Numero1543.

 

GIOCO  DI  PAROLE   (casualmente caotico)

 

Il caos, messo in ordine,

nasce dal caso?

avviene per caso?

esiste a caso?

finisce nel caso?

Oppure è il caso,

messo in disordine,

che provoca il caos?

Ebbene, in tal caso,

è tutto un casino.

(inventata in proprio).

Numero1542.

L’ignorante parla a vanvera,

l’intelligente parla poco,

‘o fesso parla sempre.

Totò.

 

….che poi, mi piacerebbe

conoscere questa Vanvera

a cui tutti  parlano….

 

Ma cos’è la

VANVERA

L’etimologia della parola vanvera è di origine incerta: alcuni riconducono l’etimologia di vanvera all’antico lemma onomatopeico fanfera (o fanfàra) dal suono fan-fan  (da cui fanfarone = chiacchierone, spaccone, sbruffone, millantatore);  altro etimo, dallo spagnolo bambàra  dall’omonimo gioco di carte (vincere per ….culo), a sua volta da bambarria che nel gioco del biliardo indica un tiro sbagliato ma casualmente vincente. Per cui, chi parla a vanvera è colui che parla a casaccio, diremmo con una perifrasi moderna, chi utilizza le labbra senza connetterle col cervello…
Una meno diffusa ma non meno interessante etimologia del termine vanvera riconduce l’etimo ad uno strumento in uso nel Seicento presso i Veneziani che era chiamato appunto vanvera: si trattava di un contenitore per i gas intestinali utilizzato da chi soffrisse di meteorismi incontrollabili, che permetteva di scaricare, anche in pubblico, ed immagazzinare momentaneamente tali miasmi un un sacchetto di pelle, e di scaricarli successivamente, una volta non in presenza di altre persone !
A proposito di bambàra (vanvàra) e bambarrìa (vanvarrìa), leggere il Numero1540.
lo strumento che ha dato origine al modo di dire :”Parlare a Vanvera” che nel suo vero significato quindi  non vuol dire altro che “Parlare col Culo”. Sia  nello Spettacolo che nel Libro, viene dato grande risalto (durante la trattazione degli “Odori dell’Umanità”), ai vari oggetti, sistemi  e tentativi  inventati dall’uomo per mitigare e camuffare  gli effetti dei Meteorismi, alias Flatus Ventris, alias Ventosità Anali, alias Scorregge.
Ma prima di arrivare alla Vanvera  altri oggetti furono inventati dall’Umanità. Il Prallo è il primo oggetto che viene trattato, perché il più antico. Non  è altro che un uovo di ceramica  o di legno  dotato di due fori comunicanti. Tale uovo durante i lunghi banchetti dei Faraoni, degli Imperatori Romani, insomma dei Potenti del mondo, veniva infilato  nel pertugio anale al fine di attenuare l’effetto dei  miasmi delle flatulenze.  Al suo interno vi si infilavano delle erbe odorose, inoltre il gas, nel suo attraversamento, provocava una curiosa nota musicale tipo trombetta o fischietto.
LA PIRITERA è arrivata  nel napoletano, secoli dopo, assieme ai Principi Borboni (Tenete presente che il termine medico ‘borborigmo’ vuol dire rumore e gorgoglio intestinale e sembra che i Borboni ne soffrissero alquanto) ( il termine, in verità, viene dalla parola Greca borborigmòs che significa brontolio . N.d.R.). Si trattava di una specie di  piffero in ceramica. Famose sono le Piritere di Capo di Monte. Da un lato aveva una imboccatura, dall’altro le sembianze della testa di un uccellino. Veniva adoperato nelle sfilate del Principe attraverso la città  di Napoli: Il Principe, disteso nella sua portantina, appoggiava l’ imboccature all’ ano in modo che con l’emissione di flati il piffero suonasse in faccia alla gente che lo osannava dicendo ”Lunga vita al Principe“ o “Salute al Principe”.
N.d.R. : di questa usanza, legittimata a livelli regali, è rimasta la parodia diffusissima della “pernacchia”.
LA VANVERA  è lo strumento inventato dai Veneziani. Nel Seicento  venne usata fino a tutto il Settecento. Molto più ‘democratico’, alla portata di tutti ed è di due tipi :
La VANVERA DA PASSEGGIO  L’oggetto costruito in pelle di vari colori si può dividere in quattro parti. La prima  parte, per aderire completamente alle chiappe era  fatta a Coppa (1) e  quindi doveva essere per lo più costruita su misura. Questa comunicava attraverso  un Collo (2) ad una Vescica (3) atta a contenere i gas intestinali, per terminare con un pertugio munito di chiusura con spaghetto, per consentirne lo sfiato (4). L’ utente nelle occasioni di sofferenza per  Meteorismi, ma  nella necessità di uscire di casa per doveri di  Società, la indossava sotto il mantello, se uomo, e sotto la gonna,  se donna. Poteva così tranquillamente recarsi al Caffè Florian o al Teatro La Fenice senza preoccupazione alcuna. Ogni rumore veniva attenuato ed ogni odore veniva evitato nel modo più assoluto. Una volta distante dai luoghi frequentati poteva aprire lo spago!
Se ne è perduta l’abitudine all’uso via via con la diffusione dei  cappotti nell’Ottocento.
La VANVERA DA ALCOVA simile solo nella prima parte alla Vanvera da passeggio al posto della Vescica v’è stato saldato un lungo tubo, sempre in pelle, che doveva arrivare fino ad una finestra aperta durante l’Estate.
D’ Inverno  lo si lasciava nella stanza o si preferiva farlo arrivare ad una  stanza vicina, pensando potesse mitigarne la temperatura.
Veniva usata specialmente dal marito durante le prime notti di nozze o quando si era mangiato molto, e non essendoci ancora quella confidenza fra gli sposi  atta a sopportare  le continue ventosità, assai probabili dopo  tanto banchettare, ecco la necessità di questo strumento.

Numero1541.

 

IL  MERDASSER

Il Merdasser è un personaggio veramente esistito, che ha esercitato la sua professione in ogni grande città europea, fino agli inizi del ‘900..
Deve essere considerato un benemerito per l‘ umanità, perché è stato il Paladino, il Martire, l’Eroe delle “cagate urgenti”.
Ci sono stampe e testimonianze che provano come da Edimburgo a Costantinopoli, in ogni grande città, in occasione di assembramenti di popolo, per festeggiamenti, ricorrenze o altro, si aggirasse per strade e piazze un individuo che ora potrebbe essere definito una “toilette ambulante”. Proprio da una di queste stampe se ne ricava l’aspetto. Con grande cappello, dotato di sera di un lumino rosso, ed un ampio mantello si portava appresso due secchi di legno. Faceva accomodare il bisognoso sopra uno di quei recipienti, coprendolo completamente col suo mantello.

Maurizio Bastianetto ha voluto far rivivere questo personaggio in chiave carnevalesca negli anni ottanta, prima nel Teatro Da Strada, e poi dal 2000, nei Teatri veri, inserendolo nel Monologo che racconta la Storia della Medicina col titolo di “Naturalia non sunt turpia”: ovvero la Storia della Medicina narrata da un Merdasser. Per far questo ha scavato nella memoria di alcuni vecchi veneziani. Ha ricostruito così come si svolgevano i fatti, e ne ha ricavato una serie di gustose gags. L’oggetto principe, scatenante la curiosità ed ilarità del pubblico, dopo il mantello ed i secchi, è la pezzuola, in veneziano “pessetta”, che il Merdasser offriva al bisognoso, al fine di terminare la sua operazione cacatoria con una adeguata pulizia. Il Merdasser offre al bisognoso la pessetta al momento dell’approccio, chiedendo contemporaneamente il pagamento anticipato per la prestazione, dicendogli testualmente: ”çinque schèi par la pessetta, tre schei senza pessetta..,ma.. diese schei se ti la vol neta”, il chè vuol dire che l’utente per avere un pezzuola non già usata doveva pagare il doppio (dieci anziché cinque soldi). Il Merdasser nello spettacolo spiega come prima dell’ invenzione e della diffusione della carta igienica la pessetta si trovasse appesa in ogni cesso decente, e venisse denominata “Leopardo”. La descrizione del corretto uso della pessetta, e gli anatemi sulla diffusione della carta igienica, (una delle cause della deforestazione del mondo e del buco dell’ozono) sono uno dei temi che più impressionano il pubblico che assiste al monologo.

 

 

Numero1540.

 

Lettere B, V .

La B e la V in spagnolo sono pronunciate nello stesso identico modo. Dopo una pausa o dopo una nasale (m, n) il suono è quello occlusivo della B italiana (/b/), all’interno di parola è un’approssimante ([β̞,] nell’alfabeto IPA; trascritto comunemente [β], il beta greco). Per rendere il suono in termini discorsivi, tale suono si rende accostando semplicemente le due labbra senza farle toccare fra di loro permettendo il passaggio di un sottilissimo filo d’aria, diversamente dall’italiano in cui il suono è più secco e deciso.

Attenzione: la perfetta pronuncia del suono [β̞]  è tuttavia considerata una sottigliezza che il più delle volte non viene nemmeno insegnata, in quanto la differenza con i suoni più decisi [b] e [v] tipici dell’italiano, è quasi impercettibile in una normale discussione. Rimane comunque certamente d’obbligo pronunciare la B e la V allo stesso modo.

Pronuncia in spagnolo della b e della v

I due suoni italiani b e v sono tra loro molto differenziati e probabilmente noi non li confondiamo da quando  vestivamo un grembiule a scuola. In spagnolo invece non è così, i suoni di b e v sono un mix tra b e v tendente molto alla b. Questo non è un problema solo di comprensione nostra ma anche degli stessi madrelingua che a volte confondono le due lettere (in questo senso gli errori ortografici in certe zone dell’america latina poco scolarizzate veramente si sprecano dando origine a dei veri rebus linguistici).

Alcune parole spagnole:

  • primo gruppo (ventana, ventaja, bengala, vuelo, valorar, belleza, bendición, voz, bien, vocal)
  • secondo gruppo (cambiar, averiguar, tambien, imbécil, cobrar, invariable, obedecer, oveja, abismo, aventura)

Altre parole dove la pronuncia B-V è intercambiabile. : Cuba (Cuva), Habana (Havana), caballo (cavallo), cabeza (caveza), bolsa (volsa), vamos (bamos), vivir (bibir) e molte altre.

Da anni sto dando la caccia al perché di questa curiosità linguistica della lingua spagnola. Veramente devo notare che questa “confusione” non esiste solo nello spagnolo. Anche altre lingue, specialmente lingue dell’est europeo, hanno alcune parole dove, anche nella scrittura (a caratteri cirillici), esiste un’equivocità tra l lettere V e B, e la pronuncia. Ad esempio, PRABDA (Pravda), (Verità), il giornale russo più conosciuto, prima della D ha la BETA cirillica, come quella greca, che non si può scrivere con la tastiera normale. Questa BETA si pronuncia V, come tutti sanno. Proprio ieri, guardavo in TV un incontro di tennis degli “Open” degli Stati Uniti. Una delle due tenniste, una Ucraina naturalizzata Americana, si chiama Varvara Lepchenko. Tutti capiscono che il nome corrisponde a Barbara. La identificazione fra B e V è evidente. Ho chiesto a destra e a manca se c’era una spiegazione plausibile di tale fenomeno. Non ho mai trovato chi mi desse soddisfazione.

Allora mi sono formulato io, senza voler darmi ragione da solo, un’ipotesi che potrebbe spianare la strada. Ipotesi che cerca conferma : chi può, o chi sa, dare una risposta, o solo fare un commento, è pregato di comunicarmelo.
Anticamente, le scuole non esistevano. Chi tramandava alle generazioni successive le parole, le scritture, le pratiche del linguaggio, le pronunce erano i genitori. O, in loro assenza, i nonni o altri consanguinei anziani delle tribù o dei clan che istruivano i bambini. Di solito, i genitori erano fuori casa a caccia o al lavoro e stavano poco in compagnia dei figli, come accade anche adesso, del resto. Gli anziani o i vecchi di un tempo, ma anche tuttora, nelle zone più misere della terra, hanno sempre avuto una caratteristica nel loro aspetto morfologico (ed anche estetico) : la mancanza dei denti. La scarsa igiene, in generale e, in particolare, quella orale, era la causa delle caduta dei denti anche in media età.
Ora la pronuncia di determinati fonemi, specialmente quelli labiali, in assenza di denti è un problema di non poco conto. Qui faccio appello a chi è in grado di verificare se quello che sto prospettando abbia fondamento o meno. I portatori di dentiera mobile (specialmente superiore) dovrebbero essere in grado di verificare se la pronuncia della lettera V , che si ottiene accostando la dentatura superiore  al labbro inferiore, in assenza dei denti superiori diventa una specie di B sfumato, che scaturisce dall’avvicinamento delle due labbra: il labbro superiore sostituisce la dentatura superiore mancante.
Allora, da dove nasceva la confusione o la fasulla identificazione della V con la B? Semplicemente dal fatto che i genitori, ancora, presumibilmente, forniti di denti pronunciavano una parola con la V, mentre la stessa lettera, nella stessa parola, veniva pronunciata dai vecchi come una B. Il problema è millenario ed irrisolto.
Devo essere sincero. Dubito che qualcuno mi darà una mano a chiarire il dilemma. 

Numero1539.

PIUTTOSTO  CHE

Piuttosto che è una locuzione congiuntiva della lingua italiana. È tipica della coordinazione sostitutiva, per cui una proposizione ne nega un’altra in modo totale e la sostituisce; equivale quindi ad anziché.

A partire dagli anni novanta del XX secolo, l’espressione ha subìto un’estensione di significato con slittamento verso l’uso disgiuntivo, essendo usata, di frequente, nel senso di oppure: taluni parlanti, cioè, costruiscono frasi come «mangio mele piuttosto che pere», volendo così indicare il significato di «mangio mele oppure pere» e non più «mangio mele anziché pere». L’esito può essersi prodotto a partire dal rafforzamento di «o» con l’avverbio «piuttosto».

Grammatici e lessicografi considerano l’uso improprio, ambiguo e semanticamente deviato, anche se trae origine dalle parlate altolocate settentrionali, nelle quali era già diffuso oltre un decennio prima della sua affermazione nel resto d’Italia. Il giudizio di linguisti e altri cultori dell’italiano è quindi negativo, specie per la carica d’ambiguità che l’espressione possiede e che può spingersi fino a provocare un completo nonsenso. Il fenomeno è diventato perfino esemplare degli abusi grammaticali nell’italiano contemporaneo, tanto da essere richiamato dal titolo di pubblicazioni dedicate agli errori e ai tic linguistici più diffusi.

L’impiego di «piuttosto che» nel senso di «oppure», inizialmente di carattere snob, è divenuto un fenomeno sociolinguistico dilagante assumendo natura di moda, con il favore del prestigio che molti parlanti attribuiscono ai costumi linguistici settentrionali. Nondimeno, molti comuni parlanti deprecano l’uso.

La deviazione neostandard consistente nell’uso disgiuntivo di «piuttosto che» ricorre in comunicazioni a volte prolisse, specie in presenza di una ricorsività sintattica che in italiano è invece affidata alle congiunzioni «o» e «oppure»: si avverte quindi in costrutti come «Penso che domani andrò al cinema, piuttosto che a teatro, piuttosto che al vernissage. Non ho ancora deciso». «Andare a ballare, piuttosto che prendere una pizza con gli amici, piuttosto che fare un giro in moto…».

In casi simili il parlante intende le diverse opzioni come alternative più o meno indifferenti. In base all’uso consolidato da secoli nella tradizione grammaticale italiana, la frase va intesa invece in senso comparativo, nel senso cioè che egli preferisce la prima ipotesi (andare al cinema) alle altre due. Si deve inoltre notare che l’uso standard neppure consente la reiterazione di “piuttosto che”.

Nei casi più blandi, questa maniera di esprimersi comporta una semplice ambiguità semantica che l’ascoltatore può risolvere valutandone il significato in base al contesto linguistico in cui l’espressione è usata. Tuttavia, l’interlocutore può senz’altro percepire un significato divergente dalle intenzioni del parlante (nell’esempio precedente, «Penso che andrò al cinema, invece che a teatro o al vernissage»), mentre nei casi più gravi può prodursi un vero nonsenso.

La formulazione della frase risulta dunque ambigua, e per la sua comprensione è indispensabile interpretare bene il contesto. Nessun aiuto può venire da una diversa intonazione, dato che tra la forma standard e quella neostandard non sembrano esistere differenze di prosodia (intonazione del linguaggio parlato).

L’uso di «piuttosto che» in funzione disgiuntiva è perciò deprecato dai linguisti: non per ostilità preconcetta a un’innovazione, ma perché tale innovazione è portatrice di un’ambiguità sostanziale che pregiudica la funzione del linguaggio. Quest’ambiguità è ancor più deprecabile quando il parlante vi indulge in ambiti settoriali come quello scientifico o giuridico, nei quali è cruciale la «congruenza e univocità» di lessico e terminologia.

Il «piuttosto che» disgiuntivo è un fenomeno sociolinguistico che  nasce senz’altro dal linguaggio parlato, ma non germoglia dall’italiano popolare, bensì piuttosto da un terreno iniziale (probabilmente ristretto) di ambienti agiati del settentrione.

Il fenomeno è ritenuto un prodotto degli anni novanta del Novecento, anche se esiste sicura testimonianza di un uso disgiuntivo di «piuttosto che» limitato al ceto medio torinese già nei primi anni 1980. Sembra che l’uso si sia propagato da un centro di irradiazione lombardo circoscritto a Milano. Più genericamente, comunque, gli si può riconoscere un epicentro settentrionale. Alla fine del XX secolo i linguisti lo avvertivano come un uso limitato all’ambito delle parlate settentrionali e del Canton Ticino.

La diffusione ulteriore del vezzo linguistico sarebbe stata favorita da una «certa aura di prestigio» che alcuni parlanti gli hanno accordato, come spesso avviene, semplicemente per la sua origine settentrionale, imitandolo.

Come in altri casi (si veda l’espressione «assolutamente sì»), un ruolo fondamentale ha svolto poi l’influenza dei principali mezzi di comunicazione, ormai arbitri delle tendenze nell’evoluzione dell’italiano. Una certa venatura di snobismo insita nell’espressione potrebbe averne favorito l’accoglimento da parte di conduttori e giornalisti televisivi o radiofonici, che l’hanno poi trasformata in fenomeno virale, rendendola un tormentone.

L’influenza del mezzo televisivo non si è esercitata soltanto sulle classi sociali più deboli culturalmente.  Il tipico parlante che abusa dell’espressione è un «adulto colto», professionalmente inquadrabile come «impiegato/dirigente/docente», senza differenze tra i sessi.  L’uso sembra attestato senza distinzioni sia nel registro informale sia in quello formale.

Una possibile scia del fenomeno emerge da sporadici segni di un appiattimento semantico sul significato disgiuntivo che inizia ad affliggere anche la congiunzione «anziché».

La dinamica dell’evoluzione non è chiara, ma può essere ricostruita ipotizzando che, in una prima fase, sia avvenuto il rafforzamento della congiunzione «o» con l’avverbio «piuttosto» («mangio mele o piuttosto pere») e, in seguito, si sia verificata la sostituzione del corretto «o piuttosto» con l’errato «piuttosto che».

L’abuso di «piuttosto che» in funzione disgiuntiva è all’origine di stroncature come quella decretata nel 2003 dai lettori del Sole 24 ORE nel gioco linguistico Parole da buttare, in cui l’espressione si classificò al quarto posto, preceduta da «quant’altro», «assolutamente sì» e «un attimino» Concludendo l’inchiesta sull’inserto domenicale del quotidiano, il linguista Diego Marani classificò il «piuttosto che» disgiuntivo, dal punto di vista semiotico (studio dei segni), come un’espressione del tutto priva di contenuti comunicativi, classificabile al pari del «mi consenta» berlusconiano tra gli strumenti inutili del lessico di Porta a porta: mere formule utili a «tenere il microfono», ma “con uno spessore semantico equivalente a quello di un grugnito“.

Alcuni studiosi classificano l’espressione tra i modismi: essa apparterrebbe a un novero di «voci, espressioni, formule, intercalari, accomunati proprio dalla grandissima diffusione di cui godono in un determinato (di solito breve) periodo». Queste, «nel periodo di massima fortuna rimbalzano continuamente dal parlato allo scritto (e viceversa) e riescono a infiltrarsi nei contesti più svariati, passando presto dall’uso all’abuso».  Il loro successo, che alcuni ritengono effimero, farebbe parte di un processo di creazione dal basso di una «lingua di plastica». 

Quanto sopra esposto è ricavato, in sintesi, da Wikipedia. Aggiungo che, il “piuttosto che” viene spessissimo adoperato, in modo inappropriato, in una elencazione di termini fra loro omogenei, quanto a specie. Ad esempio : “Se devo recarmi in una grossa città, a Milano, piuttosto che a Torino, piuttosto che a Genova”. Basterebbe soltanto una “o”, trattandosi di città fra loro intercambiabili e manca, del tutto, il concetto della alternatività o della contrapposizione disgiuntiva. Come si presenta, ad esempio nella frase . “La morte piuttosto che il peccato” (Santa Maria Goretti).
Ricordo di aver ascoltato, in televisione, il discorso di una persona, interrogata da un giornalista, che in ben meno di un minuto, ha pronunciato il famigerato “piuttosto che” per ben 14 volte. Ho rintracciato il programma, l’ho registrato e ho fatto la conta. Era un “intercalare” ossessionante, che veniva adoperato come “formula lubrificante” per far scorrere il discorso senza inceppamenti. Di una antipatia “virale”.