Numero1026.

Q U A N D O    S A R O’   C A P A C E   D’ A M A R E

Giorgio Gaber            testo di Alessandro Luporini.

 

Quando sarò capace d’amare

probabilmente non avrò bisogno

di assassinare in segreto mio padre,

né di far l’amore con mia madre in sogno.

 

Quando sarò capace d’amare,

con la mia donna non avrò nemmeno

la prepotenza e la fragilità

di un uomo bambino.

 

Quando sarò capace d’amare,

vorrò un donna che ci sia davvero,

che non affolli la mia esistenza,

ma non mi stia lontana neanche col pensiero.

 

Vorrò una donna che, se io accarezzo

una poltrona, un libro o una rosa,

lei avrebbe voglia di essere solo

quella cosa.

 

Quando sarò capace d’amare,

vorrò una donna che non cambi mai,

ma, dalle grandi alle piccole cose,

tutto avrà un senso perché esiste lei.

 

Potrò guardare dentro al suo cuore

e avvicinarmi al suo mistero,

non come quando io ragiono,

ma come quando respiro.

 

Quando sarò capace d’amare

farò l’amore come mi viene,

senza la smania di dimostrare,

senza chiedere mai se siamo stati bene.

 

E nel silenzio delle notti,

con gli occhi stanchi e l’animo gioioso,

percepire che anche il sonno è vita

e non riposo.

 

Quando sarò capace d’amare,

mi piacerebbe un amore

che non avesse alcun appuntamento

col dovere,

 

un amore senza sensi di colpa,

senza alcun rimorso,

egoista e naturale come un fiume

che fa il suo corso.

 

Senza cattive o buone azioni,

senza altre strane deviazioni,

che, se anche il fiume le potesse avere,

andrebbe sempre al mare…..

 

così vorrei amare.

Numero1025.

I    S O L I             Giorgio Gaber      (testo e musica).

 

I soli sono individui strani,

con il gusto di sentirsi soli, fuori dagli schemi,

non si sa bene cosa sono

forse ribelli, forse disertori,

nella follia di oggi i soli sono i nuovi pionieri.

 

I soli e le sole non hanno ideologie,

a parte una strana avversione per il numero due,

senza nessuna appartenenza,

senza pretesti o velleità sociali,

senza nessuno a casa a frizionarli con unguenti coniugali.

 

Ai soli non s’ addice l’intimità della famiglia,

magari solo un po’ d’amore, quando ne hanno voglia,

un attimo di smarrimento, un improvviso senso d’allegria,

allenarsi a sorridere per nascondere la fatica

soli, vivere da soli,

soli, uomini e donne soli.

 

I soli si annusano tra loro,

son così bravi a crearsi intorno un senso di mistero,

sono gli Humphrey Bogart dell’amore,

sono gli ambulanti, son gli dei del caso,

i soli sono gli eroi del nuovo mondo coraggioso.

 

I soli e le sole ormai sono tanti,

con quell’aria un po’ da saggi, un po’ d’adolescenti,

a volte pieni d’energia,

a volte tristi, fragili e depressi,

i soli c’han l’orgoglio di bastare a se stessi.

 

Ai soli non s’addice il quieto vivere sereno,

qualche volta è una scelta, qualche volta un po’ meno,

aver bisogno di qualcuno,

cercare un po’ di compagnia

e poi vivere in due e scoprire che siamo tutti

soli, vivere da soli,

soli, uomini e donne soli.

 

La solitudine non è malinconia,

un uomo solo è sempre in buona compagnia.

Numero1022.

TESTO di una canzone da musicare:

C O M E   C Y R A N O

 

Io no ho paura

di te.

Fai la faccia scura

con me.

 

E’ la tua natura,

perciò,

tu sei molto dura,

ma so

 

che quest’avventura

per me,

dentro quattro mura

con te,

 

non sarà sicura,

oh no:

è una tortura

che avrò.

 

Adesso basta!

E’ ora di finirla!

Mi sono rotto

di sentirmi un pirla.

Per celebrare

“la fin della tenzone”,

mi sono scritto

perfino ‘sta canzone.

Lo confesso:

ho perso la pazienza

e, come Cyrano,

“giusto al fin della licenza,

io tocco!”      (ripetibile)

E scappo via da te!

 

E’ meglio la rottura

che vuoi,

che una fregatura

per noi.

 

Gennaio 2018.

Numero1021.

Da una filastrocca di Gianni Rodari, liberamente ridotta, riveduta e corretta.

 

Un signore di Scandicci

buttava le castagne

e mangiava i ricci,

quel signore di Scandicci.

 

Un suo amico di Lastra a Signa

buttava via i pinoli

e mangiava la pigna,

quel suo amico di Lastra a Signa.

 

Tanta gente non lo sa,

non ci pensa e non si cruccia.

La vita la butta via

e mangia soltanto la buccia!

 

Suo cugino di Laterina

buttava il cioccolato

e mangiava la cartina,

quel suo cugino di Laterina.

 

Un parente di Figline

buttava via le rose

e odorava le spine,

quel parente di Figline.

 

Tanta gente non lo sa,

non ci pensa e non si cruccia.

La vita la butta via

e mangia soltanto la buccia!

 

Un suo zio di Firenze

buttava in mare i pesci

e mangiava le lenze,

quel suo zio di Firenze.

 

Un compare di Barberino

mangiava il bicchiere

e buttava il vino,

quel compare di Barberino.

 

Tanta gente non lo sa,

non ci pensa e non si cruccia.

La vita la butta via

e mangia soltanto la buccia!

La vita la butta via

e mangia soltanto la buccia!

Numero1020.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

 

saranno una vana parola,

un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina

quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

 

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

 

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo, muti.

 

Cesare Pavese.

Numero1019.

 

L A   F E D E

 

Quella Vecchietta ceca, che incontrai

la notte che ma persi in mezzo ar bosco,

me disse: – Se la strada nun la sai,

ti ci accompagno io, ché la conosco.

 

Se c’ hai la forza de venimme appresso,

de tanto in tanto te darò ‘na voce,

fino là in fonno, dove c’è un cipresso,

fino là in cima, dove c’è la Croce… –

 

Io risposi: – Sarà. . . ma trovo strano

che me possa guidà chi nun ce vede  . . . –

La Ceca, allora, me pijò la mano

e sospirò: – Cammina! – Era la Fede.

 

Trilussa.

Numero1018.

 

 

E – M A I L

 

 

Sono, ormai, sulla strada del ritorno,

ma volevo, almeno un poco, prolungare

la scadenza sul permesso di soggiorno

e, non sapendo bene come fare,

 

ho mandato una e-mail al Padreterno

chiedendogli di fornirmi indicazioni

sulle sue leggi e norme di governo

per il disbrigo delle umane situazioni.

 

Fino ad oggi, tuttavia, non ha risposto

ed io comincio a sentirmi un po’ tapino.

Ma rimango, come sempre, al mio posto

e continuo a vivere come un clandestino.

 

So che la legge non ammette l’ignoranza,

ma la burocrazia divina è troppo lenta!

Quanto sta a rispondere ad una istanza?

Quest’attesa, sì, un poco mi spaventa.

 

Ma, se dovesse capitarmi un accidente

improvviso, che mi trovi impreparato,

almeno ho l’alibi che non sapevo niente

e che son morto per la colpa d’esser nato.

 

15 Gennaio 2019.

Numero1014.

 

P A S Q U I N A T A    S U     R O M A    C A P I T A L E

 

Sì, vabbé, è vero, voi c’avete avuto

er grande Trilussa e Gioacchino Belli,

che, circa un secolo fa, hanno saputo

comporre sonetti e cantarve li stornelli

 

e pur anche, quarche tempo prima,

molte satire frustanti v’erano state,

erano scritte cor pepe e con la rima:

se chiamaveno proprio “Pasquinate”,

 

contro le tasse ed il malgoverno,

erano un anonimo sfogo popolare,

manifesto d’ironia e de scherno

di chi voleva, almeno, protestare.

 

Ma anche noi Italiani, se ce mettiamo,

semo capaci, e pure in romanesco,

de dirvi quattro cose che pensiamo,

con un tono, magari, un po’ burlesco.

 

Perché a prendere pel culo proprio voi,

che ve dite maestri de satira e ironia,

se permettete, semo bravi pure noi,

senza tanta spocchia e senza ipocrisia.

 

Roma è la città più bella al mondo,

magari sì, con voi sono d’accordo,

però, a ben guardà, nun ve nascondo

che forse lo è stata, ma è un ricordo.

 

Parliamo un po’ de Roma la “capoccia”,

del “caput mundi”, de Roma capitale,

dove li abitanti allegri fan bisboccia,

mentre la città finisce proprio male,

 

Roma, piena de graffiti e de monnezza,

de traffico, corruzzione e malavita:

dov’è mai la tua “Grande Bellezza”?

Dov’è finita la tua “Dorce Vita”?

 

Un tempo, Respighi aveva musicato

de Roma papale li pini e  le fontane

però, caso strano, aveva scordato

le millanta buche delle strade romane.

 

Perché nun dite a Venditti che ve faccia

una sua moderna composita cantata

per illustrare a tutti questa figuraccia

e che “Le buche de Roma” sia chiamata?

 

“Grazie Roma” non va più de moda

e la salute de l’ammortizzatori

ve costringe a restare tutti in coda,

facendo urlare clacson e motori.

 

Ma er peggio siete voi, cari Romani,

che, a differenza de tutta l’artra gente,

ve piace poco de sporcà le mani

perché preferite “er dorce far niente”.

 

Lo sport che ve sfagiola è l’usura:

fate lavorà per voi il vil denaro,

e poi ve fate rispettà con la paura

der prestito ch’ è sempre troppo caro.

 

Che ve ne frega de farve ‘na carriera,

de spolpà la carne fino all’osso?

Ve ripetete, da mane sino a sera:

“voja de lavorà, sarteme addosso”!

 

Tanto trovate sempre un protettore,

un politico o l’amico dell’amico,

un ministeriale oppure un monsignore,

per praticare un vizio molto antico,

 

quello, s’intende, della raccomandazzione,

che ve rende comodo e facile l’impegno,

senza mai tenere in considerazzione

bravura, merito e, men che mai, l’ingegno.

 

La storia, da molto tempo, v’ha chiamato

dai due gemelli, “figli della lupa”,

ma l’etimologgia qui ha sbajato

perché l’origgine risulta ben più cupa.

 

Nun era mica un animale, un felino

a far da madre ai pupi, ad allattare,

perché “lupa” è ‘na puttana, in latino,

che frequentava, anvedi, er lupanare.

 

E’ così che la vendetta della storia

ha rivelato l’eseggesi arcana:

v’ha battezzato, a futura memoria,

non de ‘na lupa, ma fiji de puttana.

 

E poi, per la troiana provenienza

dell’avo Enea, ancora minor gioia

ricaverete dalla discendenza,

ché siete pure nipoti de Troia.

 

Ve pare d’esse come Alberto Sordi,

quando dice, suscitando gran sollazzo,

nel “Marchese del Grillo”, t’arricordi?

“Io so’ io, e voi nun siete un cazzo!”

 

C’avete er Colosseo e pure er Vaticano,

c’avete er Pincio con er ponentino,

ma quando proclamate “‘O famo strano”,

scusate, ma a me pare un po’ burino.

 

C’avete l’abbacchio e l’amatriciana,

le puntarelle e li carciofi “a la giudìa”,

però, io me ritrovo bona e sana

pure la robba che mangio a casa mia.

 

Eppure, Romani, se appena ce pensate,

c’avete proprio tutte le raggioni,

per cui, con orgoglio, ve chiamate

la bella “Società dei magnaccioni”.

 

Magnà e beve e vivere alla grande

ve pare er solo scopo de la vita

e, mentre tutti l’artri so’ in mutande,

voi, per diggerì, v’annate a la partita.

 

Siete pieni de affitti aggevolati,

de conventi e de ospizi esentasse,

ma, anche se sembrate fortunati,

nun siete proprio li primi de la classe.

 

Voi siete dell’Italia i parassiti!

Per voi, tutti noi connazzionali

veniamo tartassati ed avviliti,

perché nun semo proprio tutti uguali.

 

Roma, tutta l’Italia se vergogna

d’avecce te come propria Capitale

e de cambià reggistro qui bisogna,

se no, le cose vanno proprio male.

 

E voi, Romani, che ve ne fregate

assai , di tutte ‘ste maledizzioni,

beh, bisogna pure che sappiate

che c’avete proprio rotto li cojoni!

 

18 Febbraio 2016

Numero1013.

 

P O V E R A    I T A L I A        (Tormentone RAP)

 

Ahi, Italia, di tanti

furbetti e furfanti,

di maghi e cartomanti,

di peccatori e di santi,

di poeti e naviganti,

di suonatori e cantanti,

di topolini ed elefanti,

di mariti e di amanti,

di monache e baccanti,

di dietro e davanti,

di vetrini e diamanti,

di onesti e lestofanti,

di poverissimi abitanti,

e moltissimi emigranti,

e studenti ignoranti

trattati con i guanti

da beceri insegnanti,

di corrotti governanti

e di troppi pensionanti,

di vecchi e di badanti,

delle cure dimagranti,

delle creme abbronzanti,

di polveri inquinanti,

di rifiuti ingombranti,

di leggine aberranti,

di magistrati pedanti,

di prigioni straboccanti,

di cadaveri ambulanti,

di atei e benpensanti,

di soldati e comandanti,

di cavalieri e di fanti,

di clienti e commercianti,

di impiegati e braccianti,

professionisti e dilettanti,

difensori ed attaccanti,

sottomessi ed arroganti,

crumiri e scioperanti,

di cafoni ed eleganti,

di mafiosi e di briganti,

di ricconi e mendicanti,

poveracci e benestanti,

e ancora di grilli parlanti,

e pure, di fate ignoranti,

e di muse inquietanti…..

Delusioni sconfortanti!

Speranze agonizzanti!

Come siamo affranti!

Italia, se non la pianti,

così non vai avanti!

 

12 Febbraio 2016.

 

 

Numero1012.

 

S E N Z A   T I T O L O      ( lo troverai all’ultimo verso)              Tormentone satirico.

 

Ma perché un uomo, sin da quando è nato,

deve trovarsi addosso, come appiccicato,

un marchio di vergogna, di cui è accusato,

che, ahinoi, “originale” viene chiamato?

Nessun altro essere vivente del creato

di una tale ignominia viene tacciato

da madre natura o, men che mai, dal fato.

E’ come un frutto che nasce già bacato

da un codice etico-genetico modificato

e, nella corsa della vita, parte handicappato.

Neanche se fosse autore di un torbido reato

o commettesse un delitto turpe ed efferato,

non sarebbe così prontamente incriminato.

Povero uomo, imputato, criticato, denigrato,

perseguitato, deplorato, martoriato, dileggiato,

processato senza assistenza di un avvocato,

senza il beneficio di appello condannato,

diffamato, isolato, disperato, umiliato,

con sottili livore e ipocrisia massacrato.

Ma cosa mai l’uomo avrebbe inventato

contro se stesso, come può essersi dannato?

Perché così ferocemente si è evirato?

Certi uomini, falsi e perversi, hanno pensato

che, così com’era, era fin troppo fortunato:

doveva essere opportunamente bastonato.

Allora, una sorta di sudditanza hanno creato

perché essere inferiore fosse considerato,

tutt’altro che angelico, bensì indiavolato

e da una “autorità divina” fosse castigato,

affinché, proprio a se stessi, fosse delegato

il potere fasullo di passarlo in giudicato.

Ed è così che l’uomo è stato etichettato

con la vergogna della colpa di esser nato.

Di quale colpa, chiederete, vi ho parlato?

Lo sapete tutti, non è altro che IL PECCATO!

 

18 Febbraio 2016

 

Numero1005.

 

I F

 

If you can keep your head when all about you

are losing theirs and blaming it on you,

if you can trust yourself when all men doubt you,

but make allowance of their doubting too,

if you can wait and not be tired by waiting,

or being lied about don’t deal in lies,

or being hated, don’t give away to hating,

and yet, don’t look too good, nor talk too wise.

 

If you can dream and not make dreams your master,

if you can think and not make thoughts your aim;

if you can meet with Triumph and Disaster

and treat those two impostors just the same;

if you can bear to hear the truth you’ve spoken

twisted by knaves to make a trap for fools,

or watch the things you gave your life to, broken,

and stoop and build ‘em up with worn-out tools.

 

If you can make one heap of all your winnings

and risk it all on one turn of pitch-and-toss,

and lose, and start again at your beginnings

and never breath a word about your loss;

if you can force your heart and nerves and sinew

to serve your turn long after they are gone,

and so hold on when there is nothing in you

except the Will which says to them:”Hold on!”

 

If you can talk with crowds and keep your virtue,

or walk with kings, nor lose the common touch,

if neither foes nor loving friends can hurt you;

if all men count with you, but none too much.

If you can fill the unforgiving minute

with sixty seconds’ worth of distance run,

yours is the Earth and everything that’s in it,

and – which is more – you’ll be a man, my son.

 

 

S E                        (Lettera al figlio, 1910)

 

Se riesci a conservare il controllo, quando tutti

intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa;

se riesci ad aver fiducia in te  stesso, quando tutti

ne dubitano, ma anche tener conto del  loro dubbio;

se riesci ad aspettare e non stancarti di aspettare,

o, se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne,

o, se ti odiano, non lasciarti prendere dall’odio,

e, tuttavia, non sembrare troppo buono e  non parlare troppo da saggio;

 

se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;

se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;

se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina

e trattare allo stesso modo quei due impostori;

se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto

distorta dai furfanti per ingannare gli sciocchi,

o a contemplare le cose a cui hai dedicato la vita, infrante,

e piegarti a ricostruirle con strumenti logori;

 

se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite

e rischiarle in un colpo solo a testa e croce,

e perdere e ricominciare di nuovo, dal principio,

e non dire una sola parola sulla perdita;

se riesci a costringere cuore, tendini e nervi

a servire al tuo scopo quando sono, da tempo, sfiniti,

e a tener duro, quando a te non resta altro,

tranne la Volontà che dice loro:”Tieni duro!”.

 

Se riesci a parlare con la folla e a conservare la tua virtù,

e a camminare con i Re, senza perdere il contatto con la gente,

se non riesce a ferirti il nemico, né l’amico più caro;

se tutti gli uomini contano per te, ma nessuno troppo;

se riesci a riempire il minuto inesorabile

con il valore di sessanta secondi del tempo che passa,

tua è la Terra e tutto ciò che vi è in essa

e – quel che più conta – sarai un uomo, figlio mio!

 

Rudyard Kipling