerica” anche una “questione shakespeariana”!

Molte biografie sino ad oggi hanno visto la luce, moltissimi articoli e saggi sono stati pubblicati, diverse teorie sono state elaborate in relazione all’identità di questo poeta e drammaturgo, autore di 36 capolavori del teatro, un vero e proprio emblema e vanto della letteratura inglese.

Finalmente, però, Shakespeare, chi era costui?, come direbbe qualcuno che conosciamo.

Dopo tutto, i soli elementi noti che possediamo e riguardano un William Shakespeare, tranne che fosse il figlio di John Shakespeare e di Mary Arden, di religione cattolica, sono:

a) la data di battesimo, il 26 aprile 1564, di un “Gulielmus Johannes Shakespeare [NB. Non esiste una data di nascita, sì che, come ci risulta, a posteriori è stata “fissata” come data di nascita il 23 aprile 1564 senza che nessuno sappia chi ne è l’ispiratore o l’autore e perchè proprio il 23.4.: forse per analogia (!) con la data della sua morte – 23.4.1616 – o forse perchè il 23 aprile è la festa di San Giorgio, patrono dell’Inghilterra(!)];

b) la data del matrimonio, il 27 novembre 1582, “inter William Shaxpere et Hannam Whateley de Temple Grafton”, anche qui con la solita imprecisione in merito al nome, visto che in realtà il nome della moglie di W.S. era Anne Hathaway;

c) questo risulta appunto il nome e cognome di quest’ultima quando decedette il 6 agosto 1623: quindi in contrasto con quello del matrimonio!;

d) la data di battesimo, il 26 maggio 1583, di Susan, prima figlia di W.S.;

e) la data di battesimo, il 2 febbraio 1585, dei gemelli “Hamnet and Judeth, son and daugther to W.S.”;

f) infine, un documento del 1589 (ignoro di quale valore giuridico o/e amministrativo) nel quale William appare come erede di John e Mary Shakespeare ed alcuni altri documenti miscellanei privi di qualche valore indicativo e chiarificante.

Come è evidente, dunque, si tratta di elementi che non rivelano, non dichiarano e non spiegano assolutamente nulla su chi in effetti fosse e non fosse W.S., quale insomma la sua presenza sulla terra.

E poi esiste un dato di fatto che a me pare assai interessante, per quanto in prosieguo verrà esposto: gli stessi inglesi dicono, ammettono, che la madre di W.S. fosse cattolica.

Ma una cattolica (da sola? con una famiglia?: nessuna sa nulla) come era capitata in una così ristretta società protestante come quella che doveva esservi a Stratford nella prima metà del 1500?! In un paese dove i pochi o numerosi cittadini di altre nazionalità erano anch’essi protestanti rifugiàtisi lì per salvarsi dalla cattolica Inquisizione, una donna cattolica doveva essere come la mosca in un bicchiere di latte! Già però questo elemento della “cattolicità” della madre non appare alquanto sospetto?

Certo, con simili dati e solo con simili “tangibili” dati nessuno può e ha il diritto di asserire che si tratti di William Shakespeare, il grande trageda del XVI secolo in Europa. D’altronde anche le biografie dell'”inglese” W.S. non offrono nulla o quasi nulla di sostanziale e assolutamente accertato e accertabile per ciò che concerne chi esattamente fosse questo scrittore che “dicono” essere nato il 23.4.1564 a Stratford-upon-Avon, dove abbia vissuto, dove e se abbia studiato e cosa abbia studiato, quali siano state le, sia pure pochissime, condizioni e situazioni di vita che abbiano segnato la sua opera e le sue impareggiabili cognizioni.

La sua biografia “inglese”, tranne le molte “avventurose” circostanze, totalmente indimostrabili, episodi abbelliti o drammatizzati senza prova alcuna e congegnati solo per creare impressioni e ammirazione, viene a dirci in sostanza: “Tutto quello che conosciamo di William Shakespeare è che è nato nell’aprile 1564 a Stratford-upon-Avon, cittadina del Warwickshire, a nord-ovest di Londra, lì si è sposato all’età di 18 anni, nel novembre 1582, con Anne Hathaway, ha avuto tre figli, Susan e i gemelli Hamnet e Judhit, è andato a Londra dove ha lavorato come attore, ha scritto opere poetiche e teatrali, è tornato a Stratford, ha redatto il proprio testamento, è morto nel 1616 all’età di 52 anni e lì è stato seppellito” – tutto ciò infiorettato con molti elementi soi-disant “biografici” e varie “imbottiture” che però nessuno è in grado di verificare e identificare, creando di conseguenza una cornice entro la quale la figura del Bardo permane sommamente fluida e inafferrabile.

Ove si voglia però essere più chiari, allora occorre dire che in questa già di per sè “ombra di biografia” è come se dal 1564 al 1582 non abbia vissuto nessun Shakespeare! Egli compare poi nel 1582 quando (dicono) si sposa ed “esiste” fino al 1585, ovvero negli anni (dicono) di battesimo (non di nascita!) dei suoi (dicono) tre figli. Di seguito, nuovamente non esiste nessun Shakespeare dal 1585 al 1592, quando ricompare ormai famoso attore e scrittore teatrale! A conti fatti, quindi, nessun W.S. esiste proprio negli anni della più importante formazione scolastica e nei primi anni formativi della creazione letteraria! Molto strano, per essere una semplice coincidenza.

A questo punto non dimentichiamo il particolare di un Michelangelo Florio Crollalanza venuto a stabilirsi in Inghilterra nel 1588 e poco dopo divenuto William Shakespeare, come vedremo più sotto.

Pertanto, non conosciamo quasi nulla per molti anni della sua (dicono) esistenza e parimenti nulla sussiste che colleghi la sua vita e in particolare la sua opera con il suo luogo natale, questo Stratford che, in quei tempi, non doveva essere null’altro che un insignificante borgo della campagna inglese. Questa inesistenza di rapporti non sembra quindi assai insolita, per non dire incomprensibile? E ciò perchè nella storia dell’arte e delle lettere non esiste autore che, in un modo e nell’altro, poco o molto, non abbia collegato la propria opera, o parte di essa, al luogo di nascita, e non ne abbia parlato, in bene o in male, o semplicemente se ne sia riferito sia pure a mo’ di citazione. Presso Shakespeare invece una simile “connessione” è provatamente irriscontrabile! E la cosa più seria è che non esiste nè è stata trovata alcuna logica spiegazione di tale “originalità”!

Un riferimento indiretto, anch’esso negativo, a William Shakespeare scopriamo nel 1592 in un pamphlet di Robert Greene, importante prosatore dell’età elisabettiana, suo avversario o rivale, dal titolo A Groath’s Worth of Wit bought with a Million repentance (Una monetina di spirito comprata con un milione di pentimento), noto anche come A Groathworth of With, nel quale Greene con pesanti espressioni accusa Shakespeare di arrivismo: “Non sembra strano che voi ed io, ai quali finora tutti si sono inchinati, all’improvviso dobbiamo vederci così abbandonati? Un villano corvo, fàttosi bello con le nostre penne, con il suo cuore di tigre rivestito con la pelle di un attore, crede di essere capace di dar voce a versi sciolti come fosse il migliore di voi e nulla di più essendo che un Johannes factotum crede di essere l’unico scuoti-scena (“Shake-scene”) di tutto il paese”, dove chiaramente è indicato Shakespeare (= Shake-scene) anche per la citazione di un verso (“Cuor di tigre”) dall’Enrico VI.

2.

Accostiamoci adesso ad un’altra versione sul tema della reale esistenza del nominato William Shakespeare, anche in relazione alla sua opera.

Sin dal 1927 il giornalista Santo Paladino, a Roma, in un suo articolo al giornale L’Impero il 4 febbraio dal titolo “Il grande poeta tragico Shakespeare era forse italiano” scrive che Shakespeare era Michelangelo o Michel Agnolo Florio, figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza, quello stesso Michelangelo Florio Crollalanza, di fede calvinista, un libro del quale, dal titolo I secondi frutti, scritto verso la fine del XVI secolo, apparve in Italia, contenente proverbi della Sicilia e specialmente di Messina, molti dei quali si sono trovati più tardi nell’Amleto di Shakespeare!

La teoria dell'”italianità” di Shakespeare ritornò sulla scena il 1950 ad opera di Enrico Besta, professore di Storia del Diritto Italiano alle Università di Palermo, senza tuttavia alcun interessante seguito o esito, come pure avvenne con le proposte negli stessi anni ’50 di Carlo Villa e, alcuni anni prima, di Paolo Viganò e Luigi Bellotti, che esprimevano, in maniera un po’ paradossale, è vero, logiche perplessità sulla nazionalità di Shakespeare e assicurazioni sulla realtà del nome italiano.

Negli stessi anni ’50, esattamente nel 1955, il medesimo Paladino nel libro Un italiano autore delle opere shakespeariane confermò l’idea di un Michelangelo Florio autore delle opere attribuite a William Shakespeare, precisando che tali opere scritte in italiano, erano tradotte in inglese in collaborazione con l’attore William Shakespeare, il quale diventò così quasi prestanome o coautore.

L’8 aprile 2000 nei The Times di Londra fu pubblicato un articolo di Eichard Owen il quale, in rapporto agli studi di un college inglese e del professore italiano Martino Iuvara, riferisce che William Shakespeare deve essere nato a Messina in Sicilia, città che fu costretto ad abbandonare poi per stabilirsi in Inghilterra fuggendo alle ricerche della Sacra Inquisizione (in quell’epoca – 1530/1600 – la Sicilia si trovava sotto occupazione spagnola) che minacciava la vita dei suoi genitori, convinti calvinisti. A Stratford-upon-Avon, dove si fermò, cambiò il proprio cognome da (Michelangerlo Florio) Crollalanza nell’ inglese Shakespeare,1 mentre il nome lo derivò dal nome di un suo cugino (figlio di un fratello di sua madre da tempo stabilitosi in Inghilterra) morto prematuramente e chiamato William.

Una seconda versione considera che il nome di William altro non è che la esatta traduzione inglese del nome della madre, appunto Guglielma. È comunque così che è “nato” William Shakespeare.

L’articolo del The Times continua: “Il segreto del come e perchè William Shakespeare conoscesse così bene l’Italia e “abbia messo” tanta Italia nelle sue opere lo ha risolto un accademico siciliano: il fatto è che W.S. non è per nulla Inglese, ma Italiano. Le biografie del Bardo convengono sul fatto che sussistono moltissimi vuoti (voragini) relativamente alla sua esistenza(…) Il professor Martino Iuvara sostiene che Shakespeare era Siciliano, nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza, si rifugiò a Londra a causa della Sacra Inquisizione essendo di fede calvinista e lì tramutò il proprio nome nel perfetto corrispondente inglese”.

Peraltro, l’interpretazione di Iuvara esprime una versione assolutamente obbiettiva, di sicuro molto più circostanziata e del tutto differente da quella, non poco romanzesca, delle versioni britanniche. La Sacra Inquisizione si trovava sulle tracce del medico Giovanni Florio e di sua moglie Guglielmina Crollalanza, figlia di una famiglia nobile di Messina, entrambi calvinisti, ossia “eretici” nell’intendimento delle inquirenti autorità ecclesiastiche spagnole. Così, insieme col figlio Michelangelo o Michel Agnolo abbandonarono Messina e si stabilirono a Treviso, non lontano da Venezia, dove acquistarono (o affittarono) la Casa Otello, costruita da un nobile veneziano di nome Otello, sul conto del quale circolavano voci secondo cui egli, accecato dalla gelosia, aveva ucciso la propria consorte.

The Times: “Michelangelo studiò a Venezia, a Padova e a Mantova e viaggiò in Danimarca, Grecia, Spagna e Austria. Era amico del filosofo e monaco Giordano Bruno che nel 1600, condannato quale eretico dalla Sacra Inquisizione, morì a Roma sul rogo. G. Bruno disponeva di cospicui collegamenti con l’Inghilterra, come William Herbert, conte di Pembroke, e il conte di Southampton. Il 1588, all’età di 24 anni, Michelangelo trova rifugio in Inghilterra dopo che sicari Spagnoli avevano assassinato i suoi genitori”. In Inghilterra Michelangelo gode della protezione dei due nobili, e addirittura più tardi dedicherà al conte di Southampton due opere poetiche, Venus and Adonis e The Rape of Lucrece. Risiede nell’abitazione di un parente della madre Crollalanza il quale già da tempo aveva mutato il proprio cognome in Shakespeare. Un figlio di costui, di nome William, era morto ancora neonato.

Questa è la “versione Iuvara”. Nondimeno, non è l’unica, giacché nella stessa Inghilterra e nel medesimo anno gli studenti del Port Arthur Collegiate Institute non hanno nessuna difficoltà a discutere e in certo modo indirettamente avallare l’esistenza di un’idea che molto dista dalle ufficiali convinzioni e concezioni inglesi e che introduce un’interpretazione la quale totalmente annulla la maggiore “istituzione letteraria” inglese nella persona di William Shakespeare, forse perché la versione Iuvara, in connessione con la sostanziale inesistenza di “sostegni” inglesi assolutamente probanti, appare obbedire ad una logica assai convincente e verosimile, più prossima a verità.

Con il titolo: “Shakespeare was Italian? – To be believed or not?” il testo degli studenti si esprime come segue, in gran parte riflettendo la teoria Iuvara forse perché considera che la stessa non sia da rigettare:

“This question was asked of as students at Port Arthur Collegiate Institute as part of our English lessons.

Is Shakespeare, as a displanted Italian supposed to explain the many Italian plays, characters with Italian names, and references?

It has been suggested that he was actually born in Messina, Sicily, not too far from Simbario, Catanzaro, as Michelangelo Florio Crollalanza. His parents were not John Shakespeare and Mary Arden, but were Giovanni Florio, a doctor, and Guglielma Crollalanza, a Sicilian noble woman.

Does this perhaps begin to explain that many of the plays feature Italy and/or Italian names, such as:

Questa domanda è stata posta agli studenti del Port Arthur Collegiate Institute come parte delle nostre lezioni di inglese. Shakespeare, in quanto italiano dispiantato, dovrebbe spiegare le molte commedie italiane, personaggi con nomi e riferimenti italiani? È stato suggerito che fosse in realtà nato a Messina, in Sicilia, non troppo lontano da Simbario, Catanzaro, come Michelangelo Florio Crollalanza.I suoi genitori non erano John Shakespeare e Mary Arden, ma erano Giovanni Florio, medico, e Guglielma Crollalanza, nobildonna siciliana. Certo, questo comincia a spiegare che molte delle commedie presentano l’Italia e/o nomi italiani, come:

Romeo and Juliet (Romeo e Giulietta)

Othello (Otello)

Two Gentlemen of Verona (Due Signori di Verona)

A Midsummer Night’s Dream (Sogno di una notte di mezz’estate)

The Merchant of Venice (Il Mercante di Venezia)

Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla)

The Taming of the Shrew (La bisbetica domata)

All’s Well that Ends Well (Tutto è bene ciò che finisce bene)

Measure for Measure (Misura per misura)

Julius Caesar (Giulio Cesare)

The Winter’s Tale (Racconto d’Inverno)

The Tempest (La tempesta)

It is rather impressive that Italy and Italian names are so widespread in Shakespeare. It makes you wonder?
(È puittosto impressionante che l’Italia e i nomi italiani siano così diffusi in Shakespeare. Vi meraviglia?)

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A professor in Italy claims that Shakespeare was Italian from Messina Italy.

The Times of London, April 8th, 2000, reported that Martino Iuvara, a retired literature teacher, believes Shakespeare was actually Michelangelo Florio Crollalanza, who escaped to England during the Inquisition.

Shakespeare is supposedly the literal translation of Crollalanza.

Some details of Crollalanza’s life are eerily close to the characters and places that occupy Shakespeare’s plays and might explain the predominance of Italian names and places in many of Shakespeare’s plays.

Un professore in Italia afferma che Shakespeare era italiano di Messina, Italia. Il Times di Londra, l’8 aprile 2000, riferì che Martino Iuvara, un insegnante di lettere in pensione, crede che Shakespeare fosse in realtà Michelangelo Florio Crollalanza, fuggito in Inghilterra durante l’Inquisizione. Shakespeare è presumibilmente la traduzione letterale di Crollalanza. Alcuni dettagli della vita di Crollalanza sono stranamente vicini ai personaggi e ai luoghi che occupano le opere di Shakespeare e potrebbero spiegare la predominanza di nomi e luoghi italiani in molte delle opere di Shakespeare.

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In another write up the author, Amanda Mabillard writes the following:

“Retired Sicilian professor Martino Iuvara claims that Shakespeare was, in fact, not English at all, but Italian. His conclusion is drawn from research carried out from 1925 to 1950 by two professors at Palermo University. Iuvara imposits that Shakespeare was born in Stratford in April 1564, as is commonly believed, but actually was born in Messina as Michelangelo Florio Crollalanza. His parents were not John Shakespeare and Mary Arden, but Giovanni Florio, a doctor, and Guglielma Crollalanza, a Sicilian noblewoman. The family supposedly fled Italy during the Holy Inquisition and moved to London. It was in London that Michelangelo Florio Crollalanza decided to change his name to its English equivalent. Crollalanza apparently translates literally as “Shakespeare”. Iuvara goes on to claim that Shakespeare studied abroad and was educated by Franciscan monks who taugt him Latin. Greek and History. He also claims that while Shakespeare (or young Crollalanza) was traveling through Europe he fell in love with a 16-year-old girl named Giulietta. But sadly, family members opposed the union, and Giulietta committed suicide…”

She goes on to write, “Granted, the above similarities between Michelangelo Florio Crollalanza and Shakespeare are intriguing, but for now I remain unconvinced”.

The question was posed to us as student at Port Arthur Collegiate Institute as part of our English exam questions, and it appears the internet will hopefully bring to light some of the details surrounding the origins of these plays.”

In un altro scritto dell’autrice, Amanda Mabillard scrive quanto segue: “Il professore siciliano in pensione Martino Iuvara afferma che Shakespeare, in realtà, non era affatto inglese, ma italiano. La sua conclusione è tratta da una ricerca condotta dal 1925 al 1950 da due professori all’Università di Palermo. Iuvara ipotizza che Shakespeare sia nato a Stratford nell’aprile del 1564, come si crede comunemente, ma in realtà sia nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza. I suoi genitori non erano John Shakespeare e Mary Arden, ma Giovanni Florio, medico, e Guglielma Crollalanza, una nobildonna siciliana. La famiglia sarebbe fuggita dall’Italia durante la Santa Inquisizione e si sarebbe trasferita a Londra. Fu a Londra che Michelangelo Florio Crollalanza decise di cambiare il suo nome con l’equivalente inglese. Crollalanza si traduce letteralmente come “Shakespeare”. Iuvara continua ad affermare che Shakespeare ha studiato all’estero ed è stato educato da monaci francescani che gli hanno insegnato il latino, il greco e la storia; afferma inoltre che mentre Shakespeare (o giovane Crollalanza) viaggiava per l’Europa si innamorò di una ragazza di 16 anni di nome Giulietta. Ma purtroppo i membri della famiglia si sono opposti all’unione e Giulietta si è suicidata…” Continua scrivendo: “Certo, le somiglianze di cui sopra tra Michelangelo Florio Crollalanza e Shakespeare sono intriganti, ma per ora rimango poco convinta”.
La domanda è stata posta a noi come studenti al Port Arthur Collegiate Institute come parte delle nostre domande d’esame di inglese, e sembra che Internet possa portare alla luce alcuni dei dettagli che circondano le origini di queste commedie”.

D’ altra parte il prof. Iuvara completa il proprio pensiero con molti altri elementi conoscitivi che danno impulso a logici nessi e riscontri di una corretta riflessione. Così egli si chiede: come può il figlio di un guantaio, come la storia vuol farci credere, disporre di quelle amplissime cognizioni della letteratura classica che Shakespeare dimostrò di possedere? Come avrebbe potuto un poeta inglese di quell’epoca descrivere così fedelmente luoghi, paesaggi e persone italiane come in effetti riscontriamo, nè più nè meno, in ben 15 delle 36 opere dell’immenso Shakespeare? E perché la sua biblioteca personale non è mai stata posta a disposizione dei suoi biografi e degli studiosi?

Esistono documenti che dimostrano che Michelangelo Crollalanza era figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza ed è nato a Messina nel 1564. Ha imparato il latino, il greco antico e storia nella scuola dei Francescani. All’età di 15 anni fu costretto a partire insieme alla famiglia per andare nel Veneto, nell’Italia del nord, a causa della fede calvinista dei suoi genitori, che la Sacra Inquisizione aveva condannato al rogo perché suo padre aveva pubblicato delle accuse alla Chiesa Cattolica. Conobbe e s’innamorò di una giovane di nome Giulietta, rapita dal Governatore e poi morta suicida. Quanto alla lingua, le sue prime opere, dopo che si era stabilito in Inghilterra, venivano tradotte in inglese prima di essere presentate sulla scena del teatro di legno “The Globe” (N.d.R. : a quel tempo le compagnie teatrali viaggiavano su un carro di legno che fungeva anche da scena). Successivamente, era sua moglie inglese che si occupava delle traduzioni, mentre i suoi stessi biografi dell’epoca riscontravano in Shakespeare una pronuncia chiaramente straniera.

E il prof. Iuvara conclude: “Credo che nessuno mai in Inghilterra ha avuto il coraggio di rendere pubblica la biblioteca personale di Shakespeare. In essa potremmo conoscere la sua vera identità. Certo, capisco la reazione degli Inglesi. È come se all’improvviso qualcuno dicesse a noi, ad esempio, che Dante era in realtà spagnolo!”

La teoria del professor Iuvara fu pubblicata in Italia in volume col titolo “Shakespeare era italiano”.

A queste riflessioni che invero non sembrano essere affatto peregrine, tra il XIX e il XX secolo diverse ipotesi furono avanzate circa una identità di persona tra William Shakespeare e John o Giovanni Florio. Così, a seguito di tali esegesi sembrerebbe essersi generata una combinazione o promiscuità tra Michelangelo Florio e Giovanni Florio, nella quale ovviamente si confonde anche l’elemento temporale trattandosi di due personaggi, comunque vengano collocati, vissuti in archi di tempo chiaramente diversi.

Entro queste linee direttive, in ogni modo, verso la fine del 1800 Thomas Spencer Baynes, curatore della IX edizione della Enciclopedia Britannica evidenziò in maniera esauriente i rapporti intercorsi tra un Shakespeare e un Giovanni Florio, linguista di origine italiana.

Il testo di Baynes – val la pena di rilevare – fu del tutto eliminato a partire dalla XI edizione dell’Enciclopedia! Strano?

A parte tutto, comunque, la presenza in Inghilterra di John Florio è documentata dalle ricerche di John Harding sulle relazioni Florio-Shakespeare. A proposito, questo studioso affermava (e ne danno conferma la figlia Julie Harding e il prosatore Saul Gerevini, autore del saggio William Shakespeare, ovvero John Florio: un fiorentino alla conquista del mondo) che intorno al 1584 Florio firmava con lo pseudonimo “John Soowthern”, ossia “Giovanni che viene dal sud”, piuttosto dal sud dell’Italia!

Più tardi (1921) la statunitense Clara Longworth de Chambrum e la britannica Frances Yates (1934) si soffermarono su questa ipotizzata ma mai chiarita “coesistenza” e perfino “identità” tra un Shakespeare inglese e un Florio italiano.

L’interconnessione tra Michelangelo e Giovanni Florio viene “rivisitata” nel 2010 dal docente presso l’Università di Montreal, Lamberto Tassinari: “Semplicemente fanno finta di non vedere che John Florio è l’autore delle opere di Shakespeare! Florio ha dato a Shakespeare così numerose parole, idee e conoscenze che debitore e creditore sono diventati uno” (intervista di L. Tassinari in www.bibliosofia.net/MichaelMirolla_interviewInteressante è anche www.shakespeareandflorio.net

Lo stesso Tassinari comunque due anni prima (2008) aveva provveduto a rendere note nel migliore dei modi le sue ricerche pubblicando il libro Shakespeare? È il nome d’arte di John Florio. Vale la pena, credo, riportare alcune considerazioni espresse nel predetto volume: ” Il ‘William Shakespeare’, gestore di una compagnia teatrale e uomo d’affari poco scrupoloso, dedito persino all’usura, nato in una famiglia di semianalfabeti e a sua volta genitore di figli incolti, vissuto in un ambiente ineducato e grezzo, e autore, questa volta accertato, di un testamento sgrammaticato, sarebbe, secondo gli scettici, un puro prestanome dietro il quale si celerebbe qualcuno dalla mente superiore e dalle esperienze culturali e di vita ben altrimenti più ricche”.

3.

Un altro scrittore e studioso italiano, Oreste Palomara, proseguendo sul cammino di Martino Iuvara, formula altri elementi che integrano il puzzle della presenza del drammaturgo “italo-inglese”. Palomara esamina le posteriori costruzioni biografiche e apprende che egli era il terzo di otto figli di John Shakespeare. William Shakespeare però dappertutto in Inghilterra compare già adulto, affermato poeta e scrittore drammatico, anche se egli stesso cerca, piuttosto ingiustificatamente a ben pensarci, di accentuare un alone di mistero intorno a sé, come se volesse nascondersi dietro di esso.

Un simile comportamento veniva forse tenuto per non farsi molto probabilmente individuare dai suoi persecutori i quali, già alcuni anni prima, avevano eliminato suo padre Giovanni Florio e sua madre Guglielma Crollalanza in Italia e stavano cercando anche lui? A parte il fatto poi che non esiste da nessuna parte nessun ricordo o traccia degli altri (ben) sette fratelli: come se non fossero mai esistiti!

Il mistero diventa più denso con la presenza di alcuni altri particolari che non sembrano essere tanto insignificanti, e cioè:

a) nei registri della scuola secondaria a Stratford non esiste nessuno con il nome di Shakespeare;

b) nel 1603 il nome di Shakespeare sparisce dai registri degli attori, forse per far perdere qualsiasi traccia che potrebbe aiutare i suoi persecutori della Sacra Inquisizione;

c) sappiamo che William Shakespeare frequentava a Londra un Club In. In questo Club In non risulta nessun membro con questo nome. Esiste però scritto il nome di Michelangelo Florio.

Ora, indipendentemente da tutti gli elementi sin qui esaminati, elementi che dimostrano situazioni personali ed obbiettivi criteri di conoscenza che nessuno può disconoscere o rifiutare acriticamente, esistono altresì altri dati il riconoscimento dei quali non deve considerarsi per nulla né irrilevante né superfluo.

I drammi di Shakespeare rivelano una eccezionale esperienza mondana. Il poeta conosceva molto bene la scienza giuridica e abbondantemente ha utilizzato termini legali e le corrispondenti procedure espressive. Peraltro, nel 1860 John Bucknill scrisse che Shakespeare conosceva a fondo la scienza medica (“Medical knowledge of Shakespeare”). Parimenti egli era in possesso di estese cognizioni venatorie, di addestramento degli avvoltoi, come pure di altri sport, ma anche delle regole del cerimoniale di Corte.

Lo storico John Mitchell riconosce che Shakespeare è “lo scrittore che sapeva tutto”! Nelle sue opere, in cinque casi, parla di naufragi e il fatto che utilizzi una ben precisa terminologia nautica presuppone che abbia studiato l’arte marinara o sia stato egli stesso un esperto marinaio. Ha fors’anche partecipato alla battaglia navale nella quale fu distrutta l’ Invincible Armada spagnola nel 1588?

Tutto ciò non compare nella vita del drammaturgo attraverso le biografie. Lo stesso accade anche con le sue cospicue conoscenze nelle questioni militari e nell’idioma linguistico dei fantaccini. Gli elementi biografici inglesi che disponiamo non rivelano l’esistenza di ampie e speciali cognizioni in questo Shakespeare “inglese”, peraltro già di ignote disposizioni e successi scolastici.

Certo, nelle opere di Shakespeare non mancano altresì i riferimenti a passi biblici aventi un notevole peso specifico nei relativi racconti e trame: l'”italiano” Crollalanza-Shakespeare è molto probabile che ne abbia avuto l’insegnamento da parte della madre, istruita, nel quadro della sua fede calvinista. Al contrario, nessuna prova esiste, né mai è stata avanzata l’ipotesi che sua madre “inglese” fosse istruita e abbia potuto insegnare alcunché ai propri figli.

Quanto poi al padre “inglese” di Shakespeare, John era un guantaio, come più sopra ricordato, forse pure macellaio e cuoiaio, ovvero un cittadino onesto e rispettabile quanto si voglia, ma ignorante (analfabeta?). Il padre “italiano”, Giovanni Florio (anche lui John/Giovanni!), era invece un noto medico a Messina, mentre la madre discendeva da una nobile famiglia siciliana e di certo era istruita, come allora e sempre sono soliti essere le nobili casate.

Collegando quindi i predetti elementi, si pone la questione dell’istruzione e della cultura di Shakespeare. Viene naturale pensare che nel caso del Shakespeare “inglese”, considerata la generale istruzione (o, forse, non-istruzione?) familiare e le obbiettive condizioni e situazioni di vita sociale in un villaggio come Stratford nella prima metà del 1500, le probabilità di una importante istruzione sono quasi nulle, come d’altronde se ne ha la conferma vista la parallela relativa inesistenza anche nelle esposizioni biografiche.

Al contrario, nel caso dell'”italiano” Crollalanza e tenuto conto della cultura dei suoi genitori e dell’elevato livello familiare oltre che degli studi compiuti dal giovane Michelangelo in Italia, le grandi, incredibili cognizioni manifestate dal successivo William Shakespeare, un nome che è l’esatta traduzione letterale del corrispondente italiano, appaiono assolutamente giustificate e certificate.

In tal modo quando Michel Agnolo-Michelangelo Florio Crollalanza divenne William Shakespeare in Inghilterra si riferiva a qualcuno che già in Italia non era semplicemente istruito, ma totalmente in possesso di un’istruzione enciclopedica con profonde radici nella cultura, storia, tradizioni, realtà italiane per non dire specialmente della natìa Messina in Sicilia, come palesemente testimoniano almeno due “circostanze” connesse con l’opera dello stesso Shakespeare, ossia:

a) la commedia Molto rumore per nulla (Much Ado about Nothing) altro non è se non l’adattamento posteriore della commedia che Michelangelo Florio Crollalanza aveva scritto circa vent’anni prima, in giovanissima età, in dialetto messinese e col titolo Troppo trafficu ppi nnenti;

b) nella stessa commedia Shakespeare utilizza molti doppi sensi ed espressioni caratteristiche che solo a Messina avrebbero potuto essere udite. In questo contesto, una tipica espressione è anche la parola “mizzica”, che solo un siciliano potrebbe conoscere e dire!

c) Messina è presente anche nel Racconto d’inverno. E certo, parlando di Messina verso la metà del Cinquecento, non si fa altro che ricordare una città in quell’epoca più grande di Londra, una delle capitali del Rinascimento con un fiorente commercio e costruzioni in muratura (e non in legno), acquedotto sotterraneo, Università fondata da S. Ignazio di Loyola e una flotta di navi commerciali e “da corsa”.

D’altro canto, e più particolarmente, nell’atto terzo, scena seconda, Don Pedro dice una frase che per gli Inglesi è un rebus: “The shell be buried with her face upwords”, ossia: “Dovrebbero seppellirla con la faccia in su”. Che strano! Tutti vengono seppelliti così. Sì, però a Messina con l’espressione “ca nasca addrittu” (col naso in su) intendono indicare una persona arrogante, superba, o anche semplicemente fiera. E nel caso specifico significa appunto che Beatrice era rimasta fiera/superba anche dopo morta!

Ancora, nell’atto terzo, scena terza, si trova la frase “…next morning at the temple, and there, before the wole congregation shame her…”, cioè “domani mattina nel tempio, e lì, davanti all’intera congregazione religiosa la svergognerai…”. Qui, il particolare sta nel fatto che non di una chiesa si tratta, ma di un antico tempio greco ceduto alla Congregazione dei Sacerdoti Catechisti. Un inglese che nel XVI secolo abitava in un paese lontano 3000 chilometri come avrebbe potuto conoscere una tanto “locale” particolarità? Piuttosto improbabile.

Infine, nell’atto quarto, scena prima, Beatrice utilizza una tipica espressione del dialetto parlato a Messina: “ti manciu ‘u cori”(ti mangerò il cuore), “tradotta” in inglese in “I will eat you heart”. Ma nella comune parlata inglese ha forse un senso?

Tutto questo ed altro ancora sparso nell’opera di Shakespeare, e poi una così profonda conoscenza della scena, della lingua, dell’arte teatrale italiana, come pure la sorprendente familiarità con paesaggi e città italiane, costituisce sicuramente il più logico e maggior segno distintivo più di uno scrittore italiano che inglese!

4.

Il drammaturgo Ben(jamin) Jonson, amico di William, gli addebitava “una insufficiente conoscenza della lingua latina e ancor più di quella greca”, volendo piuttosto descrivere la sua elementare istruzione, d’altronde confermata anche dagli inesistenti dati personali e scolastici presso gli istituti di istruzione primaria e secondaria di Stratford, di Londra e altrove in Inghilterra (eventualmente), mentre è assodato che Shakespeare non ha studiato né a Cambridge né a Oxford né in altra Università inglese o straniera.

Un parere come quello di Ben Jonson non si accorda certamente con la onniscienza di uno scrittore che conosceva alla perfezione i classici Latini e Greci, la letteratura e, con molta probabilità, anche le lingue italiana, francese e spagnola.

Sappiamo che il giovane Michelangelo Florio Crollalanza aveva dimostrato sin da ragazzo speciali capacità nelle lettere (l’opera Molto rumore per nulla sembra che l’abbia scritta a 15 anni, poco prima di abbandonare Messina), ciò che in nessun modo risulta ad un ragazzo inglese chiamato William Shakespeare, del quale sono “ignoti” proprio gli anni della carriera scolastica! Il suo vocabolario era sorprendentemente ricco. Quando un poeta come John Milton, nel XVIII secolo, utilizza circa 8000 parole nelle sue opere, cosa dire di Shakespeare che, come consta, ha utilizzato circa 24000 parole(e per altri, addirittura 29000)! E non deve sfuggire il fatto che Shakespeare ha altresì “inventato” moltissime parole ed espressioni arricchendo così la lingua inglese.

Non so se colui che è riuscito a produrre tante “invenzioni verbali” è l'”inglese” Shakespeare di cui nessun accenno sussiste nei registri delle scuole che “dicono” aver frequentato oppure l'”italiano” Michelangelo Crollalanza/Shaskespeare i cui studi risultano in accertati dati di istruzione e testimonianze.

5.

A questo punto non sarebbe oziosa una integrazione argomentativa in base alla quale si suppone o si dimostra l’origine messinese di Shakespeare o, comunque, italiana.

I dati comprovanti sono i seguenti:

A. Nell’ Amleto compaiono i due studenti danesi, Rosenkrantz e Guildenstein, che furono compagni di studio di Michelangelo Florio Crollalanza all’Università di Padova;

B. Sempre nell’Amleto vengono recitati molti proverbi che anni prima Michelangelo Florio aveva pubblicato in Italia in un libro dal titolo I secondi frutti;

C. Nel Mercante di Venezia il “colore” locale viene riprodotto in maniera stupefacente: perfette espressioni marinare si trovano in bocca a Salerio e Salanio – viene fatto riferimento al battello che collega Venezia alla terraferma – compare l’esatta traduzione in inglese, Belmont, del sobborgo veneziano di Montebello;

D. Nel Romeo e Giulietta Shakespeare realizza una poetica rappresentazione della propria storia d’amore vissuta in gioventù in Italia;

E. Ancora nel Mercante di Venezia la conoscenza della legislazione veneziana è perfetta, una legislazione del tutto diversa da quella allora vigente in Inghilterra – il maestro Bellario del testo teatrale corrisponde assolutamente ad un personaggio davvero esistente e molto noto negli ambienti giuridici di Padova, il professor Ottonello Discalzio;

F. In molte opere, teatrali e poetiche, si riscontrano fonti chiaramente italiane (Boccaccio, Ariosto, Bandello, Castiglione, Giraldi Cinzio), come pure reminiscenze della Commedia dell’Arte;

G. Shakespeare possedeva ugualmente una buona conoscenza della storia romana e sapeva che Pompeo una volta (nel 36 a.C.) era rimasto a Messina. Così, nell’opera Antonio e Cleopatra si riferisce alla casa di Pompeo a Messina ed è esattamente in questa casa che si svolge la trama del secondo atto, scena prima: “Messina. nella casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Mena in assetto di guerra”;

H. Non mancano altresì rifacimenti di idee di Plauto, Seneca e Plutarco;

I. È evidente l’ispirazione italiana nelle opere Much Ado about NothingTwelfth Night e All’s Well That Ends Well. D’ altra parte Shakespeare è l’unico scrittore inglese che conosca alla perfezione tante cose dell’Italia malgrado che non esista da nessuna parte nessun indizio secondo cui egli si sia recato e sopra tutto vi abbia vissuto, poco o a lungo, imparando tutto quello che sapeva;

L. In merito alla morte di Shakespeare, Richard Davis nel 1700 ebbe a scrivere: “He died a papist”, cioè “è morto da cattolico”. È una frase assai rivelatrice, nel senso che, mentre egli era calvinista (e Michelangelo Florio Crollalanza era calvinista), prima di morire divenne e morì cattolico, un cambio di fede religiosa piuttosto molto più difficile che accadesse, per evidenti motivi di vario genere, presso un inglese che non un italiano;

M. “I biografi suppongono che Shakespeare abbia accumulato le sue enormi conoscenze e la sua accurata familiarità con le maniere, il gergo e gli usi della professione forense dopo essere stato egli stesso per un breve periodo impiegato al tribunale di Stratford. Adesso, a parte il fatto che una simile ipotesi inciampa nella assoluta inesistenza di corrispondenti elementi nei registri giudiziari della cittadina, appare anche inammissibilmente molto ingenua, giacché è come se si dicesse che un giovanotto sveglio come me, cresciuto in un villaggetto sulle sponde del Mississippi, avrebbe potuto sviluppare una perfetta conoscenza della caccia alla balena nello stretto di Behring oppure imparare gli idiomatismi espressivi dei vecchi pescatori semplicemente pescando pesci-gatto qualche domenica(…).” (Mark Twain in Is Shakespeare really dead?, 1909″);

N. D’altra parte, se ve ne fosse bisogno, il predetto storico John Mitchell citando appunto l’espressione usata da Mark Twain nel suo libro del 1909, dice, volendo con ciò molto intendere: “I dati che sono noti sulla vita di Shakespeare possono riempire una sola facciata di un foglietto per appunti”

O. Quando Shakespeare morì il 23 aprile 1616, la sua morte non provocò nessuna commozione, né fu ordinato alcun lutto nazionale o locale in Inghilterra, come logicamente ci saremmo aspettati che accadesse per un letterato inglese tanto grande e illustre. L’avvenimento passò come se il drammaturgo fosse uno straniero!;

P. La scuola o le scuole dove l'”inglese” Shakespeare dicono che abbia studiato, costituiscono oggetto di semplici indizi. Non esiste nessuna certezza e prova al riguardo;

Q. Vi sono molti studiosi che si pongono degli interrogativi in merito al trattino che spesso appare al nome di Shakespeare: Shake-speare – e non sono pochi coloro che credono che tale nome sia piuttosto uno pseudonimo, come appare sul frontespizio dei Sonetti nel 1609.

A parte però questo, un aspetto peraltro secondario della generale “questione Shakespeare”, nelle 32 edizioni delle opere di Shakespeare realizzate prima del First Folio del 1633, le 15 hanno il nome col trattino. È questa una importante indicazione, come ampiamente si ritiene, che riverbera la “versione” del cognome composto [crolla=shake, lanza(lancia)=speare] che il suo proprietario, traducendolo in inglese, ha particolarmente voluto evidenziare essendo egli straniero (un autoctono inglese non avrebbe avuto di certo nessuna ragione di dividere in due il proprio cognome per quanto stravagante potesse egli essere!);

R. Osservando i (pochi) ritratti di Shakespeare, non si può non notare che il suo volto è assai diverso da quello di un inglese medio. Sembra piuttosto essere il tipico viso di un abitante dell’Europa del sud. Già un suo contemporaneo, di nome Harwei, accennava apertamente alla sua origine italiana.

6.

Tutte le proprietà di Shakespeare sono analiticamente inventariate nelle tre pagine del suo testamento, tutte tranne i suoi libri e i suoi manoscritti. Come se non esistessero nè libri nè manoscritti! Forse che i libri li ha presi la figlia maggiore Susan? Quand’anche però fosse così, non li avrebbero poi spartiti tra di loro tutti gli eredi? Ma anche questa eventualità non sembra che sia avvenuta.

Un sacerdote, un certo James Wilmot, a quanto pare, volle nel 1785 controllare tutte le biblioteche private entro un raggio di 80 chilometri intorno a Stratford-on-Avon: non vi trovò nessun libro appartenente a Shakespeare! Ne ricavò, tra l’altro, forti dubbi sulla paternità di quest’ultimo in merito alle opere attribuitegli.

Quanto ai manoscritti, il problema è ancora più complicato e difficile. Secondo ciò che risulta dalle ricerche sinora effettuate, non esiste nessun manoscritto originale delle 36 opere di Shakespeare! Sono tutte copie. Per il resto, per quanto si conosca, molte edizioni non autorizzate di sue opere avevano avuto luogo quando egli era ancora in vita, sotto il nome di Shakespeare, senza mai che lo stesso interessato si sia opposto in via giudiziaria per impedire o vietare le edizioni clandestine. E allora nulla vieta nutrire il parere secondo cui tale mancanza di reazione potesse anche nascondere o rivelasse la volontà di apparire ed essere quindi sempre più conosciuto con il cognome di Shakespeare (o Shake-speare, come visto più sopra) al fine di “far sparire” il vero, rivelatore di presenza, cognome Crollalanza o Florio.

D’altronde, la sparizione di tutti i libri e manoscritti di Shakespeare già non molto dopo la sua morte e il parallelo, oggidì, rifiuto di rendere pubblica una biblioteca personale che sicuramente esisteva e che viene adesso con molta probabilità custodita in un luogo di competenza statale (fors’anche già da allora, dal XVII secolo), non può che apparire perlomeno strano, se non sospetto.

Al riguardo non è senza interesse sapere che il professor Martino Iuvara nel maggio del 2000 aveva inviato una lettera alla regina Elisabetta nella quale, tra l’altro, scriveva: “La provata prova dell’identità del maggior drammaturgo di tutti i tempi può trovarsi, quasi esclusivamente, nella sua biblioteca (…) la quale finora rimane nascosta a tutti (molto probabilmente per motivi nazionalistici), la quale però avrebbe dovuto, per amore verso la verità storica (ciò che dovrebbe porsi al di sopra di ogni calcolo) essere messa, con coraggio e saggezza, almeno alla disposizione degli studiosi.

E naturalmente auspicando che, durante questi quattro secoli che sono passati(1616-2000) alcuni malvagi supernazionalisti non abbiano voluto distruggere per sempre qualsiasi prova determinativa della non anglicità del grande Genio che comunque sia, inglese o meno, farà sempre parte della universale eredità culturale”.

Va da sé che non ha ricevuto nessuna risposta! Nel 2002 poi inviò la medesima lettera all’allora Primo Ministro Tony Blair. E come era da aspettarsi, neanche questa volta ci fu una risposta! Per cui nessuno può non considerare la possibilità che finalmente questa “biblioteca” nasconda pochi o molti “scheletri”.

In ogni modo tutto questo silenzio, l’evidente volontà e, perché no?, insistenza di tenere nell’oscurità una tematica le cui componenti vi sono ancora alcuni – che non devono essere pochi – che non sono pronti ad (o hanno paura di) affrontare qualunque sconvolgente sviluppo possano esse creare, mi domando fino a quando potrà o deve continuare.

Se in effetti la mancanza di buona disposizione da parte degli inglesi per un chiarimento della “questione shakespeariana” significa che ha ragione il prof. Iuvara ed esistono veramente elementi che dimostrino che Michelangelo Crollalanza è William Shakespeare oppure che la “storia” di Shakespeare tessuta da Iuvara è sicuramente vera, allora è comprensibile la posizione negativa di coloro i quali tutto hanno da perdere e nulla da guadagnare. Se invece le prove che cerca il prof. Iuvara non esistono o non esistono più perché, nel passato o recentemente, qualcuno o alcuni hanno provveduto a farli sparire eliminando in tal modo qualsiasi rischio di “nazionale, razziale disfatta letteraria” per gli inglesi e la Gran Bretagna, il rifiuto di rendere pubblica la biblioteca personale di Shakespeare (la quale, secondo quanto riferiscono gli studiosi, era composta da 340 volumi e forse vi si trovava anche una biografia vera, lasciata poi a Lord Pembroke) appare senza dubbio incomprensibile, tranne che vi siano altri lati oscuri della questione che costituiscono una specie di “segreto statale”.

In entrambi i casi l’occultamento non può che essere interpretato come precisa, irrinunciabile intenzione di “seppellire” la “questione Shakespeare” perché esiste qualche interesse molto particolare, direi inconfessabile, addirittura “drammatico”, di mantenere simile comportamento.

Rimane pertanto a mezz’aria una ragionevole domanda: sussiste, mutatis mutandis, una “questione shakespeariana” analoga alla “questione omerica”? Sembrerebbe di sì. Tra un Shakespeare “inglese” e un Shakespeare (Crollalanza) “italiano” si muovono molti altri personaggi e maschere con “diritto” di paternità sulle opere di uno “spettro” Shakespeare: Christofer Marlowe, il cardinale Wolsey, sir Walter Raleigh, Francis Bacon, Edward de Vere, 17o conte di Oxford, Roger Mannors, quinto conte di Ruthland, Robert Devereux, William Stanley, sesto conte di derby, perfino la regina Elisabetta!

Per cui non è più di tanto assurdo che gli Inglesi interessati abbiano appositamente “inventato” e “diffuso” tutti questi “candidati Shakespeare”, tutti, guarda caso, diligentemente e strettamente inglesi, al fine di “coprire”, annullare, addirittura esorcizzare la fastidiosa per la nazione inglese incombenza di un creatore non inglese di tanti straordinari capolavori.

È quello che in sostanza ha detto anche lo scrittore Jonathan Bate alcuni anni fa: “Il rilievo che le opere di Shakespeare siano state scritte da Florio è più facile da confutare che non l’attribuzione di esse ad un qualunque aristocratico (inglese). E siccome Florio non era inglese, la sua candidatura non ha mai potuto avere molto successo. Tranne naturalmente che in Italia…”

E la situazione diventa ancor più complicata quando anche la nota World Book Encyclopedia osserva che il popolo “rifiutava di credere che l’attore di Stratford-on-Avon avrebbe potuto averli scritti lui”. “Le origini contadine di Shakespeare non corrispondevano alla figura del Genio che ha scritto i drammi”, perché “solo un uomo colto, raffinato, di elevata classe sociale avrebbe avuto la capacità di comporre i drammi”.

Viene allora spontaneo ricordarsi le parole di Borges: “È strano, ma i paesi scelgono individui che non gli somigliano molto. Si pensi per esempio che l’Inghilterra ha scelto Shakespeare e che Shakespeare è, si può dire, il meno inglese degli scrittori inglesi(…) e non ci sorprenderebbe che sia stato italiano o ebreo”

Di conseguenza avviene che si debba qui affrontare una delle più difficili verità: e quanto più grande è questa verità, tanto più difficilmente viene detta e facilmente viene nascosta perché, ove uscita di bocca, il rumore provocato verrebbe ad essere, dolorosamente o gioiosamente (dipende dalle parti in causa) proprio assordante e variamente destrutturante.

Il quid dell’autore chiamato William Shakespeare non è posto in discussione solo dagli Italiani, ma anche dagli stessi Inglesi, sia pure alla luce di una diversa ottica di sostanza.

Così, mentre gli Italiani mettono in dubbio l’esistenza e la nazionalità dello scrittore, gli Inglesi non tanto mettono in dubbio la sua esistenza, malgrado le palesi, enormi lacune, quanto la paternità delle sue opere. In questa negazione, nondimeno, si dimostrano “patriotticamente” sciovinisti, visto che tutti i “candidati” alla incerta esistenza e alla paternità della sua produzione letteraria sono tutti inglesi e nessuno straniero.

Ecco quindi perché i “dubbi inglesi” per la “verità” di un autore inglese sono, per gli stessi inglesi, enormemente più “digeribili” e in sostanza anodini e senza ferite al contrario dei “dubbi italiani” che colpiscono invece il cruciale segno della nazionalità annullando tutto il prestigio e rinomanza che a tale nazionalità ne sono derivati e ne derivano ancora. Cioè una prospettiva assolutamente e in tutti i modi inaccettabile!

In ogni caso, a conferma dei sillogismi e delle prove contenute nella presente esposizione relativamente a Shakespeare, la sua vita e la sua opera, nella recentissima pubblicazione di Bill Bryson, Shakespeare. The World as Stage, 2007, le risultanze delle indagini svolte dallo scrittore convergono alle stesse conclusioni sin qui espresse, ovvero, per sommi capi:

1) “Almeno 200 anni fa lo storico George Stevens osservò che tutto quello che conosciamo di W.S. si limita ad alcuni eventi sparsi”. Di conseguenza si deduce che essi sono del tutto inutili e inutilizzabili per una giusta valutazione dell'”ipotesi Shakespeare”;

2) “Non siamo sicuri della corretta grafia del suo nome, ma, come pare, neanche egli stesso ne era sicuro perché nelle firme che di lui possediamo, il nome neanche due volte risulta scritto allo stesso modo”. Anche questa quindi un’indicazione del fatto che il Shakespeare “inglese” non doveva poi essere granché a conoscenza del suo stesso nome;

3) “Solo per pochissimi giorni della sua vita possiamo dire con certezza dove si trovasse”. La torbidezza e inesistenza del paesaggio nello Shakespeare inglese rimane immutabile e per nulla reversibile;

4) “Parecchi ricercatori ogni tanto sostengono che le opere di Shakespeare sono state scritte da qualcun altro”. E chi sarebbe? Uno dei tanti inglesi senza prove o l’unico italiano con assai plausibili elementi documentali e testimoniali?;

5) “Ancor oggi Shakespeare resta una ostinazione accademica più che un personaggio storico”.

Quest’ultima constatazione abolisce certamente qualsiasi conclusione e qualsiasi rappresentazione che i biografi inglesi avrebbero potuto inventare per rendere in carne ed ossa un loro compatriota che da ogni parte “sfugge” e piuttosto provoca l’invincibile sentimento di essere una vera e propria invenzione. E piuttosto altresì si tratta di un ben congegnato intrigo teso alla “creazione” quasi dal nulla di un super-scrittore inglese, un super-drammaturgo il quale in realtà o non è mai vissuto o nasconde la propria insufficienza dietro a qualcuno la cui esistenza sarebbe estremamente spregevole alla riputazione, orgoglio e arroganza etnica inglese.

E ovviamente allora, in ultima analisi, nulla esclude – per quanto ciò appaia irreale: ma quante volte la realtà supera la più sfrenata immaginazione?! – l’esistenza di una gigantesca diacronica macchinazione (imbroglio/impostura) delle istituzioni inglesi, statali e non, ai fini della conservazione della fama di una così eccezionale produzione letteraria (inglese) che, altrimenti, se dovesse essere smentita, potrebbe fondatamente provocare incalcolabili contraccolpi non solo nella società britannica, ma nella stessa sostanza dell’entità britannica, tanto esaltata dal possedere uno Shakespeare da non esitare a definirlo Our English Homer!(Henry Stratford Caldecott).

Alla fin fine, dunque, checché se ne dica, la più obbiettiva constatazione non può che fissare il seguente stato di cose:

a) la figura di W.S. che conosciamo è sempre, e direi irrimediabilmente, avvolta in un alone di assoluta incertezza e ambiguità. Val bene riferirsi qui, questa volta in relazione allo stesso Shakespeare, alla famosa esclamazione di Amleto: To be or not to be: that is the question!;

b) per parte italiana le ipotesi avanzate presentano molti aspetti positivi di verosimiglianza che potrebbero anche giungere fino alla soluzione di verità;

c) per parte inglese la collocazione del personaggio chiamato William Shakespeare è posta su illazioni non provate e su flagranti assenze di fondamentali dati personali, che tutti ammettono e nessuno può escludere;

d) sì che, concludendo, fino a quando non verranno alla luce (se mai esistono per venire alla luce) elementi di perfetto valore probativo a conferma della “realtà inglese” del personaggio W.S., le attuali risultanze biografiche dello stesso, che perfino non pochi autori inglesi e non solo ritengono fallaci e inattendibili, in nessun modo possono far testo prolungando presso la collettività letteraria internazionale l’illusorietà di uno scrittore completamente privo di convincenti contorni identificativi.

Ci si trova davanti alla vera assurdità di un complesso di 36 capolavori della letteratura il cui autore nessuno, ma nessuno può provare che sia davvero mai esistito. Parafrasando, potremmo dire: “(Trenta)sei opere in cerca di autore”!

Di conseguenza, gli esiti delle indagini teoriche e pratiche avanzate dagli studiosi italiani a favore della nazionalità italiana di William Shakespeare rimangono i soli validi a tutti gli effetti e possono sollevare i veli del dubbio che sinora hanno coperto il relativo “caso”. E allora credo io, non solo, ma tutti penso siano dello stesso parere, che le cose vadano dette con il loro vero nome.

E certamente non concordo con le conclusioni assolutamente pilatesche e irragionevoli di Giuseppe Provenzale, riportate in sunto nel quotidiano messinese online Tempo Stretto del 5.11.2012, quando nega (No!) che, quanto riferito a Shakespeare/Florio basti “per avvicinare i due personaggi e dimostrarne l’origine messinese” adducendo motivazioni davvero puerili e indegne di una città storica come Messina.

In realtà, di conclusioni se ne possono trarre persino troppe – per chi voglia trarne, però! – tenuto conto, com’è doveroso, della perfetta inconsistenza delle argomentazioni biografiche inglesi e del loro assordante silenzio probatorio!

PERCIO’, PER TUTTO QUANTO SIN QUI ARGOMENTATO ED ESPOSTO

È ora che la smettano gli inglesi di mercanteggiare con le culture altrui, farsi belli con i prodotti delle civiltà altrui. È parimenti ora di farla finita con questa civiltà britannica che si dà arie abbellendosi con i beni rubati a civiltà veramente eccelse (v. tutte le opere d’arte egizie; v. i famosi marmi del Partenone; v. le decine di migliaia di papiri di Ossirinco indebitamente tenuti nascosti; v. i capolavori assiri e mesopotamici; v. le opere d’arte cinesi e orientali; v. gli altri tesori messicani, islamici, romani, ecc., tutti rubati o presi con la forza o “comprati” con la frode o senza possibilità di replica dei legittimi possessori).

Quanto al “caso” trattato in queste pagine, se questi stessi inglesi posseggono le inconfutabili prove che Shakespeare è inglese, le esibiscano, le pongano all’esame dei competenti studiosi. E giustizia sarà fatta (non certamente “all’inglese”).

Ma se non hanno nulla di valido, la smettano di nascondersi dietro a fantasticherie, menzogne, dubbi, contraffazioni, illusioni, ruberie e sopra tutto puerili, stolte e insulse ironie. E se quello che posseggono (e finora nascondono) comprova che questo celeberrimo Shakespeare non è per nulla inglese o è un falso inglese a danno di un reale genio straniero – abbiano finalmente l’onestà e il decoro di ammetterlo, rivelando la documentazione che lo attesta, e chiedano scusa per l’immoralità e il comportamento di delinquenza letteraria tenuto sino ad oggi e per aver ingannato spudoratamente il mondo intero.

Se sanno ancora cosa sia l’etica.

Crescenzio Sangiglio

Numero2741.

 

Trovate qualche somiglianza tra questi due personaggi?

Elly Schlein la conoscete sicuramente, ma l’altro, forse, non vi è tanto familiare. Sapete di chi si tratta?

Niente popò di meno che di Girolamo Savonarola (1452 – 1498), frate Domenicano della seconda metà del ‘400, grande predicatore contro il Papato Romano (allora c’era sul trono Pontificio Alessandro VI Borgia) e contro la signoria dei Medici (allora c’era Lorenzo a Firenze).

Girolamo Savonarola venne scomunicato dalla Chiesa per scisma, eresia ed impostura e, prima impiccato, e poi arso sul rogo in Piazza della Signoria a Firenze il 23 maggio 1498.

Senza altri commenti.