Numero2217.

 

RICORDANDO  DANTE                              ULISSE

 

… né dolcezza di figlio, né la piéta            94

del vecchio padre, né ‘l debito amore

lo qual dovea Penelope far lieta,

 

vincer potero dentro a me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

e de li vizi umani e del valore.

 

 

Considerate la vostra semenza:              118

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.

 

 

… infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.  142

 

 

DIVINA  COMMEDIA       Inferno       Canto XXVI   VIII Cerchio (Malebolge) dove sono puniti i consiglieri fraudolenti.

Numero2118.

 

COME NACQUE L’AMORE PER DANTE

 

Articolo di Marcello Veneziani su IL GIORNO del 14 Dicembre 2020.

 

…. Nel sussidiario delle scuole elementari Dante era citato per la prodigiosa memoria: si raccontava in un aneddoto illustrato con Dante in meditazione su un sasso, che un passante gli aveva chiesto quale fosse il suo cibo preferito e lui aveva risposto l’uovo. Tornato dopo molto tempo, il passante gli chiese “con che?” “Col sale” rispose prontamente Dante come se ne avessero parlato poco prima. Alle scuole elementari mi trovai nel 700° della nascita di Dante, tra le iniziative in aula magna e in classe, i quaderni della “Dante Alighieri”, allora percepita come il veicolo linguistico-patriottico d’italianità, quasi un vaccino obbligatorio, com’era l’anti-tubercolosi o l’anti-vaiolosa. Più tardi sarebbe venuto il Dante della goliardia, dove parafrasavamo i suoi versi e perfino ci mascheravamo nei suoi panni. Poi venne il Dante romantico, amoroso e passionale, come fu rappresentato soprattutto nel secolo romantico e figurato dai poeti e dai manieristi. Quell’immagine dantesca era per me consegnata a una cartolina che mia madre custodiva gelosamente, in cui condensava l’amor romantico: la riproduzione di un dipinto famoso di Henry Holiday che ritraeva il colpo di fulmine del giovane Dante per Beatrice: l’incontro sul Lungarno, Beatrice tra le sue amiche che si volge a guardare Dante, e lui che si ferma per ammirarla con una mano sul cuore, a significare e comunicare il suo turbamento, la sua emozione. Era un Dante innamorato, concepito su misura per le romanticherie del tempo. Piaceva figurare il poeta che spasimava e soffriva d’amore, come un precursore dei languori e dei corteggiatori romantici.

Colsi solo più tardi la grandezza di Dante, quando alla fine del liceo lessi al mare d’estate l’intera Divina Commedia. Lo feci di nascosto dai professori; se l’avessero scoperto, probabilmente me l’avrebbero rovinato. O almeno così temevo. In quel tempo, infatti, erano saliti in cattedra i primi docenti venuti dal ’68, con una preparazione mediamente scarsa, una forte refrattarietà a tutto ciò che era antico, classico o proveniente dalla scuola tradizionale e l’ossessione di demistificare, desacralizzare, tirar giù dal piedistallo. Tutto andava reinterpretato in chiave ideologica d’attualità. Per giustificarne la lettura e lo studio, si sforzavano di attualizzare i classici, e Dante più di tutti, liberandolo dal guscio infame del medioevo oscuro. Ai loro occhi la domanda essenziale da farsi era l’attualità di Dante, “cosa dice ai giovani d’oggi”. Ma questo riduzionismo, che è poi diventato nei nostri anni un canone obbligato nel politically correct, non coglie la grandezza degli autori, la differenza dei tempi e delle culture, la ricchezza di conoscere mondi diversi e remoti. In quella pretesa c’è tutta l’arroganza, l’egocentrismo, la supposta superiorità del presente su ogni altra epoca e su ogni altro tipo di visione e di umanità. Quel tentativo ridicolo di giudicare i grandi del passato alla luce del razzismo e della xenofobia, del sessismo e dell’omofobia…

Dall’altro versante non mancavano gli stucchevoli insegnanti col loro imparaticcio scolastico, che ripetevano meccanicamente formule pigre come “la donna angelicata posta su un piedistallo”; a noi studenti non pareva una figura divina ma un manichino dell’Upim, inerte e irreale sul suo piedistallo… Quei docenti di ieri e di oggi non coglievano o non colgono che la forza di Dante non è la sua attualità, la capacità di parlare ai ragazzi d’oggi, di rispondere ai nostri effimeri momenti di vita e di storia; ma la sua grandezza è nella capacità di toccare temi e pensieri, fedi e ardori, speranze e disperazioni, gioie e dolori che appartengono a ogni tempo, perché in realtà non appartengono in ultima istanza a un tempo o all’altro, ma rinviano alla condizione umana e all’eterno ritorno di tutte le cose. “Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima della natura dato, è lo ritornare a lo suo principio”, scrive Dante nel Convivio.

Numero838.

Vergine madre, figlia del tuo Figlio,

umile ed alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

 

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì che il suo Fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

 

Nel ventre tuo si raccese l’amore,

per lo cui caldo, nell’etterna pace,

così è germinato questo fiore.

 

Qui se’ a noi meridiana face

di caritate e giuso, intra i mortali,

sei di speranza fontana vivace.

 

Donna, sei tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia ed a te non ricorre,

sua disianza vuol volar senz’ali.

 

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fiate,

liberamente al domandar precorre.

 

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate.

 

Bernardo di Chiaravalle         Dante         ParadisoXXXIII

 

Numero693.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende

prese costui della bella persona

che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona.

 

Amor condusse noi ad una morte:

Caina attende chi a vita ci spense”.

Queste parole da loro ci fur porte.              (Paolo e Francesca)           InfernoV

Numero692.

Per più fiate li occhi ci sospinse

quella lettura e scolorocci il viso;

ma solo un punto fu quel che ci vinse.

 

Quando leggemmo il disiato riso

esser basciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso,

 

la bocca mi basciò tutto tremante.

Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante.

 

Mentre che l’uno spirto questo disse,

l’altro piangea; sì che di pietade

io venni men così com’io morisse.

 

E caddi come corpo morto cade.          (Paolo e Francesca)         Inferno V 

Numero691.

E quella a me: “Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; e ciò sa il tuo dottore.

 

Ma s’a conoscer la prima radice

del nostro amor tu hai cotanto affetto,

dirò, come colui che piange e dice.

 

Noi leggiavamo un giorno per diletto

di Lancialotto come amor lo strinse.

Soli eravamo e sanza alcun sospetto”.           (Paolo e Francesca)       Inferno V

Numero690.

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito

nomar le donne antiche e ‘ cavalieri,

pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

 

I’ cominciai; “Poeta, volentieri

parlerei a quei due che insieme vanno

e paion sì al vento esser leggieri”.             (Paolo e Francesca)          Inferno V

Numero688.

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio bianco per antico pelo

gridando: “Guai a voi, anime prave!

 

Non isperate mai veder lo cielo.

Io vegno per menarvi all’altra riva

nelle tenebre etterne, in caldo e in gelo.            (Caronte)     Inferno III

Numero687.

Poscia ch’io ebbi rotta la persona

di due punte mortali, io mi rendei,

piangendo, a quei che volentier perdona.

 

Orribil furon li peccati miei

ma la bontà infinita ha sì gran braccia

che prende ciò che si rivolge a lei.                  (Manfredi di Svevia)        Purgatorio IV