Numero3466.

 

T R A    I    V E R S I    P I U’    B E L L I

D E L L A    P O E S I A    D I    O G N I    T E M P O

 

(inglese)

«To see a world in a grain of sand,
and a heaven in a wild flower,
hold infinity in the palm of your hand,
and eternity in an hour.»
(italiano)
«Vedere un mondo in un granello di sabbia
e un paradiso in un fiore selvatico,
tenere l’infinito nel palmo della mano,
e l’eternitá in un’ora.»

 

Numero3224.

 

DEDICATO  ALLA  MIA  CARA  AMICA  GIULIANA

 

da  QUORA

 

Scrive Enrico, corrispondente di QUORA

 

I L    C R I S T O    V E L A T O

 

Il Cristo velato è una scultura marmorea di Giuseppe Sanmartino, conservata nella cappella Sansevero di Napoli ed è stata realizzata nel 1753.

 

 

Raimondo di Sangro fu il committente di quest’opera, che originariamente doveva essere collocata nel mausoleo di famiglia sottostante la Cappella, vano che oggi ospita le Macchine anatomiche. Un piastrone di pietra indica oggi il punto preciso dove la statua avrebbe dovuto essere posta. L’incarico di eseguire il Cristo velato fu in un primo momento affidato allo scultore Antonio Corradini; tuttavia, deceduto da lì a breve, questi fece in tempo a realizzare solo un bozzetto in terracotta oggi al museo nazionale di San Martino. L’incarico passò così a Giuseppe Sanmartino, a cui venne chiesto di produrre «una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua».

Sanmartino realizzò quindi un’opera dove il Cristo morto, sdraiato su un materasso, viene ricoperto da un velo che aderisce perfettamente alle sue forme. La maestria dello scultore napoletano sta nell’esser riuscito a trasmettere la sofferenza che il Cristo ha provato, attraverso la composizione del velo, dal quale si intravedono i segni sul viso e sul corpo del martirio subito. Ai piedi della scultura, infine, l’artista scolpisce anche gli strumenti del suddetto supplizio: la corona di spine, una tenaglia e dei chiodi.

Matilde Serao, grande ammiratrice della scultura, ci restituisce una descrizione assai vivida del Cristo:

«Sopra un largo piedistallo è disteso un materasso marmoreo; sopra questo letto gelato e funebre giace il Cristo morto. È grande quanto un uomo, un uomo vigoroso e forte, nella pienezza dell’età. Giace lungo disteso, abbandonato, spento: i piedi dritti, rigidi, uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio, il collo stecchito, la testa sollevata sui cuscini, ma piegata sul lato dritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell’agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più dolorose lagrime. In fondo, sul materasso sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello […] E più nulla. Cioè no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà, ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la mostra, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce»

La firma dello scultore, infine, è apposta sul retro del piedistallo, sotto il materasso: «Joseph Sanmartino, Neap., fecit, 1753».

 

Guardate il velo che lo ricopre. Dà i brividi vero? È così morbido e realistico che non sembra possibile che sia fatto di marmo. Sembra addirittura che il lenzuolo si muova, come sospinto da un lieve soffio di vento. O da un respiro. Per secoli si credette che la sua incredibile trasparenza fosse opera dei poteri di Raimondo Di Sangro (nobiluomo , aristocratico campano che si dedicò tutta la vita a studi di alchimia), il quale avrebbe adagiato sulla statua un vero e proprio velo che si sarebbe marmorizzato attraverso un processo alchemico.

Adesso osservate il corpo di Cristo. È disteso su un materasso marmoreo, le ginocchia contratte, scavate dalla fatica e dal dolore, la testa sollevata sui cuscini, gli occhi socchiusi. Se guardate con attenzione, vedrete delle lacrime che tremolano sulle sue palpebre. Io ogni volta che la osservo provo un senso di commozione. E ho visto persone piangere e inginocchiarsi davanti a questa statua. Perché in questa scultura c’è tutta la sofferenza dell’uomo umiliato, percosso e trafitto.

Se però lo osservate con più attenzione, noterete un dettaglio che a molti sfugge. Sulla tempia di Cristo vedrete una vena che sembra ancora pulsare. E guardate i suoi arti. Sembrano ancora contratti, come se potessero muoversi da un momento all’altro. Perché? Perché quest’incredibile scultura non raffigura, come molti credono, un uomo morente, che ha appena esalato il suo ultimo respiro, ma un uomo che è sul punto di risvegliarsi e di emetterne uno nuovo: quello della rinascita dopo la morte!

Il Cristo Velato racchiude un messaggio di speranza e di riscatto, è il simbolo della rinascita alla quale l’anima, dopo aver attraversato la sofferenza (simboleggiata dalla Croce), può aspirare. Ed ecco anche perché il Cristo è velato. Il velo nasconde i misteri dell’esistenza agli occhi dei viventi. Cos’è la morte, sembra dirvi lo scultore, se non un leggerissimo velo, quasi impalpabile, che non attende altro che essere svelato?

Numero3086.

 

da  QUORA

 

Scrive Vincenzo Politi, corrispondente di QUORA

 

Quali cose il mondo invidia all’Italia?

 

  1. Cose molto superficiali, come il cibo, il bel tempo e la moda. Questo può essere un limite per gli italiani stessi. Immagina un professionista italiano che va all’estero e che NON lavora nel campo della cucina o della moda. Non dico che incontrerà ostilità ma, inconsciamente, verrà preso poco sul serio. Un po’ come un giapponese che va a lavorare in Europa o in America: se si occupa di tecnologia e intelligenza artificiale, allora va bene, perché “i giapponesi sono bravi in quelle cose”, ma se vuole fare lo stilista, allora incontrerà delle resistenze. Stessa cosa per gli italiani che vogliono lavorare in campi che non rientrano in quelli in cui, per stereotipi, “gli italiani sono bravi”.
  2. Cose che gli italiani stessi non apprezzano affatto: l’arte, le città, la storia della musica classica (Verdi, Bellini, Rossini, Donizetti, eccetera), la storia del cinema (neo-realismo, Fellini, Visconti, Antonioni, eccetera). All’estero siamo conosciuti per questo, in Italia non sappiamo manco chi sia Bernini. Molti apprezzano anche alcuni scrittori italiani: Pavese, Calvino, Eco ed altri sono conosciuti in tutto il mondo. In Italia, leggiamo Moccia e Fabio Volo, al massimo la biografia di Corona. La lingua italiana, pur essendo praticamente inutile, visto che è parlata solo in Italia e in qualche cantone Svizzero, è una delle più studiate al mondo – dicono addirittura che sia più studiata del francese! Questo perché, all’estero, la lingua italiana è considerata chic, una lingua di nicchia, una lingua culturale. Chi studia canto lirico deve sapere soprattutto l’italiano, visto che i libretti delle più grandi opere sono scritte nella nostra lingua; a seguire, vengono francese e tedesco. Chi studia storia dell’arte, anche all’estero, prima o poi con la lingua italiana dovrà farci i conti. Tutti amano anche l’estrema eleganza e la naturale musicalità dell’italiano. Questo, all’estero. E nelle strade italiane? Altro che estrema eleganza e musicalità dell’italiano! Congiuntivi sbagliati, parole pronunciate male, una totale mancanza di rispetto per le regole grammaticali di base. Un’ignoranza diffusa che va dal cosiddetto popolo fino alle classi politiche attuali. E, per giunta, tutti che si vantano della loro totale e imbarazzante ignoranza. Pare che saper coniugare i verbi, di questi tempi, sia troppo ‘radical chic’. Poi, cosa voglia dire, ‘radical chic’, nessuno te lo sa dire. Per non parlare di quelli che si credono ‘international’ e creano mostruosità aberranti tipo ‘apericena’, o parole in inglese, o in una specie di inglese, pronunciate malissimo e ‘italianizzate’ alla bell’e meglio. Una coltellata ai timpani sarebbe meno dolorosa.

In conclusione, all’estero ci invidiano le cose belle ma che, alla fine, non sono poi così fondamentali (si può vivere pure senza la pizza e il mandolino), oppure cose che appartengono al patrimonio storico e culturale dell’Italia e che, paradossalmente, gli italiani stessi stanno sistematicamente distruggendo. Un po’ come l’opera di “distruzione culturale” compiuta dagli sciacalli dell’ISIS, che per difendere il Medio Oriente lo stanno letteralmente demolendo, più di quanto avrebbe potuto fare il tanto temuto Occidente infedele e peccatore!

Numero3012.

 

da  QUORA

 

Scrive Giancarmine Faggiano, corrispondente di QUORA.

 

F A N T A S I E    S E S S U A L I

 

Le fantasie sessuali in una coppia ben collaudata, aiutano a mantenere in vita il desiderio di entrambi per poter mettere in atto l’eccitazione.
L’importante è non essere perversi, feticisti e masochisti.
La perversione, infatti, si relaziona ad atti e comportamenti che non rientrano nella normalità giacché si violano regole di accoppiamento riconosciute come tradizionali.
Per Freud, le perversioni sono prevaricazioni anatomiche di regioni del corpo destinate all’unione sessuale.
In questo caso, l’amore diventa non amore perché privo di emozioni e sentimenti spontanei.
I cosiddetti feticismi, poi, portano a comportamenti devianti ed animaleschi che, in Psicoanalitica, si chiamano “disturbi psichiatrici del carattere.”
In particolare, un sadico a letto, è portato ad infliggere dolore, sottomissione psicologica al/ alla Partner.
Il perverso pensa solo a se stesso.
E questo, non è affatto sesso sano , bensì malato. Invece, le fantasie sessuali sane sia maschili che femminili , per quanto molto sensuali, aumentano nel rapporto il desiderio nascosto per mantenere l’eccitazione e prolungare il piacere di entrambi.
In effetti, avere una buona immaginazione a letto, rivela sostanzialmente la propria personalità e l’Amore spontaneo diventa davvero ” Ars amandi.” (arte di amare)

Numero2754.

 

N.d.R.: invito il lettore a rileggere il Numero1014., dopo aver considerato quanto qui pubblicato.

 

da  QUORA

 

i

 · 

Sì.

Sono un romano e un nomade digitale: Nato e vissuto a Roma, ho poi trascorso gli ultimi anni esplorando il mondo, dagli USA alla Cina e tutto quel che c’è in mezzo, compresa l’Asia Centrale e l’Uzbekistan dove vivo ora.

Perciò ho un minimo di qualifiche per giustificare la mia risposta, avendo vissuto in molte città in tutto il mondo.

Roma, attualmente, è una città vecchia, malandata, degradata, abbandonata, senza manutenzione, senza servizi funzionanti, sporca, disorganizzata, senza controllo e alla mercé di chiunque.

La popolazione è composta prevalentemente da anziani e i relativamente pochi giovani hanno limitati e carenti ambienti di aggregazione, e poche opportunità, specialmente in periferia.

I giovani con sane idee, ambizioni e possibilità emigrano, e vengono sostituiti da schiavi clandestini a basso costo dal terzo mondo, mentre la popolazione romana, insieme alla sua economia, vanno a morire pian piano.

Il senso di estremo degrado è palpabile in ogni metro quadro: mondezza per terra, rivoli di piscio ed escrementi, scarabocchi che imbrattano muri sudici, automobili accatastate in ogni singolo spazio, traffico e roghi tossici che inquinano l’aria.

La cosa peggiore è che molti sembrano ormai assuefatti al degrado: non rendendosi conto che in quasi tutto il resto del mondo, anche in città di Paesi considerati come più sottosviluppati (ad esempio, Kazakhstan) la qualità di vita è nettamente migliore di Roma sotto molti aspetti.

Salubre passeggiata fra le vie di Roma:

Ho visto gente a Roma cibarsi in bar fra l’immondizia, bar dove perfino le aiuole, in teoria decorative, che li delimitavano erano diventate cestini di rifiuti. I gestori non sembrano curarsene, il decoro non esiste. Una vita senza dignità, senza bellezza, come maiali che grufolano fra l’immondizia.

In foto, le aiuole di questo bar:

Nella foto sotto, piacevole passeggiata in un parco romano. L’incuria ha fatto morire un albero di cui è rimasto solo un ceppo che, sempre per incuria, non è stato rimosso. E, come ogni cosa a Roma, è diventato un cestino di immondizia:

Personalmente ho agito spesso per migliorare le cose e ogni romano dovrebbe opporsi e combattere con ogni mezzo, anziché frignare e lamentarsi senza agire.

Quando ho chiamato la polizia per fermare un’aggressione da parte di un clandestino ubriaco, sono arrivati dopo 45 minuti. Ho dovuto agire da solo.

Quando mi sono rivolto ai vigili del fuoco per fermare degli zingari che stavano creando, come ogni singolo giorno da anni, un enorme rogo tossico inquinando l’aria di tutta la città, mi hanno detto che non potevano fare nulla. Sono dovuto entrare nel campo rom da solo a mio rischio e pericolo.
In foto (scattata da me) potete vedere quello che ho trovato:

Servono romani con le palle per cambiare la situazione, persone che stanno sul pezzo, e non i soliti lamentosi pavidi e bravi solo a frignare e a farsi sottomettere da chiunque, per poi masturbarsi a vicenda per illudersi di vivere nella “città più bella del mondo”. Sì, duemila anni fa magari. Ora i nostri antenati si staranno rivoltando nella tomba a vedere che fine ha fatto la nostra città.

Non sono una persona che si rassegna, e voglio che la mia città presto possa tornare a splendere. Ma ci dovrà essere un cambio di mano radicale, polso di ferro, e tolleranza zero per l’inciviltà.

E non fraintendetemi: io amo Roma, amo la sua storia, amo quello che potrebbe essere se solo fosse gestita in maniera intelligente. Ed è per questo che odio vederla ridotta così e considererei ogni mezzo lecito per stravolgere la situazione.

È necessario che tutti noi romani combattiamo con ogni mezzo per invertire lo stato di degrado e tornare a far essere la nostra Urbe la migliore città del mondo. Bisogna unirsi in una battaglia di civiltà, guardare oltre il proprio orticello. Quando vediamo qualcosa che non va, dobbiamo intervenire personalmente. È difficile, è rischioso, è una strada lunga e tortuosa, ma nella vita raramente ciò per cui vale la pena combattere si raggiunge senza sforzo.

E Roma questo sforzo lo merita.

Via Cavour, Roma Centro. Clandestino ubriaco si masturba fra il piscio e i graffiti che imbrattano tutta la città

Acquedotti Romani

Bike sharing romano

Marciapiede romano

Scorcio romano

Sottopassaggio romano

Carcasse di animali per strada hanno il tempo di finire di decomporsi prima che la corrotta società di gestione rifiuti pulisca. Notare inoltre il rivolo di piscio onnipresente in ogni parte della città

Opere d’arte romane

Numero2742.

da Internet

 

Michelangelo Florio Crollalanza, in arte William Shakespeare

 

La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce da varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.

La teoria dell’origine messinese del grande drammaturgo, scrive Principiato, era stata avanzata anche in sede universitaria, nel 1950, dalla cattedra di storia del diritto italiano dell’ateneo di Palermo, dal professor Enrico Besta. Molto più recentemente, Martino Iuvara da Ispica (Ragusa), pubblicò nel 2002 un volume intitolato “Shakespeare era italiano”, in cui riprese le varie tesi esposte nel tempo, arricchendole con alcuni particolari inediti frutto di sue ricerche. «In particolare – precisa Principiato – avrebbe chiarito il mistero del nome italiano del Bardo che, secondo lo studioso ispicese, era Michelangelo Florio, figlio di un medico di origine ebraica e di religione calvinista e di una nobile siciliana, Guglielma Crollalanza, da cui la traduzione inglese di William Shakespeare». La notizia fu «una ghiottoneria per tutti gli organi di stampa, non solo italiani». Lo stesso “Times”, in un articolo di Richard Owen, «uscì sulla vicenda con toni sorprendentemente accondiscendenti verso la tesi di Iuvara», secondo cui il vero Shakespeare, cioè Michelangelo Florio, nacque a Messina il 23 aprile 1564 da Giovanni Florio, medico e pastore calvinista di origine palermitana, e dalla nobile Guglielma Crollalanza.

Il piccolo Michelangelo, cioè il futuro William, si rivelò subito un bambino prodigio, dotato di grande genialità e appassionato della lettura. A 16 anni conseguì il diploma del Gimnasium in latino, greco e storia. Giovanissimo, a conferma delle sue doti, scrisse una commedia in dialetto dal titolo “Tantu trafficu ppi nenti”. «A causa delle credenze religiose del padre, Michelangelo (o Shakespeare, se preferite), non più al sicuro a causa dell’Inquisizione, venne prima mandato in Valtellina e poi a Milano, Padova, Verona, Faenza e Venezia. Ebbe anche il tempo di tornare a Messina, ma la sua permanenza nella città dello stretto durò poco», continua Principiato. A 21 anni Michelangelo iniziò il suo personale “giro del mondo”: soggiornò prima ad Atene, dove fu insegnante, poi in Danimarca, Austria, Francia e Spagna. «Tornato ancora una volta in Italia, precisamente a Treviso, s’innamorò di una giovane di nome Giulietta». Ma la storia tra i due «finì in tragedia con il rapimento, per cause religiose, e la successiva morte di quest’ultima». Sconvolto per la morte dell’amata, Michelangelo si trasferì a Venezia ma, dopo che anche il padre per le stesse ragioni fu trucidato, decise di mettersi in salvo trasferendosi a Londra. «È qui che Michelangelo Florio cambia identità e diventa il famoso William Shakespeare».

«Lasciatosi alle spalle tutte le paure e i dolori precedenti», “Shakespeare” ebbe finalmente modo di dedicarsi a scrivere per il teatro, continua Principiato. «Le rappresentazioni dei suoi testi ebbero grande consenso tra il pubblico. Ma grande merito del successo andava al dotto e letterato cugino che lo aiutò nelle traduzioni dall’italiano all’inglese e alla moglie, sposata quando il drammaturgo aveva 28 anni, e di 8 anni più grande di lui». Superate le iniziali difficoltà legate al problema della lingua, “Shakespeare” «si impadronì perfettamente dell’inglese, coniando addirittura migliaia di nuovi vocaboli e arricchendo in maniera straordinaria la propria produzione letteraria». Divenne ricco e famoso, e le sue opere molto apprezzate. Morì a Londra il 23 aprile 1616, sempre secondo lo Iuvara. Sicché, “Molto rumore per nulla” sarebbe la versione italiana di “Tantu trafficu ppi nenti”, che Michelangelo Florio di Crollalanza scrisse a Messina intorno al 1579 (manoscritto andato perduto). Ma sono davvero tante le argomentazioni sulla presunta messinesità di Shakespeare, a cominciare da “Amleto”, in cui compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guildenstern, che frequentarono l’università di Padova e che Michelangelo Florio aveva conosciuto. Nella stessa opera si trovano poi molti proverbi, pubblicati da Florio, senza pseudonimi, nel volumetto “I secondi frutti”.

L’origine italiana di Shakespeare, continua Principiato, forse può spiegare i molti luoghi, presenti nelle sue opere, che caratterizzano l’Italia e i nomi italiani: “Romeo e Giulietta”, “Otello”, “Due signori di Verona”, “Sogno di una notte di mezza estate” e “Il mercante di Venezia”, oltre a “Molto rumore per nulla”. Poi “La bisbetica domata”, che è di Padova. E ancora: “Misura per misura”, “Giulio Cesare”, “Il racconto dell’inverno” e “La tempesta”, che inizia a Milano. «Più di un terzo (ben 15) dei suoi 37 drammi sono ambientati in Italia». «Nel “Mercante di Venezia” il colore locale è stupefacente: esatte espressioni marinaresche sono poste in bocca a Salanio e Salerio, si parla del traghetto che unisce Venezia alla terraferma,  si dà l’esatta posizione di Belmont (cioè Montebello, un sobborgo di Venezia) e di Padova, e si da notizia del tragitto che deve essere percorso da Porzia e Nerissa». Proprio nel “Mercante”, il Bardo «rivela una approfondita conoscenza della legislazione veneziana del tempo, completamente diversa da quella vigente in Inghilterra e che nessun inglese del tempo conosce così bene». E c’è di più: «Il maestro Bellario, citato nel testo, adombra un personaggio realmente esistito e molto famoso nell’ambiente giuridico padovano, il professor Ottonello Discalzio». La gran parte delle opere firmate Shakespeare rivela una conoscenza diretta dei luoghi che Michelangelo Florio ha visitato durante la sua giovinezza girovaga. E “Giulietta e Romeo” appare chiaramente come una trasfigurazione artistica della storia d’amore vissuta durante la giovinezza.

Nei registri della scuola secondaria di Stratford, la “Grammar School”, non compare il nome di nessun William Shakespeare, annota Principiato. Si sa che l’artista frequentasse a Londra un “Club In”. In quel club, però, non risulta registrato fra i soci nessuno “Shakespeare”, mentre vi risulta registrato Michelangelo Florio. «E’ noto che la sciattezza della biografia di Shakespeare, raffrontata alla grande mole della sua opera teatrale, ha fatto negare a molti studiosi l’autenticità della sua esistenza, e ritenere essere egli il prestanome di personaggi più famosi». I drammi di Shakespeare, poi, «rivelano una straordinaria esperienza secolare». Aveva ad esempio una buona conoscenza della legge, e fece largo uso di termini e precedenti legali: nel 1860 John Bucknill scriveva di lui dicendo che conosceva a fondo la medicina. Lo stesso si può dire delle sue nozioni di caccia, falconeria e altri sport, come pure dell’etichetta di corte. Lo storico John Mitchell lo definisce «lo scrittore che sapeva tutto». Un uomo di lettere? Il padre di William, John, (quello inglese) era un guantaio, commerciava in lana e forse faceva il macellaio. Era proveniente da una famiglia di contadini e piccoli proprietari terrieri (yeomen) del Warwickshire: un suddito rispettato, ma illetterato.

E’ noto che “Shakespeare” conoscesse bene anche la storia romana: sapeva anche che Pompeo aveva soggiornato a Messina, nel 36 a.C. Nella Commedia “Antonio e Cleopatra”, infatti, conoscendo questi fatti storici, parla della casa di Pompeo che è a Messina e proprio lì ambienta l’atto II, scena I: “Messina. In casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Menas, in assetto di guerra”». In “Molto rumore per nulla”, commedia degli equivoci, «sono riscontrabili modi di dire e doppi sensi propri della parlata messinese», addirittura “Mìzzeca, eccellenza!” (Atto V scena I). Osserva Principiato: “crollare”, in italiano antico, significava “scrollare”, dimenare qua e là; quindi “crollalanza” è il traducente perfetto di “shakespeare”. «L’atto da cui deriva il cognome  risale alla “Germania” di Tacito: “Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt. Honoratissimum adsensus genus est armis laudare», (capitolo 11). Traduzione: “Se il parere non è piaciuto, [I germanici in assemblea] lo respingono mormorando; se invece è piaciuto [s]crollano le lance. È il modo più onorevole d’approvazione, lodare con le armi”. E la voce “crollare”, nell’autorevolissimo Tommaseo-Bellini, «dimostra indubitabilmente l’accezione antica di “crollare” che equivale al “concutio” tacitiano e all’inglese  “shake” scespiriano».

I biografi, aggiunge Principiato, ipotizzano che Shakespeare abbia maturato la sua vasta conoscenza della legge e la sua accurata familiarità con i modi, il gergo e i costumi degli avvocati dopo essere stato lui stesso, per poco tempo, il cancelliere del tribunale di Stratford. Ipotesi ben poco credibile. E poi: chi conservò i manoscritti di Shakespeare? Attorno a Stratford non ve n’era traccia. «Un religioso del XVIII secolo controllò tutte le biblioteche private nel raggio di 80 chilometri da Stratford-on-Avon senza trovare un solo volume che fosse appartenuto a Shakespeare». E i manoscritti dei drammi, aggiunge Principiato, costituiscono un problema ancora maggiore: «Non risulta che sia stato preservato nessuno degli originali. Trentasei drammi furono pubblicati nel primo in-folio del 1623, sette anni dopo la morte di Shakespeare. E’ da ritenere che tutte le opere fossero in mano ai Florio, che non potevano ufficialmente giustificarne la provenienza». Tutto questo, nonostante tenga ancora banco – ufficialmente – la vulgata della nazionalità britannica del grande artista.

L’opinione maggioritaria tra gli studiosi identifica infatti il drammaturgo con il William Shakespeare nato a Stratford-on-Avon nel 1564, trasferitosi a Londra e diventato attore e contitolare della compagnia teatrale chiamata “Lord Chamberlain’s Men”, proprietaria del Globe Theatre a Londra. Quest’uomo divise la propria vita tra Londra e Stratford, dove si ritirò nel 1613 e dove sarebbe poi morto nel 1616. Di lui possediamo la data di battesimo, il 26 aprile 1564. Oltre ad alcuni particolari sui genitori di Shakespeare, gli storici sono inoltre in possesso del certificato di matrimonio di William – datato 27 novembre 1582 – e dei certificati di battesimo dei suoi tre figli. «La visione scettica afferma invece che lo Shakespeare di Stratford fu semplicemente il prestanome di un altro drammaturgo non rivelatosi». Argomenti a sostegno di questa tesi: «Le ambiguità e le informazioni mancanti nella visione tradizionale e l’affermazione che le opere teatrali di Shakespeare richiedevano un livello culturale (compresa la conoscenza per le lingue straniere) maggiore di quello che si suppone Shakespeare avesse». In più, svariati indizi «suggeriscono che l’autore sia deceduto mentre lo Shakespeare di Stratford era ancora in vita: i dubbi sulla sua paternità espressi da suoi contemporanei».

Gli “stratfordiani” sostengono che Shakespeare avrebbe potuto frequentare la The King’s School di Stratford fino all’età di quattordici anni, dove avrebbe studiato i poeti latini e le opere teatrali di autori come Plauto e Ovidio. Ma si tratta di semplici congetture, obietta Principiato, perché «non esistono registri di ammissione o di frequenza che parlino di lui in alcuna scuola secondaria, college o università». Molti “anti-stratfordiani”, poi, si interrogano sul trattino che spesso appare nel nome, spezzandolo in due (“Shake-speare”): secondo loro indica che si tratti di uno pseudonimo. Quel trattino, ad esempio, appare sul frontespizio dei “Sonetti” del 1609. Uno studioso di Oxford come Charlton Ogburn fa notare che, fra le 32 edizioni delle opere di Shakespeare pubblicate prima del “First Folio” del 1623 in cui l’autore veniva menzionato, il nome conteneva il trattino in ben 15 casi, quasi la metà. «Ciò è molto significativo, poiché rafforza la tesi del cognome composto: scrolla = shake, lanza/lancia=speare». Altre stranezze, infine, sulla sua morte: nel 1700 Richard Davies scrisse che morì da cattolico, «frase che forse potrebbe confermare la circostanza che egli fosse in precedenza calvinista, come Michelangelo Florio, per poi convertirsi al cattolicesimo». Ma soprattutto: «Quando muore, il 23 aprile 1616, nessuna commozione né lutto nazionale si registrano in Inghilterra, quasi fosse uno straniero».

 

 

WILLIAM SHAKESPEARE

ERA ITALIANO?

di C. Sangiglio

 

1.

Non è affatto improbabile che sussista, al pari della “questione omerica” anche una “questione shakespeariana”!

Molte biografie sino ad oggi hanno visto la luce, moltissimi articoli e saggi sono stati pubblicati, diverse teorie sono state elaborate in relazione all’identità di questo poeta e drammaturgo, autore di 36 capolavori del teatro, un vero e proprio emblema e vanto della letteratura inglese.

Finalmente, però, Shakespeare, chi era costui?, come direbbe qualcuno che conosciamo.

Dopo tutto, i soli elementi noti che possediamo e riguardano un William Shakespeare, tranne che fosse il figlio di John Shakespeare e di Mary Arden, di religione cattolica, sono:

a) la data di battesimo, il 26 aprile 1564, di un “Gulielmus Johannes Shakespeare [NB. Non esiste una data di nascita, sì che, come ci risulta, a posteriori è stata “fissata” come data di nascita il 23 aprile 1564 senza che nessuno sappia chi ne è l’ispiratore o l’autore e perchè proprio il 23.4.: forse per analogia (!) con la data della sua morte – 23.4.1616 – o forse perchè il 23 aprile è la festa di San Giorgio, patrono dell’Inghilterra(!)];

b) la data del matrimonio, il 27 novembre 1582, “inter William Shaxpere et Hannam Whateley de Temple Grafton”, anche qui con la solita imprecisione in merito al nome, visto che in realtà il nome della moglie di W.S. era Anne Hathaway;

c) questo risulta appunto il nome e cognome di quest’ultima quando decedette il 6 agosto 1623: quindi in contrasto con quello del matrimonio!;

d) la data di battesimo, il 26 maggio 1583, di Susan, prima figlia di W.S.;

e) la data di battesimo, il 2 febbraio 1585, dei gemelli “Hamnet and Judeth, son and daugther to W.S.”;

f) infine, un documento del 1589 (ignoro di quale valore giuridico o/e amministrativo) nel quale William appare come erede di John e Mary Shakespeare ed alcuni altri documenti miscellanei privi di qualche valore indicativo e chiarificante.

Come è evidente, dunque, si tratta di elementi che non rivelano, non dichiarano e non spiegano assolutamente nulla su chi in effetti fosse e non fosse W.S., quale insomma la sua presenza sulla terra.

E poi esiste un dato di fatto che a me pare assai interessante, per quanto in prosieguo verrà esposto: gli stessi inglesi dicono, ammettono, che la madre di W.S. fosse cattolica.

Ma una cattolica (da sola? con una famiglia?: nessuna sa nulla) come era capitata in una così ristretta società protestante come quella che doveva esservi a Stratford nella prima metà del 1500?! In un paese dove i pochi o numerosi cittadini di altre nazionalità erano anch’essi protestanti rifugiàtisi lì per salvarsi dalla cattolica Inquisizione, una donna cattolica doveva essere come la mosca in un bicchiere di latte! Già però questo elemento della “cattolicità” della madre non appare alquanto sospetto?

Certo, con simili dati e solo con simili “tangibili” dati nessuno può e ha il diritto di asserire che si tratti di William Shakespeare, il grande trageda del XVI secolo in Europa. D’altronde anche le biografie dell'”inglese” W.S. non offrono nulla o quasi nulla di sostanziale e assolutamente accertato e accertabile per ciò che concerne chi esattamente fosse questo scrittore che “dicono” essere nato il 23.4.1564 a Stratford-upon-Avon, dove abbia vissuto, dove e se abbia studiato e cosa abbia studiato, quali siano state le, sia pure pochissime, condizioni e situazioni di vita che abbiano segnato la sua opera e le sue impareggiabili cognizioni.

La sua biografia “inglese”, tranne le molte “avventurose” circostanze, totalmente indimostrabili, episodi abbelliti o drammatizzati senza prova alcuna e congegnati solo per creare impressioni e ammirazione, viene a dirci in sostanza: “Tutto quello che conosciamo di William Shakespeare è che è nato nell’aprile 1564 a Stratford-upon-Avon, cittadina del Warwickshire, a nord-ovest di Londra, lì si è sposato all’età di 18 anni, nel novembre 1582, con Anne Hathaway, ha avuto tre figli, Susan e i gemelli Hamnet e Judhit, è andato a Londra dove ha lavorato come attore, ha scritto opere poetiche e teatrali, è tornato a Stratford, ha redatto il proprio testamento, è morto nel 1616 all’età di 52 anni e lì è stato seppellito” – tutto ciò infiorettato con molti elementi soi-disant “biografici” e varie “imbottiture” che però nessuno è in grado di verificare e identificare, creando di conseguenza una cornice entro la quale la figura del Bardo permane sommamente fluida e inafferrabile.

Ove si voglia però essere più chiari, allora occorre dire che in questa già di per sè “ombra di biografia” è come se dal 1564 al 1582 non abbia vissuto nessun Shakespeare! Egli compare poi nel 1582 quando (dicono) si sposa ed “esiste” fino al 1585, ovvero negli anni (dicono) di battesimo (non di nascita!) dei suoi (dicono) tre figli. Di seguito, nuovamente non esiste nessun Shakespeare dal 1585 al 1592, quando ricompare ormai famoso attore e scrittore teatrale! A conti fatti, quindi, nessun W.S. esiste proprio negli anni della più importante formazione scolastica e nei primi anni formativi della creazione letteraria! Molto strano, per essere una semplice coincidenza.

A questo punto non dimentichiamo il particolare di un Michelangelo Florio Crollalanza venuto a stabilirsi in Inghilterra nel 1588 e poco dopo divenuto William Shakespeare, come vedremo più sotto.

Pertanto, non conosciamo quasi nulla per molti anni della sua (dicono) esistenza e parimenti nulla sussiste che colleghi la sua vita e in particolare la sua opera con il suo luogo natale, questo Stratford che, in quei tempi, non doveva essere null’altro che un insignificante borgo della campagna inglese. Questa inesistenza di rapporti non sembra quindi assai insolita, per non dire incomprensibile? E ciò perchè nella storia dell’arte e delle lettere non esiste autore che, in un modo e nell’altro, poco o molto, non abbia collegato la propria opera, o parte di essa, al luogo di nascita, e non ne abbia parlato, in bene o in male, o semplicemente se ne sia riferito sia pure a mo’ di citazione. Presso Shakespeare invece una simile “connessione” è provatamente irriscontrabile! E la cosa più seria è che non esiste nè è stata trovata alcuna logica spiegazione di tale “originalità”!

Un riferimento indiretto, anch’esso negativo, a William Shakespeare scopriamo nel 1592 in un pamphlet di Robert Greene, importante prosatore dell’età elisabettiana, suo avversario o rivale, dal titolo A Groath’s Worth of Wit bought with a Million repentance (Una monetina di spirito comprata con un milione di pentimento), noto anche come A Groathworth of With, nel quale Greene con pesanti espressioni accusa Shakespeare di arrivismo: “Non sembra strano che voi ed io, ai quali finora tutti si sono inchinati, all’improvviso dobbiamo vederci così abbandonati? Un villano corvo, fàttosi bello con le nostre penne, con il suo cuore di tigre rivestito con la pelle di un attore, crede di essere capace di dar voce a versi sciolti come fosse il migliore di voi e nulla di più essendo che un Johannes factotum crede di essere l’unico scuoti-scena (“Shake-scene”) di tutto il paese”, dove chiaramente è indicato Shakespeare (= Shake-scene) anche per la citazione di un verso (“Cuor di tigre”) dall’Enrico VI.

2.

Accostiamoci adesso ad un’altra versione sul tema della reale esistenza del nominato William Shakespeare, anche in relazione alla sua opera.

Sin dal 1927 il giornalista Santo Paladino, a Roma, in un suo articolo al giornale L’Impero il 4 febbraio dal titolo “Il grande poeta tragico Shakespeare era forse italiano” scrive che Shakespeare era Michelangelo o Michel Agnolo Florio, figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza, quello stesso Michelangelo Florio Crollalanza, di fede calvinista, un libro del quale, dal titolo I secondi frutti, scritto verso la fine del XVI secolo, apparve in Italia, contenente proverbi della Sicilia e specialmente di Messina, molti dei quali si sono trovati più tardi nell’Amleto di Shakespeare!

La teoria dell'”italianità” di Shakespeare ritornò sulla scena il 1950 ad opera di Enrico Besta, professore di Storia del Diritto Italiano alle Università di Palermo, senza tuttavia alcun interessante seguito o esito, come pure avvenne con le proposte negli stessi anni ’50 di Carlo Villa e, alcuni anni prima, di Paolo Viganò e Luigi Bellotti, che esprimevano, in maniera un po’ paradossale, è vero, logiche perplessità sulla nazionalità di Shakespeare e assicurazioni sulla realtà del nome italiano.

Negli stessi anni ’50, esattamente nel 1955, il medesimo Paladino nel libro Un italiano autore delle opere shakespeariane confermò l’idea di un Michelangelo Florio autore delle opere attribuite a William Shakespeare, precisando che tali opere scritte in italiano, erano tradotte in inglese in collaborazione con l’attore William Shakespeare, il quale diventò così quasi prestanome o coautore.

L’8 aprile 2000 nei The Times di Londra fu pubblicato un articolo di Eichard Owen il quale, in rapporto agli studi di un college inglese e del professore italiano Martino Iuvara, riferisce che William Shakespeare deve essere nato a Messina in Sicilia, città che fu costretto ad abbandonare poi per stabilirsi in Inghilterra fuggendo alle ricerche della Sacra Inquisizione (in quell’epoca – 1530/1600 – la Sicilia si trovava sotto occupazione spagnola) che minacciava la vita dei suoi genitori, convinti calvinisti. A Stratford-upon-Avon, dove si fermò, cambiò il proprio cognome da (Michelangerlo Florio) Crollalanza nell’ inglese Shakespeare,1 mentre il nome lo derivò dal nome di un suo cugino (figlio di un fratello di sua madre da tempo stabilitosi in Inghilterra) morto prematuramente e chiamato William.

Una seconda versione considera che il nome di William altro non è che la esatta traduzione inglese del nome della madre, appunto Guglielma. È comunque così che è “nato” William Shakespeare.

L’articolo del The Times continua: “Il segreto del come e perchè William Shakespeare conoscesse così bene l’Italia e “abbia messo” tanta Italia nelle sue opere lo ha risolto un accademico siciliano: il fatto è che W.S. non è per nulla Inglese, ma Italiano. Le biografie del Bardo convengono sul fatto che sussistono moltissimi vuoti (voragini) relativamente alla sua esistenza(…) Il professor Martino Iuvara sostiene che Shakespeare era Siciliano, nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza, si rifugiò a Londra a causa della Sacra Inquisizione essendo di fede calvinista e lì tramutò il proprio nome nel perfetto corrispondente inglese”.

Peraltro, l’interpretazione di Iuvara esprime una versione assolutamente obbiettiva, di sicuro molto più circostanziata e del tutto differente da quella, non poco romanzesca, delle versioni britanniche. La Sacra Inquisizione si trovava sulle tracce del medico Giovanni Florio e di sua moglie Guglielmina Crollalanza, figlia di una famiglia nobile di Messina, entrambi calvinisti, ossia “eretici” nell’intendimento delle inquirenti autorità ecclesiastiche spagnole. Così, insieme col figlio Michelangelo o Michel Agnolo abbandonarono Messina e si stabilirono a Treviso, non lontano da Venezia, dove acquistarono (o affittarono) la Casa Otello, costruita da un nobile veneziano di nome Otello, sul conto del quale circolavano voci secondo cui egli, accecato dalla gelosia, aveva ucciso la propria consorte.

The Times: “Michelangelo studiò a Venezia, a Padova e a Mantova e viaggiò in Danimarca, Grecia, Spagna e Austria. Era amico del filosofo e monaco Giordano Bruno che nel 1600, condannato quale eretico dalla Sacra Inquisizione, morì a Roma sul rogo. G. Bruno disponeva di cospicui collegamenti con l’Inghilterra, come William Herbert, conte di Pembroke, e il conte di Southampton. Il 1588, all’età di 24 anni, Michelangelo trova rifugio in Inghilterra dopo che sicari Spagnoli avevano assassinato i suoi genitori”. In Inghilterra Michelangelo gode della protezione dei due nobili, e addirittura più tardi dedicherà al conte di Southampton due opere poetiche, Venus and Adonis e The Rape of Lucrece. Risiede nell’abitazione di un parente della madre Crollalanza il quale già da tempo aveva mutato il proprio cognome in Shakespeare. Un figlio di costui, di nome William, era morto ancora neonato.

Questa è la “versione Iuvara”. Nondimeno, non è l’unica, giacché nella stessa Inghilterra e nel medesimo anno gli studenti del Port Arthur Collegiate Institute non hanno nessuna difficoltà a discutere e in certo modo indirettamente avallare l’esistenza di un’idea che molto dista dalle ufficiali convinzioni e concezioni inglesi e che introduce un’interpretazione la quale totalmente annulla la maggiore “istituzione letteraria” inglese nella persona di William Shakespeare, forse perché la versione Iuvara, in connessione con la sostanziale inesistenza di “sostegni” inglesi assolutamente probanti, appare obbedire ad una logica assai convincente e verosimile, più prossima a verità.

Con il titolo: “Shakespeare was Italian? – To be believed or not?” il testo degli studenti si esprime come segue, in gran parte riflettendo la teoria Iuvara forse perché considera che la stessa non sia da rigettare:

“This question was asked of as students at Port Arthur Collegiate Institute as part of our English lessons.

Is Shakespeare, as a displanted Italian supposed to explain the many Italian plays, characters with Italian names, and references?

It has been suggested that he was actually born in Messina, Sicily, not too far from Simbario, Catanzaro, as Michelangelo Florio Crollalanza. His parents were not John Shakespeare and Mary Arden, but were Giovanni Florio, a doctor, and Guglielma Crollalanza, a Sicilian noble woman.

Does this perhaps begin to explain that many of the plays feature Italy and/or Italian names, such as:

Questa domanda è stata posta agli studenti del Port Arthur Collegiate Institute come parte delle nostre lezioni di inglese. Shakespeare, in quanto italiano dispiantato, dovrebbe spiegare le molte commedie italiane, personaggi con nomi e riferimenti italiani? È stato suggerito che fosse in realtà nato a Messina, in Sicilia, non troppo lontano da Simbario, Catanzaro, come Michelangelo Florio Crollalanza.I suoi genitori non erano John Shakespeare e Mary Arden, ma erano Giovanni Florio, medico, e Guglielma Crollalanza, nobildonna siciliana. Certo, questo comincia a spiegare che molte delle commedie presentano l’Italia e/o nomi italiani, come:

Romeo and Juliet (Romeo e Giulietta)

Othello (Otello)

Two Gentlemen of Verona (Due Signori di Verona)

A Midsummer Night’s Dream (Sogno di una notte di mezz’estate)

The Merchant of Venice (Il Mercante di Venezia)

Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla)

The Taming of the Shrew (La bisbetica domata)

All’s Well that Ends Well (Tutto è bene ciò che finisce bene)

Measure for Measure (Misura per misura)

Julius Caesar (Giulio Cesare)

The Winter’s Tale (Racconto d’Inverno)

The Tempest (La tempesta)

It is rather impressive that Italy and Italian names are so widespread in Shakespeare. It makes you wonder?
(È puittosto impressionante che l’Italia e i nomi italiani siano così diffusi in Shakespeare. Vi meraviglia?)

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A professor in Italy claims that Shakespeare was Italian from Messina Italy.

The Times of London, April 8th, 2000, reported that Martino Iuvara, a retired literature teacher, believes Shakespeare was actually Michelangelo Florio Crollalanza, who escaped to England during the Inquisition.

Shakespeare is supposedly the literal translation of Crollalanza.

Some details of Crollalanza’s life are eerily close to the characters and places that occupy Shakespeare’s plays and might explain the predominance of Italian names and places in many of Shakespeare’s plays.

Un professore in Italia afferma che Shakespeare era italiano di Messina, Italia. Il Times di Londra, l’8 aprile 2000, riferì che Martino Iuvara, un insegnante di lettere in pensione, crede che Shakespeare fosse in realtà Michelangelo Florio Crollalanza, fuggito in Inghilterra durante l’Inquisizione. Shakespeare è presumibilmente la traduzione letterale di Crollalanza. Alcuni dettagli della vita di Crollalanza sono stranamente vicini ai personaggi e ai luoghi che occupano le opere di Shakespeare e potrebbero spiegare la predominanza di nomi e luoghi italiani in molte delle opere di Shakespeare.

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In another write up the author, Amanda Mabillard writes the following:

“Retired Sicilian professor Martino Iuvara claims that Shakespeare was, in fact, not English at all, but Italian. His conclusion is drawn from research carried out from 1925 to 1950 by two professors at Palermo University. Iuvara imposits that Shakespeare was born in Stratford in April 1564, as is commonly believed, but actually was born in Messina as Michelangelo Florio Crollalanza. His parents were not John Shakespeare and Mary Arden, but Giovanni Florio, a doctor, and Guglielma Crollalanza, a Sicilian noblewoman. The family supposedly fled Italy during the Holy Inquisition and moved to London. It was in London that Michelangelo Florio Crollalanza decided to change his name to its English equivalent. Crollalanza apparently translates literally as “Shakespeare”. Iuvara goes on to claim that Shakespeare studied abroad and was educated by Franciscan monks who taugt him Latin. Greek and History. He also claims that while Shakespeare (or young Crollalanza) was traveling through Europe he fell in love with a 16-year-old girl named Giulietta. But sadly, family members opposed the union, and Giulietta committed suicide…”

She goes on to write, “Granted, the above similarities between Michelangelo Florio Crollalanza and Shakespeare are intriguing, but for now I remain unconvinced”.

The question was posed to us as student at Port Arthur Collegiate Institute as part of our English exam questions, and it appears the internet will hopefully bring to light some of the details surrounding the origins of these plays.”

In un altro scritto dell’autrice, Amanda Mabillard scrive quanto segue: “Il professore siciliano in pensione Martino Iuvara afferma che Shakespeare, in realtà, non era affatto inglese, ma italiano. La sua conclusione è tratta da una ricerca condotta dal 1925 al 1950 da due professori all’Università di Palermo. Iuvara ipotizza che Shakespeare sia nato a Stratford nell’aprile del 1564, come si crede comunemente, ma in realtà sia nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza. I suoi genitori non erano John Shakespeare e Mary Arden, ma Giovanni Florio, medico, e Guglielma Crollalanza, una nobildonna siciliana. La famiglia sarebbe fuggita dall’Italia durante la Santa Inquisizione e si sarebbe trasferita a Londra. Fu a Londra che Michelangelo Florio Crollalanza decise di cambiare il suo nome con l’equivalente inglese. Crollalanza si traduce letteralmente come “Shakespeare”. Iuvara continua ad affermare che Shakespeare ha studiato all’estero ed è stato educato da monaci francescani che gli hanno insegnato il latino, il greco e la storia; afferma inoltre che mentre Shakespeare (o giovane Crollalanza) viaggiava per l’Europa si innamorò di una ragazza di 16 anni di nome Giulietta. Ma purtroppo i membri della famiglia si sono opposti all’unione e Giulietta si è suicidata…” Continua scrivendo: “Certo, le somiglianze di cui sopra tra Michelangelo Florio Crollalanza e Shakespeare sono intriganti, ma per ora rimango poco convinta”.
La domanda è stata posta a noi come studenti al Port Arthur Collegiate Institute come parte delle nostre domande d’esame di inglese, e sembra che Internet possa portare alla luce alcuni dei dettagli che circondano le origini di queste commedie”.

D’ altra parte il prof. Iuvara completa il proprio pensiero con molti altri elementi conoscitivi che danno impulso a logici nessi e riscontri di una corretta riflessione. Così egli si chiede: come può il figlio di un guantaio, come la storia vuol farci credere, disporre di quelle amplissime cognizioni della letteratura classica che Shakespeare dimostrò di possedere? Come avrebbe potuto un poeta inglese di quell’epoca descrivere così fedelmente luoghi, paesaggi e persone italiane come in effetti riscontriamo, nè più nè meno, in ben 15 delle 36 opere dell’immenso Shakespeare? E perché la sua biblioteca personale non è mai stata posta a disposizione dei suoi biografi e degli studiosi?

Esistono documenti che dimostrano che Michelangelo Crollalanza era figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza ed è nato a Messina nel 1564. Ha imparato il latino, il greco antico e storia nella scuola dei Francescani. All’età di 15 anni fu costretto a partire insieme alla famiglia per andare nel Veneto, nell’Italia del nord, a causa della fede calvinista dei suoi genitori, che la Sacra Inquisizione aveva condannato al rogo perché suo padre aveva pubblicato delle accuse alla Chiesa Cattolica. Conobbe e s’innamorò di una giovane di nome Giulietta, rapita dal Governatore e poi morta suicida. Quanto alla lingua, le sue prime opere, dopo che si era stabilito in Inghilterra, venivano tradotte in inglese prima di essere presentate sulla scena del teatro di legno “The Globe” (N.d.R. : a quel tempo le compagnie teatrali viaggiavano su un carro di legno che fungeva anche da scena). Successivamente, era sua moglie inglese che si occupava delle traduzioni, mentre i suoi stessi biografi dell’epoca riscontravano in Shakespeare una pronuncia chiaramente straniera.

E il prof. Iuvara conclude: “Credo che nessuno mai in Inghilterra ha avuto il coraggio di rendere pubblica la biblioteca personale di Shakespeare. In essa potremmo conoscere la sua vera identità. Certo, capisco la reazione degli Inglesi. È come se all’improvviso qualcuno dicesse a noi, ad esempio, che Dante era in realtà spagnolo!”

La teoria del professor Iuvara fu pubblicata in Italia in volume col titolo “Shakespeare era italiano”.

A queste riflessioni che invero non sembrano essere affatto peregrine, tra il XIX e il XX secolo diverse ipotesi furono avanzate circa una identità di persona tra William Shakespeare e John o Giovanni Florio. Così, a seguito di tali esegesi sembrerebbe essersi generata una combinazione o promiscuità tra Michelangelo Florio e Giovanni Florio, nella quale ovviamente si confonde anche l’elemento temporale trattandosi di due personaggi, comunque vengano collocati, vissuti in archi di tempo chiaramente diversi.

Entro queste linee direttive, in ogni modo, verso la fine del 1800 Thomas Spencer Baynes, curatore della IX edizione della Enciclopedia Britannica evidenziò in maniera esauriente i rapporti intercorsi tra un Shakespeare e un Giovanni Florio, linguista di origine italiana.

Il testo di Baynes – val la pena di rilevare – fu del tutto eliminato a partire dalla XI edizione dell’Enciclopedia! Strano?

A parte tutto, comunque, la presenza in Inghilterra di John Florio è documentata dalle ricerche di John Harding sulle relazioni Florio-Shakespeare. A proposito, questo studioso affermava (e ne danno conferma la figlia Julie Harding e il prosatore Saul Gerevini, autore del saggio William Shakespeare, ovvero John Florio: un fiorentino alla conquista del mondo) che intorno al 1584 Florio firmava con lo pseudonimo “John Soowthern”, ossia “Giovanni che viene dal sud”, piuttosto dal sud dell’Italia!

Più tardi (1921) la statunitense Clara Longworth de Chambrum e la britannica Frances Yates (1934) si soffermarono su questa ipotizzata ma mai chiarita “coesistenza” e perfino “identità” tra un Shakespeare inglese e un Florio italiano.

L’interconnessione tra Michelangelo e Giovanni Florio viene “rivisitata” nel 2010 dal docente presso l’Università di Montreal, Lamberto Tassinari: “Semplicemente fanno finta di non vedere che John Florio è l’autore delle opere di Shakespeare! Florio ha dato a Shakespeare così numerose parole, idee e conoscenze che debitore e creditore sono diventati uno” (intervista di L. Tassinari in www.bibliosofia.net/MichaelMirolla_interviewInteressante è anche www.shakespeareandflorio.net

Lo stesso Tassinari comunque due anni prima (2008) aveva provveduto a rendere note nel migliore dei modi le sue ricerche pubblicando il libro Shakespeare? È il nome d’arte di John Florio. Vale la pena, credo, riportare alcune considerazioni espresse nel predetto volume: ” Il ‘William Shakespeare’, gestore di una compagnia teatrale e uomo d’affari poco scrupoloso, dedito persino all’usura, nato in una famiglia di semianalfabeti e a sua volta genitore di figli incolti, vissuto in un ambiente ineducato e grezzo, e autore, questa volta accertato, di un testamento sgrammaticato, sarebbe, secondo gli scettici, un puro prestanome dietro il quale si celerebbe qualcuno dalla mente superiore e dalle esperienze culturali e di vita ben altrimenti più ricche”.

3.

Un altro scrittore e studioso italiano, Oreste Palomara, proseguendo sul cammino di Martino Iuvara, formula altri elementi che integrano il puzzle della presenza del drammaturgo “italo-inglese”. Palomara esamina le posteriori costruzioni biografiche e apprende che egli era il terzo di otto figli di John Shakespeare. William Shakespeare però dappertutto in Inghilterra compare già adulto, affermato poeta e scrittore drammatico, anche se egli stesso cerca, piuttosto ingiustificatamente a ben pensarci, di accentuare un alone di mistero intorno a sé, come se volesse nascondersi dietro di esso.

Un simile comportamento veniva forse tenuto per non farsi molto probabilmente individuare dai suoi persecutori i quali, già alcuni anni prima, avevano eliminato suo padre Giovanni Florio e sua madre Guglielma Crollalanza in Italia e stavano cercando anche lui? A parte il fatto poi che non esiste da nessuna parte nessun ricordo o traccia degli altri (ben) sette fratelli: come se non fossero mai esistiti!

Il mistero diventa più denso con la presenza di alcuni altri particolari che non sembrano essere tanto insignificanti, e cioè:

a) nei registri della scuola secondaria a Stratford non esiste nessuno con il nome di Shakespeare;

b) nel 1603 il nome di Shakespeare sparisce dai registri degli attori, forse per far perdere qualsiasi traccia che potrebbe aiutare i suoi persecutori della Sacra Inquisizione;

c) sappiamo che William Shakespeare frequentava a Londra un Club In. In questo Club In non risulta nessun membro con questo nome. Esiste però scritto il nome di Michelangelo Florio.

Ora, indipendentemente da tutti gli elementi sin qui esaminati, elementi che dimostrano situazioni personali ed obbiettivi criteri di conoscenza che nessuno può disconoscere o rifiutare acriticamente, esistono altresì altri dati il riconoscimento dei quali non deve considerarsi per nulla né irrilevante né superfluo.

I drammi di Shakespeare rivelano una eccezionale esperienza mondana. Il poeta conosceva molto bene la scienza giuridica e abbondantemente ha utilizzato termini legali e le corrispondenti procedure espressive. Peraltro, nel 1860 John Bucknill scrisse che Shakespeare conosceva a fondo la scienza medica (“Medical knowledge of Shakespeare”). Parimenti egli era in possesso di estese cognizioni venatorie, di addestramento degli avvoltoi, come pure di altri sport, ma anche delle regole del cerimoniale di Corte.

Lo storico John Mitchell riconosce che Shakespeare è “lo scrittore che sapeva tutto”! Nelle sue opere, in cinque casi, parla di naufragi e il fatto che utilizzi una ben precisa terminologia nautica presuppone che abbia studiato l’arte marinara o sia stato egli stesso un esperto marinaio. Ha fors’anche partecipato alla battaglia navale nella quale fu distrutta l’ Invincible Armada spagnola nel 1588?

Tutto ciò non compare nella vita del drammaturgo attraverso le biografie. Lo stesso accade anche con le sue cospicue conoscenze nelle questioni militari e nell’idioma linguistico dei fantaccini. Gli elementi biografici inglesi che disponiamo non rivelano l’esistenza di ampie e speciali cognizioni in questo Shakespeare “inglese”, peraltro già di ignote disposizioni e successi scolastici.

Certo, nelle opere di Shakespeare non mancano altresì i riferimenti a passi biblici aventi un notevole peso specifico nei relativi racconti e trame: l'”italiano” Crollalanza-Shakespeare è molto probabile che ne abbia avuto l’insegnamento da parte della madre, istruita, nel quadro della sua fede calvinista. Al contrario, nessuna prova esiste, né mai è stata avanzata l’ipotesi che sua madre “inglese” fosse istruita e abbia potuto insegnare alcunché ai propri figli.

Quanto poi al padre “inglese” di Shakespeare, John era un guantaio, come più sopra ricordato, forse pure macellaio e cuoiaio, ovvero un cittadino onesto e rispettabile quanto si voglia, ma ignorante (analfabeta?). Il padre “italiano”, Giovanni Florio (anche lui John/Giovanni!), era invece un noto medico a Messina, mentre la madre discendeva da una nobile famiglia siciliana e di certo era istruita, come allora e sempre sono soliti essere le nobili casate.

Collegando quindi i predetti elementi, si pone la questione dell’istruzione e della cultura di Shakespeare. Viene naturale pensare che nel caso del Shakespeare “inglese”, considerata la generale istruzione (o, forse, non-istruzione?) familiare e le obbiettive condizioni e situazioni di vita sociale in un villaggio come Stratford nella prima metà del 1500, le probabilità di una importante istruzione sono quasi nulle, come d’altronde se ne ha la conferma vista la parallela relativa inesistenza anche nelle esposizioni biografiche.

Al contrario, nel caso dell'”italiano” Crollalanza e tenuto conto della cultura dei suoi genitori e dell’elevato livello familiare oltre che degli studi compiuti dal giovane Michelangelo in Italia, le grandi, incredibili cognizioni manifestate dal successivo William Shakespeare, un nome che è l’esatta traduzione letterale del corrispondente italiano, appaiono assolutamente giustificate e certificate.

In tal modo quando Michel Agnolo-Michelangelo Florio Crollalanza divenne William Shakespeare in Inghilterra si riferiva a qualcuno che già in Italia non era semplicemente istruito, ma totalmente in possesso di un’istruzione enciclopedica con profonde radici nella cultura, storia, tradizioni, realtà italiane per non dire specialmente della natìa Messina in Sicilia, come palesemente testimoniano almeno due “circostanze” connesse con l’opera dello stesso Shakespeare, ossia:

a) la commedia Molto rumore per nulla (Much Ado about Nothing) altro non è se non l’adattamento posteriore della commedia che Michelangelo Florio Crollalanza aveva scritto circa vent’anni prima, in giovanissima età, in dialetto messinese e col titolo Troppo trafficu ppi nnenti;

b) nella stessa commedia Shakespeare utilizza molti doppi sensi ed espressioni caratteristiche che solo a Messina avrebbero potuto essere udite. In questo contesto, una tipica espressione è anche la parola “mizzica”, che solo un siciliano potrebbe conoscere e dire!

c) Messina è presente anche nel Racconto d’inverno. E certo, parlando di Messina verso la metà del Cinquecento, non si fa altro che ricordare una città in quell’epoca più grande di Londra, una delle capitali del Rinascimento con un fiorente commercio e costruzioni in muratura (e non in legno), acquedotto sotterraneo, Università fondata da S. Ignazio di Loyola e una flotta di navi commerciali e “da corsa”.

D’altro canto, e più particolarmente, nell’atto terzo, scena seconda, Don Pedro dice una frase che per gli Inglesi è un rebus: “The shell be buried with her face upwords”, ossia: “Dovrebbero seppellirla con la faccia in su”. Che strano! Tutti vengono seppelliti così. Sì, però a Messina con l’espressione “ca nasca addrittu” (col naso in su) intendono indicare una persona arrogante, superba, o anche semplicemente fiera. E nel caso specifico significa appunto che Beatrice era rimasta fiera/superba anche dopo morta!

Ancora, nell’atto terzo, scena terza, si trova la frase “…next morning at the temple, and there, before the wole congregation shame her…”, cioè “domani mattina nel tempio, e lì, davanti all’intera congregazione religiosa la svergognerai…”. Qui, il particolare sta nel fatto che non di una chiesa si tratta, ma di un antico tempio greco ceduto alla Congregazione dei Sacerdoti Catechisti. Un inglese che nel XVI secolo abitava in un paese lontano 3000 chilometri come avrebbe potuto conoscere una tanto “locale” particolarità? Piuttosto improbabile.

Infine, nell’atto quarto, scena prima, Beatrice utilizza una tipica espressione del dialetto parlato a Messina: “ti manciu ‘u cori”(ti mangerò il cuore), “tradotta” in inglese in “I will eat you heart”. Ma nella comune parlata inglese ha forse un senso?

Tutto questo ed altro ancora sparso nell’opera di Shakespeare, e poi una così profonda conoscenza della scena, della lingua, dell’arte teatrale italiana, come pure la sorprendente familiarità con paesaggi e città italiane, costituisce sicuramente il più logico e maggior segno distintivo più di uno scrittore italiano che inglese!

4.

Il drammaturgo Ben(jamin) Jonson, amico di William, gli addebitava “una insufficiente conoscenza della lingua latina e ancor più di quella greca”, volendo piuttosto descrivere la sua elementare istruzione, d’altronde confermata anche dagli inesistenti dati personali e scolastici presso gli istituti di istruzione primaria e secondaria di Stratford, di Londra e altrove in Inghilterra (eventualmente), mentre è assodato che Shakespeare non ha studiato né a Cambridge né a Oxford né in altra Università inglese o straniera.

Un parere come quello di Ben Jonson non si accorda certamente con la onniscienza di uno scrittore che conosceva alla perfezione i classici Latini e Greci, la letteratura e, con molta probabilità, anche le lingue italiana, francese e spagnola.

Sappiamo che il giovane Michelangelo Florio Crollalanza aveva dimostrato sin da ragazzo speciali capacità nelle lettere (l’opera Molto rumore per nulla sembra che l’abbia scritta a 15 anni, poco prima di abbandonare Messina), ciò che in nessun modo risulta ad un ragazzo inglese chiamato William Shakespeare, del quale sono “ignoti” proprio gli anni della carriera scolastica! Il suo vocabolario era sorprendentemente ricco. Quando un poeta come John Milton, nel XVIII secolo, utilizza circa 8000 parole nelle sue opere, cosa dire di Shakespeare che, come consta, ha utilizzato circa 24000 parole(e per altri, addirittura 29000)! E non deve sfuggire il fatto che Shakespeare ha altresì “inventato” moltissime parole ed espressioni arricchendo così la lingua inglese.

Non so se colui che è riuscito a produrre tante “invenzioni verbali” è l'”inglese” Shakespeare di cui nessun accenno sussiste nei registri delle scuole che “dicono” aver frequentato oppure l'”italiano” Michelangelo Crollalanza/Shaskespeare i cui studi risultano in accertati dati di istruzione e testimonianze.

5.

A questo punto non sarebbe oziosa una integrazione argomentativa in base alla quale si suppone o si dimostra l’origine messinese di Shakespeare o, comunque, italiana.

I dati comprovanti sono i seguenti:

A. Nell’ Amleto compaiono i due studenti danesi, Rosenkrantz e Guildenstein, che furono compagni di studio di Michelangelo Florio Crollalanza all’Università di Padova;

B. Sempre nell’Amleto vengono recitati molti proverbi che anni prima Michelangelo Florio aveva pubblicato in Italia in un libro dal titolo I secondi frutti;

C. Nel Mercante di Venezia il “colore” locale viene riprodotto in maniera stupefacente: perfette espressioni marinare si trovano in bocca a Salerio e Salanio – viene fatto riferimento al battello che collega Venezia alla terraferma – compare l’esatta traduzione in inglese, Belmont, del sobborgo veneziano di Montebello;

D. Nel Romeo e Giulietta Shakespeare realizza una poetica rappresentazione della propria storia d’amore vissuta in gioventù in Italia;

E. Ancora nel Mercante di Venezia la conoscenza della legislazione veneziana è perfetta, una legislazione del tutto diversa da quella allora vigente in Inghilterra – il maestro Bellario del testo teatrale corrisponde assolutamente ad un personaggio davvero esistente e molto noto negli ambienti giuridici di Padova, il professor Ottonello Discalzio;

F. In molte opere, teatrali e poetiche, si riscontrano fonti chiaramente italiane (Boccaccio, Ariosto, Bandello, Castiglione, Giraldi Cinzio), come pure reminiscenze della Commedia dell’Arte;

G. Shakespeare possedeva ugualmente una buona conoscenza della storia romana e sapeva che Pompeo una volta (nel 36 a.C.) era rimasto a Messina. Così, nell’opera Antonio e Cleopatra si riferisce alla casa di Pompeo a Messina ed è esattamente in questa casa che si svolge la trama del secondo atto, scena prima: “Messina. nella casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Mena in assetto di guerra”;

H. Non mancano altresì rifacimenti di idee di Plauto, Seneca e Plutarco;

I. È evidente l’ispirazione italiana nelle opere Much Ado about NothingTwelfth Night e All’s Well That Ends Well. D’ altra parte Shakespeare è l’unico scrittore inglese che conosca alla perfezione tante cose dell’Italia malgrado che non esista da nessuna parte nessun indizio secondo cui egli si sia recato e sopra tutto vi abbia vissuto, poco o a lungo, imparando tutto quello che sapeva;

L. In merito alla morte di Shakespeare, Richard Davis nel 1700 ebbe a scrivere: “He died a papist”, cioè “è morto da cattolico”. È una frase assai rivelatrice, nel senso che, mentre egli era calvinista (e Michelangelo Florio Crollalanza era calvinista), prima di morire divenne e morì cattolico, un cambio di fede religiosa piuttosto molto più difficile che accadesse, per evidenti motivi di vario genere, presso un inglese che non un italiano;

M. “I biografi suppongono che Shakespeare abbia accumulato le sue enormi conoscenze e la sua accurata familiarità con le maniere, il gergo e gli usi della professione forense dopo essere stato egli stesso per un breve periodo impiegato al tribunale di Stratford. Adesso, a parte il fatto che una simile ipotesi inciampa nella assoluta inesistenza di corrispondenti elementi nei registri giudiziari della cittadina, appare anche inammissibilmente molto ingenua, giacché è come se si dicesse che un giovanotto sveglio come me, cresciuto in un villaggetto sulle sponde del Mississippi, avrebbe potuto sviluppare una perfetta conoscenza della caccia alla balena nello stretto di Behring oppure imparare gli idiomatismi espressivi dei vecchi pescatori semplicemente pescando pesci-gatto qualche domenica(…).” (Mark Twain in Is Shakespeare really dead?, 1909″);

N. D’altra parte, se ve ne fosse bisogno, il predetto storico John Mitchell citando appunto l’espressione usata da Mark Twain nel suo libro del 1909, dice, volendo con ciò molto intendere: “I dati che sono noti sulla vita di Shakespeare possono riempire una sola facciata di un foglietto per appunti”

O. Quando Shakespeare morì il 23 aprile 1616, la sua morte non provocò nessuna commozione, né fu ordinato alcun lutto nazionale o locale in Inghilterra, come logicamente ci saremmo aspettati che accadesse per un letterato inglese tanto grande e illustre. L’avvenimento passò come se il drammaturgo fosse uno straniero!;

P. La scuola o le scuole dove l'”inglese” Shakespeare dicono che abbia studiato, costituiscono oggetto di semplici indizi. Non esiste nessuna certezza e prova al riguardo;

Q. Vi sono molti studiosi che si pongono degli interrogativi in merito al trattino che spesso appare al nome di Shakespeare: Shake-speare – e non sono pochi coloro che credono che tale nome sia piuttosto uno pseudonimo, come appare sul frontespizio dei Sonetti nel 1609.

A parte però questo, un aspetto peraltro secondario della generale “questione Shakespeare”, nelle 32 edizioni delle opere di Shakespeare realizzate prima del First Folio del 1633, le 15 hanno il nome col trattino. È questa una importante indicazione, come ampiamente si ritiene, che riverbera la “versione” del cognome composto [crolla=shake, lanza(lancia)=speare] che il suo proprietario, traducendolo in inglese, ha particolarmente voluto evidenziare essendo egli straniero (un autoctono inglese non avrebbe avuto di certo nessuna ragione di dividere in due il proprio cognome per quanto stravagante potesse egli essere!);

R. Osservando i (pochi) ritratti di Shakespeare, non si può non notare che il suo volto è assai diverso da quello di un inglese medio. Sembra piuttosto essere il tipico viso di un abitante dell’Europa del sud. Già un suo contemporaneo, di nome Harwei, accennava apertamente alla sua origine italiana.

6.

Tutte le proprietà di Shakespeare sono analiticamente inventariate nelle tre pagine del suo testamento, tutte tranne i suoi libri e i suoi manoscritti. Come se non esistessero nè libri nè manoscritti! Forse che i libri li ha presi la figlia maggiore Susan? Quand’anche però fosse così, non li avrebbero poi spartiti tra di loro tutti gli eredi? Ma anche questa eventualità non sembra che sia avvenuta.

Un sacerdote, un certo James Wilmot, a quanto pare, volle nel 1785 controllare tutte le biblioteche private entro un raggio di 80 chilometri intorno a Stratford-on-Avon: non vi trovò nessun libro appartenente a Shakespeare! Ne ricavò, tra l’altro, forti dubbi sulla paternità di quest’ultimo in merito alle opere attribuitegli.

Quanto ai manoscritti, il problema è ancora più complicato e difficile. Secondo ciò che risulta dalle ricerche sinora effettuate, non esiste nessun manoscritto originale delle 36 opere di Shakespeare! Sono tutte copie. Per il resto, per quanto si conosca, molte edizioni non autorizzate di sue opere avevano avuto luogo quando egli era ancora in vita, sotto il nome di Shakespeare, senza mai che lo stesso interessato si sia opposto in via giudiziaria per impedire o vietare le edizioni clandestine. E allora nulla vieta nutrire il parere secondo cui tale mancanza di reazione potesse anche nascondere o rivelasse la volontà di apparire ed essere quindi sempre più conosciuto con il cognome di Shakespeare (o Shake-speare, come visto più sopra) al fine di “far sparire” il vero, rivelatore di presenza, cognome Crollalanza o Florio.

D’altronde, la sparizione di tutti i libri e manoscritti di Shakespeare già non molto dopo la sua morte e il parallelo, oggidì, rifiuto di rendere pubblica una biblioteca personale che sicuramente esisteva e che viene adesso con molta probabilità custodita in un luogo di competenza statale (fors’anche già da allora, dal XVII secolo), non può che apparire perlomeno strano, se non sospetto.

Al riguardo non è senza interesse sapere che il professor Martino Iuvara nel maggio del 2000 aveva inviato una lettera alla regina Elisabetta nella quale, tra l’altro, scriveva: “La provata prova dell’identità del maggior drammaturgo di tutti i tempi può trovarsi, quasi esclusivamente, nella sua biblioteca (…) la quale finora rimane nascosta a tutti (molto probabilmente per motivi nazionalistici), la quale però avrebbe dovuto, per amore verso la verità storica (ciò che dovrebbe porsi al di sopra di ogni calcolo) essere messa, con coraggio e saggezza, almeno alla disposizione degli studiosi.

E naturalmente auspicando che, durante questi quattro secoli che sono passati(1616-2000) alcuni malvagi supernazionalisti non abbiano voluto distruggere per sempre qualsiasi prova determinativa della non anglicità del grande Genio che comunque sia, inglese o meno, farà sempre parte della universale eredità culturale”.

Va da sé che non ha ricevuto nessuna risposta! Nel 2002 poi inviò la medesima lettera all’allora Primo Ministro Tony Blair. E come era da aspettarsi, neanche questa volta ci fu una risposta! Per cui nessuno può non considerare la possibilità che finalmente questa “biblioteca” nasconda pochi o molti “scheletri”.

In ogni modo tutto questo silenzio, l’evidente volontà e, perché no?, insistenza di tenere nell’oscurità una tematica le cui componenti vi sono ancora alcuni – che non devono essere pochi – che non sono pronti ad (o hanno paura di) affrontare qualunque sconvolgente sviluppo possano esse creare, mi domando fino a quando potrà o deve continuare.

Se in effetti la mancanza di buona disposizione da parte degli inglesi per un chiarimento della “questione shakespeariana” significa che ha ragione il prof. Iuvara ed esistono veramente elementi che dimostrino che Michelangelo Crollalanza è William Shakespeare oppure che la “storia” di Shakespeare tessuta da Iuvara è sicuramente vera, allora è comprensibile la posizione negativa di coloro i quali tutto hanno da perdere e nulla da guadagnare. Se invece le prove che cerca il prof. Iuvara non esistono o non esistono più perché, nel passato o recentemente, qualcuno o alcuni hanno provveduto a farli sparire eliminando in tal modo qualsiasi rischio di “nazionale, razziale disfatta letteraria” per gli inglesi e la Gran Bretagna, il rifiuto di rendere pubblica la biblioteca personale di Shakespeare (la quale, secondo quanto riferiscono gli studiosi, era composta da 340 volumi e forse vi si trovava anche una biografia vera, lasciata poi a Lord Pembroke) appare senza dubbio incomprensibile, tranne che vi siano altri lati oscuri della questione che costituiscono una specie di “segreto statale”.

In entrambi i casi l’occultamento non può che essere interpretato come precisa, irrinunciabile intenzione di “seppellire” la “questione Shakespeare” perché esiste qualche interesse molto particolare, direi inconfessabile, addirittura “drammatico”, di mantenere simile comportamento.

Rimane pertanto a mezz’aria una ragionevole domanda: sussiste, mutatis mutandis, una “questione shakespeariana” analoga alla “questione omerica”? Sembrerebbe di sì. Tra un Shakespeare “inglese” e un Shakespeare (Crollalanza) “italiano” si muovono molti altri personaggi e maschere con “diritto” di paternità sulle opere di uno “spettro” Shakespeare: Christofer Marlowe, il cardinale Wolsey, sir Walter Raleigh, Francis Bacon, Edward de Vere, 17o conte di Oxford, Roger Mannors, quinto conte di Ruthland, Robert Devereux, William Stanley, sesto conte di derby, perfino la regina Elisabetta!

Per cui non è più di tanto assurdo che gli Inglesi interessati abbiano appositamente “inventato” e “diffuso” tutti questi “candidati Shakespeare”, tutti, guarda caso, diligentemente e strettamente inglesi, al fine di “coprire”, annullare, addirittura esorcizzare la fastidiosa per la nazione inglese incombenza di un creatore non inglese di tanti straordinari capolavori.

È quello che in sostanza ha detto anche lo scrittore Jonathan Bate alcuni anni fa: “Il rilievo che le opere di Shakespeare siano state scritte da Florio è più facile da confutare che non l’attribuzione di esse ad un qualunque aristocratico (inglese). E siccome Florio non era inglese, la sua candidatura non ha mai potuto avere molto successo. Tranne naturalmente che in Italia…”

E la situazione diventa ancor più complicata quando anche la nota World Book Encyclopedia osserva che il popolo “rifiutava di credere che l’attore di Stratford-on-Avon avrebbe potuto averli scritti lui”. “Le origini contadine di Shakespeare non corrispondevano alla figura del Genio che ha scritto i drammi”, perché “solo un uomo colto, raffinato, di elevata classe sociale avrebbe avuto la capacità di comporre i drammi”.

Viene allora spontaneo ricordarsi le parole di Borges: “È strano, ma i paesi scelgono individui che non gli somigliano molto. Si pensi per esempio che l’Inghilterra ha scelto Shakespeare e che Shakespeare è, si può dire, il meno inglese degli scrittori inglesi(…) e non ci sorprenderebbe che sia stato italiano o ebreo”

Di conseguenza avviene che si debba qui affrontare una delle più difficili verità: e quanto più grande è questa verità, tanto più difficilmente viene detta e facilmente viene nascosta perché, ove uscita di bocca, il rumore provocato verrebbe ad essere, dolorosamente o gioiosamente (dipende dalle parti in causa) proprio assordante e variamente destrutturante.

Il quid dell’autore chiamato William Shakespeare non è posto in discussione solo dagli Italiani, ma anche dagli stessi Inglesi, sia pure alla luce di una diversa ottica di sostanza.

Così, mentre gli Italiani mettono in dubbio l’esistenza e la nazionalità dello scrittore, gli Inglesi non tanto mettono in dubbio la sua esistenza, malgrado le palesi, enormi lacune, quanto la paternità delle sue opere. In questa negazione, nondimeno, si dimostrano “patriotticamente” sciovinisti, visto che tutti i “candidati” alla incerta esistenza e alla paternità della sua produzione letteraria sono tutti inglesi e nessuno straniero.

Ecco quindi perché i “dubbi inglesi” per la “verità” di un autore inglese sono, per gli stessi inglesi, enormemente più “digeribili” e in sostanza anodini e senza ferite al contrario dei “dubbi italiani” che colpiscono invece il cruciale segno della nazionalità annullando tutto il prestigio e rinomanza che a tale nazionalità ne sono derivati e ne derivano ancora. Cioè una prospettiva assolutamente e in tutti i modi inaccettabile!

In ogni caso, a conferma dei sillogismi e delle prove contenute nella presente esposizione relativamente a Shakespeare, la sua vita e la sua opera, nella recentissima pubblicazione di Bill Bryson, Shakespeare. The World as Stage, 2007, le risultanze delle indagini svolte dallo scrittore convergono alle stesse conclusioni sin qui espresse, ovvero, per sommi capi:

1) “Almeno 200 anni fa lo storico George Stevens osservò che tutto quello che conosciamo di W.S. si limita ad alcuni eventi sparsi”. Di conseguenza si deduce che essi sono del tutto inutili e inutilizzabili per una giusta valutazione dell'”ipotesi Shakespeare”;

2) “Non siamo sicuri della corretta grafia del suo nome, ma, come pare, neanche egli stesso ne era sicuro perché nelle firme che di lui possediamo, il nome neanche due volte risulta scritto allo stesso modo”. Anche questa quindi un’indicazione del fatto che il Shakespeare “inglese” non doveva poi essere granché a conoscenza del suo stesso nome;

3) “Solo per pochissimi giorni della sua vita possiamo dire con certezza dove si trovasse”. La torbidezza e inesistenza del paesaggio nello Shakespeare inglese rimane immutabile e per nulla reversibile;

4) “Parecchi ricercatori ogni tanto sostengono che le opere di Shakespeare sono state scritte da qualcun altro”. E chi sarebbe? Uno dei tanti inglesi senza prove o l’unico italiano con assai plausibili elementi documentali e testimoniali?;

5) “Ancor oggi Shakespeare resta una ostinazione accademica più che un personaggio storico”.

Quest’ultima constatazione abolisce certamente qualsiasi conclusione e qualsiasi rappresentazione che i biografi inglesi avrebbero potuto inventare per rendere in carne ed ossa un loro compatriota che da ogni parte “sfugge” e piuttosto provoca l’invincibile sentimento di essere una vera e propria invenzione. E piuttosto altresì si tratta di un ben congegnato intrigo teso alla “creazione” quasi dal nulla di un super-scrittore inglese, un super-drammaturgo il quale in realtà o non è mai vissuto o nasconde la propria insufficienza dietro a qualcuno la cui esistenza sarebbe estremamente spregevole alla riputazione, orgoglio e arroganza etnica inglese.

E ovviamente allora, in ultima analisi, nulla esclude – per quanto ciò appaia irreale: ma quante volte la realtà supera la più sfrenata immaginazione?! – l’esistenza di una gigantesca diacronica macchinazione (imbroglio/impostura) delle istituzioni inglesi, statali e non, ai fini della conservazione della fama di una così eccezionale produzione letteraria (inglese) che, altrimenti, se dovesse essere smentita, potrebbe fondatamente provocare incalcolabili contraccolpi non solo nella società britannica, ma nella stessa sostanza dell’entità britannica, tanto esaltata dal possedere uno Shakespeare da non esitare a definirlo Our English Homer!(Henry Stratford Caldecott).

Alla fin fine, dunque, checché se ne dica, la più obbiettiva constatazione non può che fissare il seguente stato di cose:

a) la figura di W.S. che conosciamo è sempre, e direi irrimediabilmente, avvolta in un alone di assoluta incertezza e ambiguità. Val bene riferirsi qui, questa volta in relazione allo stesso Shakespeare, alla famosa esclamazione di Amleto: To be or not to be: that is the question!;

b) per parte italiana le ipotesi avanzate presentano molti aspetti positivi di verosimiglianza che potrebbero anche giungere fino alla soluzione di verità;

c) per parte inglese la collocazione del personaggio chiamato William Shakespeare è posta su illazioni non provate e su flagranti assenze di fondamentali dati personali, che tutti ammettono e nessuno può escludere;

d) sì che, concludendo, fino a quando non verranno alla luce (se mai esistono per venire alla luce) elementi di perfetto valore probativo a conferma della “realtà inglese” del personaggio W.S., le attuali risultanze biografiche dello stesso, che perfino non pochi autori inglesi e non solo ritengono fallaci e inattendibili, in nessun modo possono far testo prolungando presso la collettività letteraria internazionale l’illusorietà di uno scrittore completamente privo di convincenti contorni identificativi.

Ci si trova davanti alla vera assurdità di un complesso di 36 capolavori della letteratura il cui autore nessuno, ma nessuno può provare che sia davvero mai esistito. Parafrasando, potremmo dire: “(Trenta)sei opere in cerca di autore”!

Di conseguenza, gli esiti delle indagini teoriche e pratiche avanzate dagli studiosi italiani a favore della nazionalità italiana di William Shakespeare rimangono i soli validi a tutti gli effetti e possono sollevare i veli del dubbio che sinora hanno coperto il relativo “caso”. E allora credo io, non solo, ma tutti penso siano dello stesso parere, che le cose vadano dette con il loro vero nome.

E certamente non concordo con le conclusioni assolutamente pilatesche e irragionevoli di Giuseppe Provenzale, riportate in sunto nel quotidiano messinese online Tempo Stretto del 5.11.2012, quando nega (No!) che, quanto riferito a Shakespeare/Florio basti “per avvicinare i due personaggi e dimostrarne l’origine messinese” adducendo motivazioni davvero puerili e indegne di una città storica come Messina.

In realtà, di conclusioni se ne possono trarre persino troppe – per chi voglia trarne, però! – tenuto conto, com’è doveroso, della perfetta inconsistenza delle argomentazioni biografiche inglesi e del loro assordante silenzio probatorio!

PERCIO’, PER TUTTO QUANTO SIN QUI ARGOMENTATO ED ESPOSTO

È ora che la smettano gli inglesi di mercanteggiare con le culture altrui, farsi belli con i prodotti delle civiltà altrui. È parimenti ora di farla finita con questa civiltà britannica che si dà arie abbellendosi con i beni rubati a civiltà veramente eccelse (v. tutte le opere d’arte egizie; v. i famosi marmi del Partenone; v. le decine di migliaia di papiri di Ossirinco indebitamente tenuti nascosti; v. i capolavori assiri e mesopotamici; v. le opere d’arte cinesi e orientali; v. gli altri tesori messicani, islamici, romani, ecc., tutti rubati o presi con la forza o “comprati” con la frode o senza possibilità di replica dei legittimi possessori).

Quanto al “caso” trattato in queste pagine, se questi stessi inglesi posseggono le inconfutabili prove che Shakespeare è inglese, le esibiscano, le pongano all’esame dei competenti studiosi. E giustizia sarà fatta (non certamente “all’inglese”).

Ma se non hanno nulla di valido, la smettano di nascondersi dietro a fantasticherie, menzogne, dubbi, contraffazioni, illusioni, ruberie e sopra tutto puerili, stolte e insulse ironie. E se quello che posseggono (e finora nascondono) comprova che questo celeberrimo Shakespeare non è per nulla inglese o è un falso inglese a danno di un reale genio straniero – abbiano finalmente l’onestà e il decoro di ammetterlo, rivelando la documentazione che lo attesta, e chiedano scusa per l’immoralità e il comportamento di delinquenza letteraria tenuto sino ad oggi e per aver ingannato spudoratamente il mondo intero.

Se sanno ancora cosa sia l’etica.

Crescenzio Sangiglio

Numero2717.

 

IL  VERO  LEONARDO

 

  • Era il “bastardo” di una famiglia di notai di Vinci. Il padre aveva avuto una relazione con una contadina, Caterina, e il nonno provvide subito a far tacere la cosa.
  • Era molto legato alla madre di cui sentiva spesso la mancanza e cercava di raffigurare nei suoi dipinti. Si dice che l’abbia rivista solo in punto di morte.
  • Nonostante la sua genialità e i buoni uffici del Verrocchio, era un totale analfabeta in greco e latino. Omo sanza littera si definiva. Ciò é dovuto al fatto che i “bastardi” non ricevevano una formazione umanistica.
  • A Firenze fu accusato di sodomia e per poco non finì impiccato, macchia da cui non riuscì mai a liberarsi definitivamente.
  • La sua scarsa cultura, nell’ambiente cosmopolita e raffinato dei Medici, non gli attirò le simpatie del Magnifico. Perciò fu costretto a cercare fortuna altrove.
  • Era un tuttofare: pittore, scienziato, architetto, ingegnere, perfino musico! Organizzava spettacoli e banchetti alla corte ducale.
  • Nonostante fosse il tuttofare del Duca, visse sempre con pochi spicci e dovette sempre chiedere l’elemosina al Moro.
  • Era un instancabile perfezionista. Faceva 50.000 cose diverse allo stesso tempo: continuava a rimandare e rimandare facendo andare su tutte le furie i suoi committenti!
  • Autodidatta e acuto osservatore, ogni mattina usciva di casa a osservare i volti dei passanti che poi disegnava e annotava sul suo taccuino. Le sembianze da lui osservate e disegnate faranno poi da volti agli apostoli del Cenacolo.
  • Così come osservava i volti umani, analizzava accuratamente le specie animali e vegetali. La celebre Vergine delle Rocce contiene centinaia di piante diverse descritte nelle sue analisi.
  • Scriveva rigorosamente da destra a sinistra con la cosiddetta “scrittura speculare”. Per leggere i suoi scritti si serviva di uno specchietto.
  • Quasi nessuno dei suoi discepoli gli rimase fedele. Molti di essi lo abbandonarono o si suicidarono non reggendo il suo carattere oscuro e controverso.
  • Sì dice che di notte andasse nei cimiteri a dissezionare cadaveri per studiare l’anatomia umana. Fu accusato di praticare stregoneria!
  • Il sogno (e l’ossessione) della sua vita era di riuscire a far volare l’uomo come un uccello. Fu preso per pazzo e non riuscì mai a vedere avverate le proprie aspirazioni. Un genio incompreso e un vero precursore del nostro tempo!
  • Morì all’estero, quasi in esilio, accompagnato da pochi fedeli e ormai dimenticato da tutti. Tutta Roma parlava solo di Raffaello mentre nessuno si ricordava del Maestro!
  • Oggi é oggetto della fantasia e della speculazione di autori come Dan Brown, artefice del famoso bestseller Il Codice da Vinci su una fantomatica verità sul Santo Graal e sul Cenacolo vinciano.

Fonte: La vita del più grande genio di tutti i tempi di Dimitri Mereskovskij.

Numero2671.

 

T R E   P A R O L E

 

VERUM = verità                    attiene alla conoscenza

BONUM = bene                   attiene alla morale

PULCHRUM = bello              attiene all’arte

 

…. la vita, in fondo, è tutta qui.

 

Ah, dimenticavo …. c’è anche

FIDES = fede                        attiene alla religiosità, …. per chi ci crede.

 

Numero2628.

 

Da  QUORA

 

I M M A G I N I   P A L E O L I T I C H E

 

La scoperta di disegni rupestri nel nord della Spagna da parte di un team dell’Università di Cambridge suggerisce che anche gli abitanti della preistoria abbiano avuto una serie di demoni interiori, preoccupazioni fastidiose e ansie mentre lottavano con le esigenze della vita in età paleolitica.

Secondo il ricercatore capo Alan Reddy, le immagini trovate sulle pareti calcaree e sul soffitto della grotta risalgono al 14.000 a.C. circa, ed offrono uno spunto sulla situazione psicologica, semisconosciuta, delle popolazioni antiche.

 

N.d.R.: Ammiro estasiato l’eccezionale sintesi stilistica (STILIZZAZIONE) e l’artistica eleganza di queste figure umane di una modernità sconcertante.

Mai viste immagini che, meglio di queste, attraverso la postura corporea, esprimono compiutamente dei sentimenti o stati d’animo.

Numero2571.

 

 

ARTE DI VIVERE 37 consigli/comportamenti

 

🔵 PREMESSA

Con questa Risposta intendo mostrare la mia visione sul tema generale dello sviluppo personale.
Apprendere, migliorarsi, crescere come persona e come componente di una comunità sono fattori determinanti per vivere una vita sana, serena, ricca, partecipe e produttiva per sé e per gli altri, nell’interesse proprio e di tutti, per migliorarsi e migliorare il mondo in cui viviamo.

Qui presento la cornice del quadro generale delle mie riflessioni su come realizzare un tale percorso di crescita personale continua.
Suggerisco, in particolare, 22 consigli a livello dei PENSIERI e 15 al livello delle AZIONI.

Per realizzare una crescita personale continua è consigliabile avviare un percorso di progressivo miglioramento della qualità delle percezioni, delle osservazioni, dell’apprendimento, delle comprensioni, delle interazioni, delle relazioni, delle comunicazioni, delle decisioni, delle azioni.

La via della crescita e del miglioramento personale (da realizzare con impegno, volontà, costanza e pazienza) può essere considerata al tempo stesso infinita, poiché non esiste un limite al miglioramento, ed indefinita, poiché non esiste uno specifico comportamento da ritenere migliore (sempre e in assoluto), ma esiste invece una gamma molto vasta di diverse modalità di comportamento possibili, fra le quali è importante saper individuare (scegliere) ed utilizzare di volta in volta quelle adeguate

  • sia al contesto in cui ci si trova in un certo particolare momento,
  • sia al comportamento contemporaneamente messo in gioco dagli altri attori presenti nello stesso contesto,
  • sia alle specifiche situazioni-problemi di volta in volta da affrontare.

Nella NOTA 1 trovi un approfondimento sulle specifiche capacità/competenze necessarie per realizzare la “crescita personale continua”.

Nella NOTA 2 puoi leggere una descrizione delle modalità pratiche-operative per attuare il ciclo continuo dell’apprendimento da utilizzare lungo questo percorso di crescita personale.

Andando ora direttamente alla descrizione del processo di crescita personale continua, evidenzio che – secondo me – esso deve essere contemporaneamente realizzato a due diversi livelli: nei pensieri e nelle azioni.

Vediamo qui di seguito i due livelli, cominciando dai “pensieri”.

 

22  CONSIGLI  NEI  PENSIERI

  1. Avere presente che le proprie idee e le proprie visioni hanno un valore ed un significato validi solo contestualmente e contingentemente e sono sempre da mettere in dubbio
  2. Sviluppare le proprie capacità di conoscenza e di comprensione come una “rete” (dinamica, aperta e “fluttuante” di interconnessioni) e non come un “edificio” (costruzione cumulativa, statica, lineare ed atomistica di nozioni)
  3. Avere presente l’esistenza dei limiti cognitivi e delle illusioni (distorsioni) cognitive, naturali nella natura umana
  4. Sviluppare l’apprendimento e la capacità di “apprendere ad apprendere”
  5. Sviluppare il proprio “sapere”, “saper fare”, “saper essere-divenire”
  6. Impegnarsi per crescere sia professionalmente che come persona
  7. Cercare di comprendere (esplicitare) quali sono i propri “modelli mentali” e le proprie “aspettative”
  8. Capire il proprio “punto di riferimento” e le proprie “unità di misura”
  9. Ricordarsi che: “non sono le cose in sé a preoccuparci (i fatti), ma le opinioni che noi ci facciamo di esse”
  10. Rendersi conto che concetti e contesti sono costruzioni personali dell’osservatore
  11. Sviluppare disponibilità ed attenzione a percepire sia i cambiamenti già in atto, sia i “segnali deboli” che preannunciano i cambiamenti in arrivo
  12. Avere una visione evolutiva, sistemica, circolare (che evidenzia la presenza di interconnessioni, di feed-back multipli, di ritardi nella manifestazione delle conseguenze derivanti dalle azioni effettuate) e non lineare, che non accetta la tradizionale “visione lineare” di causa-effetto, basata sulla convinzione che esiste sempre una diretta dipendenza “lineare” fra un effetto e la sua causa
  13. Comprendere (esplicitare a se stesso) quali sono: la propria missione, la propria visione, ed i propri “valori” che guidano il comportamento; missione, visione e valori devono essere periodicamente verificati e – se necessario – aggiornati, poiché influenzano profondamente i modelli di comportamento individuali e – inoltre – perché sono i principali strumenti per far fronte al cambiamento, specialmente a quello inaspettato e improvviso
  14. Percepire che ogni verità è solo consensuale, ed è legata ad un certo momento e ad un certo contesto
  15. Ricordare che spesso i problemi restano senza risposta perché per essi si cercano “direttamente” le soluzioni (quelle già pronte, oppure quelle più visibili ed accessibili alle persone che dovrebbero risolverli), invece di cercare – prima – un eventuale punto di vista diverso, attraverso cui considerare il problema sotto una angolazione alternativa, che potrebbe essere quella veramente “risolutiva”
  16. Analizzare i problemi da punti di vista differenti rispetto a quelli secondo cui ci sono stati presentati; in effetti, così come non dovremmo attaccarci al nostro punto di vista, in maniera analoga non dovremmo subire quello che (in modo più o meno evidente, più o meno subdolo) ci viene proposto (imposto) dagli altri
  17. Distinguere il “complicato” (ciò che è “compiegato” e cioè “piegato su se stesso”, da “dispiegare” attraverso la “spiegazione”), dal “complesso” (ciò che è complexus e cioè “intrecciato insieme”, che si dissolve se scomposto nelle sue parti, perché è formato dall’insieme contemporaneo e composito delle stesse)
  18. Sviluppare l’autostima e contrastare l’autolimitazione (paure interne, limiti autoimposti) nei pensieri e nei comportamenti
  19. Interrogarsi sulla immagine data di sé e sul proprio stile caratteristico, avendo sempre presente che l’autopercezione non coincide con la percezione che gli altri hanno di noi (eteropercezione)
  20. Porsi degli obiettivi personali chiari e sinceri, avere un “progetto di vita”
  21. Migliorare il “gusto della vita” nelle attività personali e nel lavoro, avere “entusiasmo”, “appassionarsi” a quello che si fa, provare “piacere” nel fare le cose che si fanno mentre le si fa
  22. Conservare la serenità, anche nei momenti che sembrano i più difficili, ed un minimo di umorismo e di visione positiva della vita; Blake e Mouton, ad esempio, hanno scritto che “Il capo eccellente è colui che conserva il senso dell’umorismo anche nelle situazioni di crisi”.

 

15 CONSIGLI  NELLE  AZIONI

  1. Mirare più all’efficacia (intesa come la capacità di raggiungere un obiettivo prefissato e formalizzato) che all’efficienza di per sé (intesa come la capacità di operare meglio rispetto ad uno “standard” prefissato e formalizzato). L’efficacia è un concetto di livello superiore rispetto a quello dell’efficienza, poiché l’efficienza da sola (senza essere efficaci) non serve a nulla, in quanto – in tal caso – si lavora bene, senza però raggiungere l’obiettivo prefissato. Pertanto, lo slogan da tenere in mente potrebbe essere il seguente: operare cercando di essere efficienti nell’efficacia
  2. Cogliere ogni occasione per sviluppare l’efficacia personale nell’azione (capacità di interpretazione dei contesti, di relazione, di interazione e di comportamento adeguato, di comunicazione corretta, di soluzione di problemi, di decisioni in condizioni di incertezza, ecc.)
  3. Tendere più al risultato che al rispetto della forma
  4. Contrastare le proprie naturali resistenze al cambiamento, cercando di non reagire automaticamente, ma di porsi dubbi e domande sincere. Controllare le reazioni (ansia e stress) al cambiamento che si deve subire nei contesti in cui si opera
  5. Imparare a gestire le interazioni e le relazioni con gli altri (nelle organizzazioni: con capi, colleghi, collaboratori e pubblici esterni)
  6. Comunicare bene (a livello verbale e non verbale) e verificare l’esito della comunicazione, tenendo presente che non é per nulla scontato che l’interlocutore interpreterà le nostre parole come noi vorremmo
  7. Aprirsi agli altri, saper ascoltare.
    Dare feed-back e sollecitare gli altri perché essi stessi facciano altrettanto, per realizzare l’allineamento delle comprensioni e migliorare la comunicazione
  8. Attuare – nel proprio e nell’altrui interesse – un comportamento assertivo (vedi QUI un approfondimento), considerato come quella particolare modalità di interazione con gli altri, basata su un comportamento “equilibrato” – che può essere appreso – in cui i propri e gli altrui diritti vengono considerati di pari importanza e dignità
  9. Migliorare le capacità di negoziazione, puntando a raggiungere più la cooperazione che l’autoaffermazione
  10. Imparare a gestire bene il proprio tempo ed a valutare le priorità in funzione di: urgenza, gravità, importanza, difficoltà ed interesse personale
  11. Non semplificare, tenendo presenti (e distinguendo) la complessità e la complicazione
  12. Non rinviare, tenendo presente che “non decidere” é sempre (e comunque) una decisione
  13. Ricordarsi che le nostre azioni possono avere effetti imprevisti (su fattori imprevedibili) e che, spesso, le relative conseguenze si manifestano lontane nel tempo e nello spazio, quando gli effetti non sono più controllabili e spesso neppure comprensibili
  14. Cogliere ogni occasione per sviluppare le proprie capacità creative, nell’innovazione e nella soluzione dei problemi
  15. Motivare, convincere, spingere sé stessi e gli altri verso la cooperazione reciproca, per migliorare sé stessi ed il sistema.

 CONCLUSIONE

La vita ci viene incontro come un tutto (contemporaneo ed integrato), nel quale non possiamo separare le cose che ci possono far comodo o piacere da quelle che possono arrecarci danno o dolore: dipende da noi saperla accogliere nel modo giusto, integrandoci con essa e migliorando noi stessi (e la società, se ci riusciamo) attraverso il nostro operare.

Pertanto, anche nell’eventuale applicazione concreta dei “consigli” qui indicati, tutto dipende da noi (come al solito) e dobbiamo convincerci che non esiste alcuna possibilità di “svicolare” (e cioè di eludere le situazioni di rischio in cui può metterci la nostra libertà di agire o non agire, di cooperare o di competere, di dire il vero o di mentire, di essere leali o traditori, ecc. ecc.) addossando a qualcuno o a qualcosa “lì fuori” le colpe e/o le responsabilità per i nostri comportamenti.

Tutto dipende da noi, e cioè dalle nostre aspettative, dalla valutazione che abbiamo di noi stessi, dai modelli mentali che ci siamo costruiti nel tempo, dall’approccio che abbiamo con la vita (e con il lavoro, in particolare), dal nostro eventuale “progetto di vita”.

Nessuno è perfetto, senza dubbio, ma ciò non deve limitarci, anzi dovrebbe spingerci ad attivarci (nel modo più convinto e determinato possibile) per rendere efficace la nostra capacità di gestire i problemi e per “vivere meglio” le diverse situazioni che la vita ci propone, in maniera spesso imperscrutabile, ma sempre accettabile, se riusciamo a creare in noi la forza, la chiarezza di visione e le capacità emotive e comportamentali necessarie per affrontare tali situazioni.

A tal riguardo, una “magica” poesia di Antonio Machado (Chant XXIX, Proverbios y cantares, Campos de Castilla, 1917) mi sembra che possa rappresentare in modo appropriato i concetti e le sensazioni cui desidero fare riferimento:

Viandante, sono le tue orme
il tuo cammino, e nulla più;
viandante, non c’è via,
la via si fa con l’andare.

Con l’andare si fa il cammino
e nel voltare indietro la vista
si vede il sentiero che mai
si tornerà a calcare.

Viandante, non c’è cammino,
ma solo scie nel mare.

 

La bellissima poesia di Machado esprime, come solo l’arte può fare, con poche parole e forti immagini, il seguente significato profondo: è l’uomo-osservatore-attore (il viandante) che necessariamente, con il suo vivere (i suoi stessi passi), genera – istante per istante – la realtà (il cammino) in cui vive e svolge le sue azioni (mette i suoi piedi), con un atto di creazione autonoma e personale.

Nessuno potrà dargli la mappa del territorio che sta esplorando, poiché non solo la mappa non esiste, ma perché è lo stesso territorio che si determina via via durante l’atto dell’esplorazione (la vita), momento per momento.

Deve essere, di conseguenza, abbandonata (definitivamente) la speranza di poter pervenire a sintesi panoramiche delle diverse situazioni e dei vari punti di vista in competizione, sintesi che solo illusoriamente possono consentire di pervenire a giudizi acontestuali e definitivi, tramite operazioni di distinzione fra permanente e transitorio, fra essenziale e secondario, fra vero e falso, fra giusto ed ingiusto, fra bello e brutto, ecc..

Il nuovo modo di comprensione dovrebbe essere, invece, basato sulla flessibilità del punto di vista, in un’opera di ricerca continua del punto di vista più pertinente in relazione al contesto in cui di volta in volta ci si trova ad agire in un certo particolare momento della propria storia individuale.

Diventano, pertanto, sempre più importanti: il dubbio, il rispetto dell’altro e dei diversi punti di vista in competizione, la considerazione attenta della variabilità (e della potenzialità dinamica di variabilità) dei contesti in cui ci si muove, la consapevolezza (e l’accettazione) che dei contesti stessi si ha sempre e soltanto una percezione personale, in modo da poter decidere quale sia (ogni volta) ed avviare – quindi – i propri passi, costruendo un cammino verso una possibile (sperabile) soluzione del problema che in quel momento si vuole risolvere, ricordando sempre il concetto fondamentale della cooperazione e cioè:

 NOTA 1

Il problema del miglioramento personale, quindi, richiede delle specifiche capacità/competenze:

  1. riuscire a possedere (diventare “padroni di”) una gamma (e cioè una “scatola degli attrezzi”) sufficientemente ampia e ricca di comportamenti,
  2. e saper scegliere in modo oculato, all’interno di tale gamma, i comportamenti di volta in volta adeguati per affrontare positivamente le situazioni con cui ci si deve confrontare in un certo particolare momento.

Le due capacità sono, evidentemente, strettamente connesse (ognuna – da sola – é condizione necessaria, ma non sufficiente per agire adeguatamente), poiché si fallirebbe sia se si possedesse soltanto la prima (e cioè una gamma sufficientemente ampia di comportamenti) senza essere – però – in grado di saper scegliere quello di volta in volta opportuno, sia se si possedesse soltanto la seconda capacità e cioè se si sapesse scegliere, ma mancassero (cioè non fossero ancora stati fatti propri) molti comportamenti utili fra i quali poter scegliere di volta in volta quello da adottare.

Conseguentemente la strada consigliata per affrontare questo duplice problema é quella di avviare un benefico processo di sviluppo personale, che tenda contemporaneamente

  • sia verso l’apprendimento di specifiche modalità di comportamento, da migliorare via via progressivamente,
  • sia verso lo sviluppo dell’abilità di saper scegliere lo specifico comportamento di volta in volta adeguato alla soluzione del problema in quel momento da affrontare.

 NOTA 2

Per realizzare un proficuo processo di crescita personale, si può percorrere (non soltanto negli “intenti”, non solo nelle apparenze, ma “nei fatti”, con ferma volontà, sincero interesse e concreta determinazione) il ciclo continuo ed articolato dell’apprendimento, che può essere schematizzato come qui di seguito indicato:

  1. si inizia da una singola situazione individuale (un fatto concreto realmente accaduto), la si analizza e si cerca di comprendere cosa abbiamo fatto: quale era il problema da affrontare, quale la gamma dei comportamenti che si aveva a disposizione e come è stata effettuata la scelta del comportamento adottato;
  2. si cerca poi di capire come ciascuno dei due aspetti (la gamma posseduta e capacità di scelta) può essere migliorato e cosa si deve fare per realizzare tale miglioramento;
  3. si identifica quindi una specifica componente comportamentale che si vuole modificare (migliorare) rispetto al modello di comportamento attuale; ad esempio: una reazione mancante, ma necessaria (il “comportamento assertivo” oppure la “comunicazione a due vie”, ad esempio), oppure un automatismo esistente, ma negativo e non accettabile (il “non ascolto” e/o la “chiusura mentale”, quando viene presentato un punto di vista diverso dal proprio);
  4. si decide di “mettersi in gioco” e di affrontare una “esperienza”, nella quale (e con la quale) si cercherà di mettere in pratica (con tutte le difficoltà esistenti) il nuovo comportamento che si vuole migliorare;
  5. si osserva il proprio comportamento durante le interazioni con gli altri e si cerca di percepire che cosa accade esattamente e quali sono le diverse dinamiche dei rapporti;
  6. si prova, quindi, a far diventare cosa propria l’esperienza avvenuta, cercando di esaminare e comprendere i fatti avvenuti ed i relativi motivi determinanti, le difficoltà incontrate e non superate, quelle superate, i risultati positivi eventualmente ottenuti;
  7. si cerca, poi, di pervenire ad una razionalizzazione dell’esperienza stessa, provando a cogliere il significato e la validità generale di eventuali modi ricorrenti di comportamento, cercando di giungere a conclusioni personali su cui si è convinti e fermamente decisi;
  8. si assimila il tutto e si effettua, quindi, una nuova esperienza (ricominciando dal punto n.4), con l’obiettivo di rinforzare, consolidare e rendere stabile la nuova componente comportamentale posta sotto osservazione.

Questo programma di miglioramento personale si basa su un cambiamento di prospettiva culturale, che considera:

  • non soltanto l’aspetto razionale (anzi ne evidenzia i limiti naturali insiti nell’uomo) e le competenze-esperienze lavorative,
  • ma anche la sfera delle emozioni e dei sentimenti, e – inoltre – la capacità di migliorare e di creare soluzioni innovative.

In ambito manageriale, questa nuova ottica di approccio si pone l’obiettivo di armonizzare i bisogni di una organizzazione con quelli delle persone, che non possono essere considerati marginali, ma devono essere esplicitati, compresi e valorizzati per il successo dell’organizzazione, in modo da creare quel particolare clima di crescita personale degli individui, che rappresenta un importante “vantaggio competitivo” dell’organizzazione.