Ho pensato: “Che scopo ho per vivere?”
Voglio dire: “Viviamo solo per morire?”
La morte è il solo scopo della vita?
Cosa ci insegna la vita… testamento spirituale di un libero pensatore
Ho pensato: “Che scopo ho per vivere?”
Voglio dire: “Viviamo solo per morire?”
La morte è il solo scopo della vita?
Ricordare che morirai
è il modo migliore che
conosco per evitare
la trappola di pensare
di avere qualcosa
da perdere.
Steve Jobs.
Fra le carte di vecchi ricordi, ho ritrovato questa poesia che, anche adesso, mi ha fatto piangere.
Parla della tragedia del terremoto che ha colpito il Friuli il 6 Maggio 1976.
Donje Glemone il 13 di Maj 1976.
PUAR FRIUL …. CE CURTISADE
Ce tant biel che lu ài viodut,
ce di cur che lu ài cjalat:
e cumò l’è sucedut
che lu cjati dut sdrumat.
Ce dolor, ce tante pene,
ce tanc’ muarz, tant tribulà.
Sint il cur che mi sdrondene,
che s’ingrope, al ‘ul scjampà.
Ma cemut mari nature
ae podut dà tant dolor
a chei fìis che, cun gran cure,
àn cerut di fale mior?
O crodevi che la uere
mi vess zà mostrat dut quant;
mentri invesit, no jè vere:
chi il dolor l’è tant plui grant.
Ciar Friul, ce curtisade
che ti àn dat in plen tal cur:
ogni cjase insanganade
che soffris’, che vai, che mur.
Ma i toi fìis son chi che cjalin
che ti prein di no murì.
Tenju dongje, che no falin,
che ti fasin rinvignì.
Su Furlan, dati coragjo
tal scombati e sapuartà;
sarà chest il ver omagjo
pai Furlans za las di là.
Suje i voi, torne scomence,
torne sude, met adun.
Il paìis nol pò sta cence:
come te no l’à nissun.
E il Signor, s’a l’è seren,
cu la pas e caritat,
l’à il dovè di oreti ben,
a ti lassi tirà flat.
Parcé un presit tant salat
son ben pos’ che lu àn pajat.
LEANDRO DI BARBORA.
Mi rendo conto che il Friulano non è facile e comprensibile per tutti. A seguito della esortazione di alcuni, ho qui sotto riportato una traduzione quasi letterale e, ovviamente, non in rima.
Vicino a Gemona, il 13 di Maggio 1976.
P O V E R O F R I U L I …. C H E C O L T E L L A T A.
Come l’ho visto tanto bello
come l’ho guardato con amore:
e adesso è accaduto
che lo trovo tutto distrutto.
Che dolore, che tanta pena,
quanti morti, che sofferenza.
Sento il cuore che sussulta
che si stringe, vuole scappare.
Ma come madre natura
ha potuto dare tanto dolore
a questi figli che, con gran cura,
hanno cercato di renderla migliore?
Credevo che la guerra
mi avesse già mostrato tutto quanto;
mentre invece non è vero:
qui il dolore è tanto più grande.
Caro Friuli, che coltellata
che ti hanno dato in pieno nel cuore:
ogni casa insanguinata
che soffre, che piange, che muore.
Ma i tuoi figli son qui che guardano,
che ti pregano di non morire.
Tienili vicino, che non desistano,
che ti facciano rifiorire.
Su Friulano, fatti coraggio
per lottare e sopportare,
sarà questo il vero omaggio
per i Friulani già andati all’aldilà.
Asciuga gli occhi, torna a cominciare,
torna a sudare, ricomponi ogni cosa.
Il paese non può stare senza,
come te non ha nessuno.
E il Signore, se è giusto,
con la pace e la carità,
ha il dovere di volerti bene
e di lasciarti tirare il fiato.
Perché un prezzo tanto salato
ci sono ben pochi che l’hanno pagato.
Per tutta la vita, ho cercato
di evitare l’ingestibile.
Adesso non mi rimane
che gestire l’inevitabile.
…e se libero, sai,
un uomo muore,
della morte mai
sentirà il dolore.
E C O S Ì …..
E così, anche io, ho compiuto ottant’anni.
Per fortuna, non li sento proprio tutti,
alcuni ne ho preservati dai danni,
sopravvivendo a periodi belli e brutti.
Non sono stato schiavo dei tiranni
più comuni: troppo cibo, alcol e fumo
e, se con le donne ho fatto il dongiovanni,
beh, la responsabilità me l’assumo.
Perché ho sempre vissuto nei miei panni
e le cose giuste e sbagliate, da solo
sempre ho fatto, senza segreti o inganni,
interpretando degnamente ogni ruolo.
Che cosa aspettarmi dai prossimi anni?
Se il pessimismo della mia ragione
mi dice che avrò soltanto malanni,
e che poche saranno le cose buone,
nonostante che le pene e gli affanni
siano in agguato, mi concederò il meglio
che posso, per i prossimi compleanni,
prima del lungo sonno senza risveglio.
IN QUESTA VITA, MORIRE NON È UNA NOVITÀ,
MA, DI CERTO, NON LO È NEMMENO VIVERE.
I Russi stanno scrivendo col sangue ( Ucraino) alcune delle più brutte pagine della storia dell’umanità.
Scrivere col sangue (proprio) per, poi, impiccarsi ad appena 30 anni, è stata la macabra performance di un elevato ed eletto spirito, interprete della cultura artistica Russa, il poeta Sergéj Esénin.
| La notte del 27 dicembre 1925, in un albergo di San Pietroburgo, il poeta russo Sergei Esenin (o Sergej Yesenin, 1895-1925, pronuncia: Serghiéi Iessénin) si tagliava le vene e col sangue appena sgorgato scriveva la sua ultima composizione.
È una poesia d’amore e d’addio per il poeta Anatoli Marienhof (o Anatolij Mariengof), che era stato suo amante (e per un certo tempo anche convivente) negli ultimi quattro anni della sua vita. Quelle righe, l'”Addio a Marienhof“, sono spesso citate da chi parla di Esenin, ma sempre nascondendo il fatto che sono l’estremo saluto all’uomo amato:
Quella notte, fosse questa l’ultima chance offertagli dal destino o fosse imperizia, il taglio delle vene non risultò fatale: Esenin sopravvisse. Come spesso avviene in questi casi egli fece allora un ultimo gesto di richiesta d’aiuto, cercando di farsi bloccare dagli altri prima di compiere il gesto irreparabile: la poesia scritta col sangue fu consegnata a un amico, Elrich, che però non ebbe il tempo per leggerla immediatamente.Fu così che nessuno arrivò in tempo per fermarlo la notte successiva, quando nel medesimo albergo Esenin ripeté con successo il tentativo di suicidio, impiccandosi. Aveva appena trent’anni. La sua carriera era stata folgorante e aveva toccato i vertici della fama mondana: un destino questo che arride a pochissimi poeti. Eppure quando morì la fama mondana, incostante, iniziava ad abbandonarlo con la stessa capricciosa rapidità con cui lo aveva toccato, complice anche la soffocante atmosfera della Russia di Stalin. Figlio di contadini benestanti, Esenin era cresciuto in campagna, presso i nonni assai tradizionalisti. Fu la descrizione e la nostalgia di questo mondo agricolo e arcaico (destinato a sparire pochi anni dopo nel dramma della Rivoluzione sovietica) che gli fece toccare le sue corde più sentite e lo rese celebre. Esenin è un classico esempio di uomo “che si è fatto da sé”, o quasi, usando per farsi strada ora il talento artistico e ora (molto) la bellezza, due doti che la sorte gli aveva concesso con pari generosità:
La carriera di Esenin inizia dunque grazie a relazioni con uomini in grado di “lanciarlo” sulla scena letteraria.La cerchia a cui si indirizza è ovviamente quella dei “poeti-contadini” della quale il giovane poeta Sergei Gorodecki (o Gorodeckij, 1884-1967) è un po’ il teorico. Nelle sue Memorie Gorodecki descrive il suo incontro con Esenin in termini trasparenti: Esenin
Le “lettere di presentazione” del primo amico furono sfruttate al meglio, e in breve, come abbiamo visto, Esenin divenne (dal 1915 al 1917) partner inseparabile di Kljuev, assieme al quale mise in piedi veri show folkloristico-poetici (accompagnati dalla fisarmonica suonata da Esenin), che fecero discutere la società “bene” e portarono fama al giovane poeta (la cui carriera non fu danneggiata dalla chiamata alle armi) Così un contemporaneo, Cerniavskij, descrisse nel dicembre 1915 il sodalizio fra i due:
Lo stesso si affretta però ad aggiungere che la sana virilità di Esenin fu tale che non è nemmeno concepibile che egli abbia reciprocato le attenzioni erotiche di Kljuev e degli altri omosessuali! Dalla prima moglie, l’attrice Zinaida Raich, Esenin ebbe due figli, ma il matrimonio, avvenuto nel 1917, nel 1920 era già fallito, e si concluse con un divorzio. La seconda moglie, la danzatrice americana lesbica Isadora Duncan (1878-1927) lo conobbe nel 1921. Nonostante i due non parlassero nessuna lingua comprensibile a entrambi, fu “amore a prima vista”: le nozze avvennero nel 1922. Fu un’astuta mossa promozionale per entrambi. La Duncan si garantì l’attenzione del pettegolezzo mondano esibendo per il mondo quel folcloristico pezzo di marcantonio di poeta russo scapigliato, mentre per Esenin essere “marito della grande Isadora Duncan”, idolatrata in tutto il mondo, non costituì certo uno svantaggio… Tuttavia
In effetti già nel 1923 arrivò il divorzio dalla Duncan e il ritorno definitivo in Russia, dove però attendeva Esenin un periodo sempre più cupo (il poeta ebbe fra l’altro seri problemi di alcolismo e subì un internamento in clinica psichiatrica).Poco prima di morire Esenin fece un estremo sforzo di regolarizzare la propria vita, sposando il 18 settembre 1925 Sofija Andreevna Tolstaja, ma il tentativo fu vano. Eppure, nonostante le vicissitudini, la produzione poetica di Esenin si mantenne di alto livello fino all’ultimo. Pur avendo, come tutti, i suoi limiti, Esenin fu indubbiamente una persona di gran fascino, capace di suscitare quelle passioni che lasciano per sempre un segno. Basti pensare a come, dopo tanti anni di separazione, alla notizia della sua morte Kljuev scrivesse una lunga poesia in cui vibra ancora l’amore d’un tempo:
La fama del poeta-contadino, che era stato così celebre in vita, subì un’eclisse dopo la morte: Stalin mise addirittura al bando la sua opera e non c’è dubbio che se Esenin fosse vissuto più a lungo avrebbe condiviso il fato di Kljuev, che fu deportato in Siberia e vi morì nel 1937.Solo con la “destalinizzazione” la poesia di Esenin ha potuto circolare di nuovo anche in patria (“ovviamente” depurata da ogni allusione omosessuale) ed esservi riconosciuta come una delle più importanti della letteratura russa (e non solo) del Novecento. Negli ultimi decenni l’opera di Esenin ha goduto nuovamente di un buon successo di pubblico: in Italia una sua poesia del 1920, la “Confessione d’un malandrino”, è addirittura diventata un best-seller popolare, nella traduzione di Renato Poggioli, come canzone musicata e cantata da Angelo Branduardi:
Insomma: anche da morto Esenin ha conservato il dono di piacere. Segno che il suo fascino andava ben al di là dei ricci biondi e degli occhi azzurrissimi che lo hanno fatto amare dagli uomini e dalle donne. |
Per chi volesse approfondire la conoscenza di questo giovane poeta Russo, SERGÈJ ESÈNIN (1895-1925), pubblico qui, da WIKIPEDIA, un trattato di LEV TROTSKY ( 1879-1940), il famoso politico, rivoluzionario della Rivoluzione d’Ottobre, nato nell’Ucraina allora ancora Russa, sulla sua figura e personalità artistica:
“Abbiamo perso Esenin, un poeta così meraviglioso, così fresco, così vero. E in che modo tragico l’abbiamo perso! È andato via da solo, ha salutato col sangue l’amico indefinito, magari tutti noi. Questi suoi versi sono impressionanti per quanto riguarda la loro dolcezza e leggerezza! Ha abbandonato la vita senza un grido di rancore, senza una nota di protesta – non sbattendo la porta, ma accompagnando la chiusura con la mano, una porta dalla quale grondava sangue. In questo posto l’aspetto poetico e umano di Esenin è scoppiato in un’indimenticabile luce di addio. Esenin componeva scottanti canti ”di un teppista” e tradiva i versi nelle maliziose osterie di Mosca. Lui non di rado ha fatto uso del gesto violento, della parola aggressiva. Ma nonostante ciò rimaneva in lui la dolcezza particolare di un animo insoddisfatto, indifeso. Esenin si nascondeva dietro l’aggressività, si nascondeva ma non è riuscito a nascondersi. Non ce la faccio più, ha detto il poeta il 27 dicembre vinto dalla vita, ha detto senza gesta di sfida e senza rimproveri… Ci tocca parlare della sua insolenza perché Esenin non scriveva solo poesie ma mutava il suo modo di comporre a causa delle condizioni del nostro tempo non del tutto delicato e assolutamente rigido.
Si nascondeva dietro ad una maschera spavalda pagando questa sua scelta volontariamente con la corruzione dell’anima. Esenin si sentiva sempre estraneo. Non è per lodarlo, proprio a causa di questa estraneità abbiamo perso Esenin. Ma non è nemmeno per rimproverarlo: ha senso lanciare il rimprovero affinché raggiunga il più lirico dei poeti, che non siamo riusciti a proteggere per noi? Il nostro tempo è un tempo severo, magari uno dei più severi della storia dell’uomo cosiddetto civilizzato. E lui invece di essere un rivoluzionario, nato per vivere in questi decenni, era ossessionato da un severo patriottismo della sua epoca, della sua patria, del suo tempo. Esenin non era un rivoluzionario. Autore di Pugacev e de La Ballata dei ventisei era un poeta lirico. E la nostra epoca non è lirica. È questa la causa fondamentale per cui autonomamente e così presto, si è allontanato per sempre da noi e dalla sua epoca. Le radici di Esenin sono profondamente popolari e, come ogni sua cosa, la sua identità popolare era autentica. Di questo, senza dubbio, vi è testimonianza non in un poema che narra della rivoluzione, ma ancora una volta in una sua lirica:
”Silenziosamente nel bosco folto di ginepri vicino al dirupo
l’autunno, giumenta arancione, si gratta la criniera”
L’immagine dell’autunno e molte altre immagini lo hanno plasmato sin dall’inizio, come l’immotivata spavalderia. Ma il poeta ci ha posti di fronte alle radici cristiane della propria cultura e ci ha obbligati accoglierle dentro di noi. Fet non avrebbe detto così e nemmeno Tjutcev. Risultano forti in Esenin le radici cristiane, riflesse e modellate dal talento. Ma è nella fortezza della sua cultura cristiana che risiede la motivazione della debolezza personale di Esenin: dal passato lo hanno strappato con le radici, radici che nel presente non hanno attecchito. La città non lo ha rafforzato, ma lo ha fatto traballare e lo ha estraniato. Il viaggio all’estero, in Europa e oltre oceano, non lo ha raddrizzato. Lo ha accolto più calorosamente Teheran rispetto a New York. La sua lirica, proveniente da Riazan, ha trovato più popolarità in Persia che nei centri culturali europei e americani. Esenin non era né ostile alla rivoluzione né etraneo ad essa; anzì, tendeva sempre verso di lei, da un lato nel 1918:
”Mia madre – Patria, sono un bolscevico”
dall’altro lato, negli ultimi anni:
”Adesso nel paese dei Soviet,
sono il più impetuoso compagno di strada”
La rivoluzione ha fatto irruzione sia nella struttura della sua poesia sia nelle immagini, soprattutto per mezzo delle citazioni, successivamente con i sentimenti. Nella catastrofe del passato, Esenin non ha perso nulla e non ha rimpianto nulla della catastrofe. No, il poeta non era estraneo alla rivoluzione – lui e la rivoluzione non erano fatti della stessa pasta. Esenin era intimo, tenero, lirico – la rivoluzione è pubblica, epica, catastrofica. Per questo la breve vita del poeta si è troncata in maniera così catastrofica. Si dice che ognuno di noi porta dentro di sé la molla del proprio destino, ma la vita dispiega questa molla fino alla fine. In questo c’è solo una parte di verità. La molla dell’attività letteraria di Esenin, dispiegandosi, si è infranta sul limite dell’epoca, si è rotta. Esenin ha tante strofe preziose, colme di avvenimenti. Di questi è circondata tutta la sua attività letteraria. Allo stesso tempo Esenin è estraneo. Non è il poeta della rivoluzione.
”Sono pronto ad andare lungo il terreno già battuto,
darò tutta l’anima all’Ottobre e al Maggio
Ma solo la lira non darò alla cara ndr. rivoluzione”
La sua molla lirica avrebbe potuto dispiegarsi fino alla fine solo a condizione di avere una società armoniosa, felice, in cui non regna il conflitto ma l’amicizia, la tenerezza, la partecipazione. Questo periodo arriverà. Dopo il periodo attuale, in cui si nascondono ancora spietati e salvifici scontri uomo contro uomo, arriveranno altri tempi, gli stessi che si stanno preparando con gli scontri odierni. L’essere umano allora sboccerà del suo autentico colore. E assieme a lui, la lirica. La rivoluzione per la prima volta non solo riconquisterà il diritto al pane per ogni uomo, ma anche alla lirica. A chi stava scrivendo Esenin col sangue prima di morire? Magari ha interloquito con un amico che non è ancora nato, con un uomo del futuro che qualcuno sta preparando con il conflitto, Esenin con i canti. Il poeta è morto perché lui e la rivoluzione non erano fatti della stessa pasta. Ma, nel nome del futuro, lei lo adotterà per sempre. Esenin era teso verso la morte sin dai primi anni della sua attività letteraria, consapevole della propria fragile condizione interiore. […]
Solo adesso, dopo il 27 dicembre, magari tutti noi, conoscendo poco o non conoscendo affatto il poeta, possiamo apprezzare fino alla fine la sincerità intima della lirica eseniana in cui quasi ogni verso è scritto col sangue delle vene tagliate. Lì c’è una pungente amarezza data dalla perdita. Ma non uscendo dal proprio circolo personale, Esenin trovava un conforto malinconico e toccante nel presentimento della sua imminente scomparsa:
”E, l’ascolto del canto nel silenzio
L’amata mia in compagnia di un altro amato
Magari si ricorderà di me
Come di un ineguagliabile fiore”
E nella nostra coscienza la ferita dolorante e non ancora completamente rimarginata si consola al pensiero che questo meraviglioso e autentico poeta a modo suo ha raccontato la sua epoca e l’ha arricchita di canti, parlando d’amore in modo innovativo, del cielo azzurro, caduto nel fiume, della luna, che come un agnello pascola nel cielo, e dell’ineguagliabile fiore, di se stesso. Durante le sue celebrazioni non vi deve essere nulla di triste o decadente. La molla, posta nella nostra epoca, è smisuratamente più forte della molla personale posta in ognuno di noi. La spirale della storia si dispiegherà fino alla fine. Non bisogna opporsi ad essa ma aiutare i pensieri e le volontà con consapevoli sforzi. Stiamo preparando il futuro! Continueremo a conquistare per ciascuno il diritto al pane e il diritto al canto. È morto il poeta. Evviva la poesia! È caduto nel burrone un bambino indifeso. Evviva la vita ricca di attività artistica, in cui fino all’ultimo minuto Sergej Esenin ha intrecciato i fili preziosi della sua poesia.”
BREVE RIFLESSIONE SULLA VITA E SULLA MORTE.
Tre cose accadute oggi.
E la vita è così forte
che attraversa i muri per farsi vedere,
la vita è così vera
che sembra impossibile doverla lasciare,
la vita è così grande
che, quando sarai sul punto di morire,
pianterai un ulivo,
convinto ancora di vederlo fiorire.
Mi sono venuti in mente questi meravigliosi versi della canzone “Sogna ragazzo, sogna” di uno dei miei autori di poesie in musica preferiti, Roberto Vecchioni, perché, nel cortiletto davanti a casa mia, ho appena collocato, non dico messo a dimora, perché era già in vaso da qualche decennio, una pianta di ulivo, valendomi della consulenza preziosa di una cara amica, che di ulivi se ne intende e che mi ha aiutato. Mi sono interrogato se mai fossi ancora convinto di poterne vedere la fioritura ed i frutti e, chissà perché, con una coincidenza alchemica e profetica, sono successe proprio oggi due fatti di vita e di morte che, per quanto non mi coinvolgano in prima persona, mi sono tuttavia balzati alla mente come momenti di riflessione.
Mi telefona mio figlio Alexis, in giro per l’Italia per lavoro, che avrebbe dovuto incontrarsi con il suo titolare Alessandro, uno dei due ingegneri giovani che hanno fondato l’Azienda per la quale lui lavora, per andare insieme da certi clienti. È arrivata invece la ferale notizia che il padre di Alessandro era stato trovato senza vita a causa di arresto cardiaco. Il padre era ancora giovane, appena settant’anni, ed era stato un medico, ora in pensione, una persona equilibrata ed attenta ad una condizione e conduzione di vita rispettose della salute. Eppure, la falce lo ha rasato con un colpo secco, senza pietà.
Mio figlio era sconvolto. Mi ricordava quanto questo medico gli fosse stato vicino recentemente per consigliarlo su come uscire presto ed indenne dalla recente pandemia: lo aveva seguito, seppur telefonicamente, giorno per giorno, informandosi costantemente sul suo stato di salute. E mi ha detto: “Papà, non è giusto. Senza avvisaglie, senza trasgressione alcuna delle precauzioni di una sana procedura di vita, come può avvenire una cosa di questo genere?”.
Cercava, il mio ragazzo, una motivazione razionale, un appiglio consequenziale, un rapporto credibile di causa ed effetto fra la vita e la morte.
È uno di quei momenti in cui la mente corre, senza freni, alla ricerca di una risposta nella volontà superiore di un destino o di un Dio.
Ma, se Dio esiste, perché non elargisce quaggiù, su questa terra ed in questa vita, un premio od un castigo alle persone a secondo dei loro meriti o demeriti, con una appendice di esistenza terrena, risarcitoria o punitiva e, comunque, riparatrice ed equiparatrice di ogni male provocato o subito?
Il sillogismo porterebbe alla scontata conclusione che le buone e brave persone meriterebbero di raggiungere la parte finale della loro esistenza, in salute ed in pace, e di andarsene senza traumi, né per loro stessi, né per i loro cari. E, al contrario, chi ha sprecato la propria esistenza dietro futili chimere, o spregiudicate avventure, per non dire esecrabili scopi delittuosi, potrebbe trovarsi a scontare le proprie malefatte, subendo un accorciamento della propria aspettativa di vita. Se io fossi Dio, così farei. E applicherei la “giustizia divina” in questa vita, dove a tutti è palese ogni merito o demerito, a seconda del premio o castigo maturato: un “surplus” o un “surminus” di vita. Sarebbe, oltre tutto, molto più illuminante e didascalico, cioè insegnerebbe a tutti, senza bisogno di prediche e moralismi ipocriti, come si sta a questo mondo.
Per felice contrappasso, mi giunge anche la bellissima notizia che un mio caro amico, di cui altrove ho parlato, e la cui salute mi sta veramente a cuore, eviterà un ulteriore intervento chirurgico, che si era prospettato come probabile, qualora si fossero verificate certe condizioni. Per fortuna o per suo merito, queste condizioni non si sono presentate, perciò niente operazione e …. la vita continua.
Anche questa, per me, è una riprova di quanto sia auspicabile che la vita sia elargita, anche solo come prolungamento, a chi l’ha ben vissuta e, meritoriamente, ha accumulato crediti e bonus. A patto che la vita sia un piacere e non una pena da vivere, e non sempre è così. Anzi, io renderei piacevole, come non mai, la vecchiaia, cioè proprio questa prosecuzione di vita, per chi l’ha ben meritata, ed escluderei, come indegni, coloro che la propria vita hanno passato malamente per se e per gli altri.
Se solo ci fosse Dio. Un Dio giusto.
Chiudo questa breve riflessione con alcuni altri versi della stessa poesia-canzone che l’ha cominciata, e li dedico a mio figlio:
Sogna, ragazzo, sogna,
quando cade il vento ma non è finita,
quando muore un uomo per la stessa vita
che sognavi tu.
E, per finire:
Sogna, ragazzo, sogna,
ti ho lasciato un foglio
sulla scrivania,
manca solo un verso
a quella poesia,
puoi finirla tu.
S E N S A Z I O N I I N P U N T O D I M O R T E
In uno studio condotto a Londra, si sono riprodotte le condizioni di pre-morte su alcuni volontari, che hanno poi condiviso le esperienze paranormali.
Nell’esperimento, i volontari sono stati sedati con il DMT, una sostanza che provoca allucinazioni intense al limite del trascendente. I ricercatori hanno utilizzato il DMT perché è una sostanza largamente presente nel fluido cerebrospinale e, con molta probabilità, rilasciata nel corpo durante gli ultimi attimi di vita.
I 13 volontari dello studio hanno parlato di esperienze extracorporee, di una pace interiore e una sensazione di passaggio verso una dimensione quasi paradisiaca.
Particolarmente significativa la testimonianza di una volontaria che ha dichiarato di sentirsi disincarnata e di avere avuto la sensazione di entrare in un tunnel dopo il quale il tempo e lo spazio erano configurati in modo astratto. Una “zuppa cosmica”, l’ha definita.
Molte delle dichiarazioni dei volontari corrispondono a quelle riportate da coloro che dichiaravano di avere avuto un’esperienza di pre-morte.
Dunque sembrerebbe che, durante gli ultimi attimi della vita, l’organismo produca la sostanza DMT così da produrre allucinazioni che ci proteggeranno dallo shock che sta per accadere.
Ancora una volta, il corpo umano sorprende per la sua perfezione.
La morte di un uomo anziano
è come una biblioteca in fiamme.
Proverbio Africano.
Morire non è nulla,
non vivere è spaventoso.
Victor Hugo.
Il segreto della vita,
è morire giovani,
ma il più tardi possibile.
Proverbio ZEN
I cimiteri sono
pieni di persone
che pensavano di
essere indispensabili.
George Clemenceau.
Mandata da una carissima amica.
Non è importante contare
le persone che passano,
è importante che restino
le persone che contano.
N.d.R. : dedicata ad un carissimo amico.
T E S T A M E N T O S P I R I T U A L E
Come seguito del Numero2202., che invito a leggere come premessa necessaria, qui tento di approfondire le mie idee sulla MORTE E L’ALDILÀ. Anche stavolta, come ho fatto al Numero citato, sono ricorso alla formula della rima e della metrica: ho cambiato, però, la disposizione dei quattro versi della strofa . I primi due versi sono liberi, i secondi due sono rimati con finale fisso ( desinenza in ale) per 36 strofe, come nel Numero2202.. Tutti i versi sono, questa volta, non senari ma settenari, cioè composti di 7 sillabe, rispettando le elisioni vocaliche di fine e inizio delle parole. Il contenuto dell’argomento è un riassunto per sommi capi, senza pretese, senza uno schema, magari saltando di palo in frasca, delle mie personalissime convinzioni in merito a temi così importanti e dibattuti.
Non stupitevi se non condivido le affermazioni, oggetto di fede cattolica, su Inferno, Paradiso e sul collocamento delle anime eternamente destinate ad espiare peccati o a godere di celestiali armonie. Tutto quanto mi è stato insegnato fin da piccolo, e anche trattato con maestria da Padre Dante, l’ho sottoposto, dentro di me, a revisioni e recensioni critiche nell’arco di decenni, arrivando, per gradi, ad un mio personale panorama, misto di intuizione e di razionalità, di aspettativa e di speranza, che mi ha portato ad adagiarmi su una specie di autoconvincimento, che qui espongo, su questo argomento sconosciuto perché inconoscibile.
Confesso, con assoluta trasparenza, che quello che penso e dico non è assolutamente provato: non è possibile provarlo compiutamente, a ragion veduta.
Ci sono molti indizi. Ad esempio il ritorno dello spirito, trapassato nell’aldilà, in altro corpo è oggetto di indagine di molte correnti di pensiero e dottrina di fede di diverse religioni sulla terra, ma non è mai stato suffragato da prove inconfutabili. Mi interessa poco. Così come non m’interessano argomenti come il libero arbitrio, la possibilità di scelta o la capacità di decisione che è fatta di volontà e di libertà. Mi interessa la morte come passaggio ad una dimensione che sarà nota solo dopo averla raggiunta e che, come leggerete, io stesso sono curioso di raggiungere.
Chi ha detto che solo questa vita corporea è l’unica situazione di essere e benessere dell’anima? Restare avvinghiati ostinatamente ad un corpo consunto può darsi che non sia la soluzione migliore ad un certo momento dell’esistenza fisica. Può darsi che sia l’anima stessa che si vuole liberare del suo involucro deteriorato e aspiri ad un “grado di libertà” più alto e più appagante. Per me, guardare tutto nell’ottica della fede inculcata, ma mai provata, mi sta stretto. Vorrei saperne di più. Ma l’unico modo per farlo è….morire.
Q U A N D O V I E N E L A M O R T E
Quando viene la morte,
che n’è dello spirito?
La sua forza vitale,
che è esistenziale,
emigra in altro sito,
liberata dal corpo,
che l’ha resa reale
e diventa immortale.
È altra dimensione
dove ogni suo valore
non resta più uguale,
dove il bene ed il male
non saranno gli stessi
che valevano prima:
il criterio morale
diventerà banale
perché là l’energia
non ha più fisicità
e quello che qui vale,
nel nostro tribunale,
di là non conta niente,
non è come si crede:
tutto sarà veniale
il bene come il male.
È un’ipotesi mia,
non lo so, ma ci credo:
è una fede mentale,
un parto intellettuale.
Pur se piange qualcuno
che non puoi consolare,
lì, al tuo capezzale,
quando tu starai male,
che ti frega del mondo
che stai per lasciare
se sei in ospedale
o al tuo funerale?
Pensa all’anima tua
che rinasce più pura,
che s’eleva e che sale
nell’eterea spirale.
E, se sei stato buono,
tu sarai più leggero,
a percorrere il viale
del tramonto finale.
Però non ti crucciare,
se male avrai vissuto.
Peccato originale
o pena capitale,
tutto è cancellato
da un salvifico reset:
la fedina penale
ritornerà normale.
Io non temo la morte,
anzi, sono curioso:
è uno slancio sensuale
a una vita virtuale.
La vita che hai fatto
ti condanna o ti premia:
rivivrai tale e quale
il bilancio morale.
Un handicap ti spetta:
tu riparti più indietro,
se hai fatto del male;
se no, rimani tale.
La coscienza ti aiuta
per trovare la pace
nel momento fatale
di morte naturale.
Questo è ciò che ho capito
vivendo la mia vita:
non è un carnevale
o una lotta bestiale.
È un percorso creativo
e di rinnovamento:
riscatto spirituale
dallo stato animale.
Quando tu rinascerai
alla nuova esistenza,
la dote cerebrale
sarà “condizionale”
per riorganizzare
il piano della vita,
per questo sei speciale,
nessuno ti è uguale.
L’anima non muore mai,
neanche dopo la morte:
è forza celestiale,
entità universale.
Per veder se sei morto
e lasci questo mondo,
se un dubbio ti assale,
non leggere il giornale.
Così, viva la vita,
a causa della morte.
Vi sembrerà banale,
ma questo è radicale.
Che ci sia altra vita
dopo quella vissuta
non mi pare anormale,
niente d’ eccezionale.
Credo che lo spirito
sia eternamente vivo,
trionfo immateriale
sulla scorza animale.
La morte è un parcheggio
dove si paga un ticket,
è la tassa tombale
per un’anima astrale.
Per ognuno è diversa,
non è noto l’importo,
né l’esborso venale
esiguo o colossale.
Chi ci sia alla cassa
non è dato sapere:
la sentenza arbitrale
è comunque imparziale.
Questo mio pensiero
non vuole fare scuola,
niente di dottrinale
né d’anticlericale,
sono elucubrazioni
senza secondi fini,
esercizio verbale
di taglio razionale.
È solo una speranza,
forse una fantasia,
un trucco concettuale,
retaggio ancestrale
di ore che ho passato
sui miei sudati libri:
l’ignoranza abissale
è stata il mio messale.
Chissà, forse ho pensato
molto più che vissuto,
essere un asociale
mi è parso abituale,
ma ho trovato conforto,
coi miei limiti umani,
nel mondo culturale,
nella sfera ideale.
Per la tua riflessione,
dedico questi versi,
lascito spirituale,
a te, figlio mio, Ale.
N.d.R. : Se siete arrivati fino in fondo e non vi siete annoiati, vi ringrazio per la pazienza e l’attenzione che mi regalate leggendo le mie “panzane”. Questo, che avete appena letto, con le sue rime sempliciotte e uno stile fra il serioso e il faceto, si potrebbe definire un piccolo trattato di filosofia teoretica spicciola ad uso personale che, con la pubblicazione, si rimette al giudizio critico dei pochi lettori che hanno la bontà di seguirmi. Se, anche stavolta, riuscirò a suscitare qualche reazione, di qualsivoglia natura, in merito alle mie “elucubrazioni”, ne sarò onorato e sarò oltremodo felice di pubblicare i commenti al riguardo. Se non ve la sentite di intraprendere un’impresa così impegnativa, grazie anche solo per avermi letto. Almeno, mi sarò fatto conoscere meglio da chi poco mi ha frequentato e superficialmente con me ha condiviso tempo e idee.
Forse coglierete in questa mia insistenza ad affrontare temi così spinosi e complessi, un “cupio dissolvi”, che in latino significa “desiderio di scomparire”: non è così. E, magari, una certa volontà di strafare, esagerare, una sottolineatura fuori luogo e non necessaria. Accetto l’osservazione, ma vado oltre. Anche stavolta, più che mai, ribadisco il concetto informatore di questo BLOG: qui, io penso quello che dico e dico quello che penso. Altrimenti non mi sarei cimentato in quest’impresa. Questo è uno spazio di libertà, mio e di tutti, e nei riguardi di qualunque argomento.
Come trovate al Numero2209, recentemente pubblicato, Voltaire dice: “Giudica un uomo dalle sue domande, piuttosto che dalle sue risposte”. Qui, io mi sono interrogato ed ho risposto a modo mio. Non intendo insegnare niente a nessuno, perché sarebbe follia pretendere di insegnare ciò che non si sa. Non ho mai trovato l’argomento “morte” fra le materie della didattica umana. Ma, vivaddio, parlarne si può a livello di scambio d’idee e qui vi ho esposto le mie.
Buona vita a tutti.
N.d.R. : Ricordo e ripeto, perché mi sembra molto attinente al contesto, il seguente (che poi è precedente)
Come si fa a vivere
in compagnia di un’assenza?
Dopo aver imparato a vivere,
imparerò a morire.