Numero1437.

Mormora fioco l’inverno

nei ricordi di carta.

Ancora nella tua stanza

chiusa si sente

l’alito di brace spenta.

Un desiderio di vento

scavalca la vetrata

e s’interrompe, e sparge

brace sui pavimenti.

 

Tu mi hai raccolto, perché avevo freddo.

 

Roberto Vecchioni.

Numero1433.

Figlio chi ti insegnerà le stelle

se da questa nave non potrai vederle?

Chi ti indicherà le luci della riva?

Figlio, quante volte non si arriva!

Chi ti insegnerà a guardare il cielo

fino a rimanere senza respiro?

A guardare un quadro per ore e ore,

fino ad avere i brividi dentro al cuore?

Che al di là del torto e la ragione,

contano soltanto le persone?

Che non basta premere un bottone

per un’emozione?

 

Figlio,figlio,figlio.        Roberto Vecchioni

Numero1431.

Il 20 Settembre 2013, alle redazioni dei giornali di tutto il mondo, quindi anche di quelli Italiani, arriva una notizia di Agenzia, (in Italia ADNKRONOS) che lascia di stucco i destinatari e che, lì per lì, viene scambiata per una “fake news”.
Dice il testo che l’Accademia Reale Svedese, responsabile incaricata delle “nominations” ai “Premi Nobel”, starebbe per comunicare che , per il “Nobel” della Letteratura 2013, esiste una terna di nomi di candidati “a sorpresa”.
Veramente, a sorpresa, c’era già stata, nel 1997, l’assegnazione del “Nobel” per la Letteratura ad un personaggio molto impegnato nel mondo dello spettacolo, più che  nella produzione libraria: quel geniale, strampalato “giullare medioevale”, che rispondeva al nome di Dario Fo. Evidentemente, si sta instaurando la moda che, per la Letteratura, si deve far riferimento anche ad altre e diverse forme espressive che non siano solo quelle della consueta produzione letteraria cartacea: lo spettacolo, gli audiovisivi, e quant’altro si sta diffondendo come mezzo di comunicazione e di trasmissione del messaggio d’arte letteraria. Questa volta toccherebbe al mondo della canzone, come veicolo culturale che, per la prima volta, viene elevato al rango di arte popolare.

Infatti, questi sono i nomi dei 3 candidati:

Leonard Cohen, cantautore, poeta, scrittore Canadese, chiaramente di religione Ebraica, conosciuto in tutto il mondo per le sue composizioni di canzoni profondamente ispirate alla sfera intima dell’uomo, alla religione, all’isolamento, alla sessualità. Al momento della notizia, Cohen ha 79 anni.

Bob Dylan, anche lui cantautore, poeta e scrittore, mostro sacro di generazioni di giovani, contestatori e pacifisti, anche lui di religione Ebraica, in seguito convertito al Cristianesimo, ma niente affatto coinvolto e piuttosto agnostico.
Vero “guru” dei generi musicali “folk rock”, “country rock”, “gospel” e via dicendo. Nel 2013, Dylan (vero cognome Zimmerman) ha 72 anni.

Il terzo candidato della terna, e qui sta la vera sorpresa, è un cantautore Italiano.

La notizia non ebbe seguito. Si pensò ad una presa in giro. Infatti, il “Nobel” per la Letteratura del 2013 venne assegnato ad Alice Munroe, scrittrice Canadese regina del “romanzo breve”, di larga divulgazione.
Alcuni giornalisti interpellarono la Segreteria dell’Accademia Svedese, chiedendo se avesse fondamento la notizia di cui sopra. La risposta fu che non era loro abitudine riferire alcunché in merito a “candidature”, “nominations” o quant’altro, per motivi di riservatezza o privacy delle persone coinvolte.

Ma chi sarebbe il cantautore Italiano che avrebbe avuto la candidatura?
Sì, è proprio lui, il nostro “professur” di latino e greco al Liceo Beccaria di Milano e in altri Licei Classici della Lombardia, che andava a scuola con i jeans e la camicia bianca sbottonata e che parlava ai suoi studenti come a suoi pari, grande poeta e musicista raffinato e paradossale nella sua “classicità”, che attinge l’ispirazione nel passato per  cristallizzare l’eternità dei pensieri e dei sentimenti in una compartecipe modernità: Roberto Vecchioni.

Leonard Cohen è morto il 7 Novembre 2016. Non avrà mai il “Premio Nobel” perché non viene assegnato postumo o alla memoria.

Bob Dylan ha avuto il “Premio Nobel” per la Letteratura a 75 anni, il 13 Ottobre dell’anno 2016, lo stesso in cui muore, 25 giorni dopo, Leonard Cohen. Lo ha ritirato il 1 Aprile 2017.

Allora, forse quella notizia, poco credibile e stravagante, non era una bufala.

Senza atteggiarmi presuntuosamente a mago o veggente, avanzo qui e ora, 10 Luglio 2019, la previsione che, in uno dei prossimi anni a venire, Roberto Vecchioni riceverà il “Premio Nobel” per la Letteratura.
“Giorno verrà, presago il cor mel dice”.

 

Numero 1257.

 

FORMIDABILI   QUEGLI   ANNI

 

Noi non siamo della razza

di chi frigna e si dispera,

come zombie di un passato

che sembrava primavera.

 

A fanculo ogni rimpianto

che non sono roba vera,

la malinconia è uno sguardo

e la vita è roba seria.

 

E se passi un solo giorno

senza farti una domanda,

senza un grido di stupore,

l’hai mandata al creatore.

 

Formidabili quegli anni,

formidabili quei sogni nei miei sogni,

la malinconia bevuta, gli occhi insonni,

formidabili quei giorni nei miei giorni….

 

….noi siam quelli del rimorso

prima ancora del peccato,

siamo i primi della classe

di un amore immaginato.

 

E le libertà che avete

mica c’erano a quei tempi,

noi ci siamo fatti il culo,

tocca a voi mostrare i denti……

 

….ed è proprio aver vissuto

che ci fa vivere ancora

ed è proprio aver perduto

che ci fa credere ancora.

 

Roberto Vecchioni     Formidabili quegli anni.

Numero1159.

.
Più di sessant’anni fa, frequentavo la quinta classe del Ginnasio al Liceo Classico Jacopo Stellini di Udine. Per un breve periodo, avemmo, come supplente della professoressa d’Italiano, una giovane insegnante, laureata di fresco. Stavamo studiando il Leopardi, e lei stava spiegando, infervorata e con una certa teatralità, la famosa ode “La quiete dopo la tempesta”. Ci si accorgeva che era inesperta, che un po’ recitava, forse per darsi un tono, o uno stile, che ancora non aveva. Dopo averla seguita con pazienza nel suo sproloquio didascalico, io mi alzai e buttai lì la mia polpetta avvelenata: sostenni di aver trovato, in una vecchia antologia della Letteratura Italiana, il testo di un’ode intitolata “Temporale estivo”, presumibilmente del Leopardi, che costituiva l’antefatto, in sequenza cronologica, di cui “La quiete dopo la tempesta” sarebbe stata la prosecuzione. La giovane professoressa mi chiamò alla cattedra per essere interrogato e mi chiese di parlare di questa poesia, che, in realtà, non risultava scritta da nessuna parte, e che esisteva solo nella mia immaginazione e nella mia memoria. L’avevo inventata io di sana pianta, in perfetto e credibile stile leopardiano, come potrete leggere. Così gliela recitai, dalla prima all’ultima parola. Lei volle che gliela mettessi per iscritto, mi diede un bel voto e cominciò una zuccherosa recensione dell’ode truffaldina, senza metterne minimamente in dubbio la provenienza e l’attribuzione. Tutta presa nella sua esposizione oratoria, non si accorgeva delle sghignazzate in silenzio e degli ammiccamenti furtivi dei miei compagni di classe, che si erano accorti della burla, anche perché mi conoscevano bene e sapevano che ero in grado di creare un “falso d’autore” di un tale livello.
Il giorno dopo, all’ora d’Italiano, la giovane insegnante ci informò che aveva cercato dappertutto il testo che le avevo consegnato, ma che non era riuscita a trovarlo. Allora, io mi alzai, chiesi scusa della gherminella, e confessai che la poesia, effettivamente, l’avevo scritta io. I miei compagni erano sotto i banchi per le risate. Ma lei si arrabbiò di brutto, prese il foglio con il testo e andò dal preside. Al suo ritorno, un bidello mi disse che dovevo presentarmi in Presidenza. Il preside era un tipo un po’ particolare, noi lo chiamavamo, familiarmente, “Bagigio”. Non ricordo neanche perché. Questi mi fece una lavata di testa, mi richiamò al rispetto degli insegnanti, che non dovevano essere fatti bersaglio di scherzi. Però, poi, volle sincerarsi, con la poesia in mano, che fossi proprio io l’autore e me la fece, prima scrivere e poi recitare, seduta stante. Cosa che feci, disinvoltamente. Lui si fermò a pensare un po’, in silenzio, poi, boffonchiando qualcosa fra sé, si lasciò sfuggire una frase che assomigliava a qualcosa come: “Accidenti, ci sarei cascato anch’io!”.

 

Qui, di seguito, il testo.

 

TEMPORALE  ESTIVO

Di piombo è il cielo
e scuro di cupi nembi;
scende sulla natura
un velo opaco di morte.
Apronsi le porte ai venti.
Scendon dall’alto irati
come falchi dal nido
sull’umile preda,
imperversan sui prati,
per l’aie, negli orti,
piegan gli intorti
rami sibilando.
E, con loro,
l’arida polve
s’alza sconvolta
dal turbo fuggente
che tutto involve.
L’alta arbore tronfia,
piegata da cotal possanza,
china l’agile chioma
e piange, sull’erba del prato,
le infiacchite foglie
che il vento raccoglie
e guida in frenetica danza.

Scende la pioggia,
violenta sui tetti,
di striscio sui muri,
picchietta argentina
sugli otri, sui vasi,
sui ferrei portali,
bevanda divina
sull’aride zolle
da tanto satolle
d’estiva calura.
Sull’uscio di casa,
il pio colono
alza il guardo pregando:
“O Dio del cielo,
persa non sia
la mia fatica
da ria furia inimica:
il raccolto m’è vita!”
Così sperando dice
e il cielo acconsente;
omai lontan si sente
quell’irato tuonar.
Sbadiglia una finestra
disserrando le imposte,
spiove la gronda,
scola la fronda antica
la quercia dell’orto,
si ripopola l’aia,
s’ode vivace e gaia
la sinfonia consueta.

Da qui, a seguire, si poteva recitare “La quiete dopo la tempesta” in un “continuum”  di sacrilega impostura.

 

Numero252.

 

L ‘ U C C E L L E T T O   I N   C H I E S A.

 

 

Poesia popolare erroneamente attribuita a Trilussa, ma scritta da un suo contemporaneo semisconosciuto, tale Natale Polci.

Ne esistono varie versioni.
Di quella originale è famosa la recita di Andrea Bocelli.
Eccola.

 

Era d’agosto e un povero uccelletto,
ferito dalla fionda di un maschietto,
andò, per riposare l’ala offesa,
sulla finestra aperta di una chiesa.

Dalle tendine del confessionale,
il parroco intravvide l’animale,
ma, pressato dal ministero urgente,
rimase intento a confessar la gente.

Mentre, in ginocchi alcuni, altri a sedere
dicevano i fedeli le preghiere,
una donna, notato l’uccelletto,
lo prese al caldo e se lo mise al petto.

D’un tratto un cinguettio:  a quel rumore,
il prete smise di fare il confessore
e, scuro in viso, peggio della pece,
s’arrampicò sul pulpito e poi fece:

“Fratelli, chi ha l’uccello, per favore,
esca fuori dal tempio del signore”.
I maschi, un po’ sorpresi a tal parole,
si accinsero ad alzar le suole.

Ma il prete, a quell’errore madornale,
“Fermi – gridò – mi sono espresso male!
Rientrate tutti e statemi a sentire:
solo chi ha preso l’uccello deve uscire”.

A testa bassa e la corona in mano,
cento donne si alzarono pian piano.
Ma mentre se ne andavan, ecco allora
che il parroco gridò: “Sbagliate ancora!”.

“Rientrate tutte quante, figlie amate,
io non volevo dir quel che pensate,
ma, mi rivolgo, non ci sia sorpresa,
solo a chi l’uccello ha preso in chiesa”.

Finì la frase e, nello stesso istante,
le monache s’alzaron tutte quante
e, con il volto pieno di rossore,
lasciavano la casa del Signore.

“O, Santa Vergine!” esclamò il buon prete,
“fatemi Voi la grazia, se potete”.
“Poi – dico – senza far rumore, piano piano,
s’alzi soltanto chi ha l’uccello in mano”.

Una ragazza che, col fidanzato,
s’era messa in un angolo appartato,
sommessa mormorò col viso smorto:
“Che ti dicevo, hai visto, se n’è accorto!”.

 

Io presento questa (parte 1), semplificata, riveduta, corretta e integrata.
Seguirà una parte 2 a commento e corollario.

 

P A R T E   1

 

Era d’Agosto e un povero uccelletto,
ferito dalla fionda di un maschietto,
si rifugiò, per riposare l’ala offesa,
nell’interno affollato di una chiesa.

Dalle tendine del confessionale,
il parroco intravvide l’animale,
ma, preso dal ministero urgente,
continuò a confessar la gente.

Mentre i fedeli stavano a sedere,
intenti a recitare le preghiere,
una donna, notato l’uccelletto,
lo prese e se lo mise dentro al petto.

D’un tratto, nel silenzio, un cinguettio:
cip cip cip cip, pio pio pio.
Ci fu allora, qua e là, qualche risata,
ma il prete, vista la mala parata,

indispettito da un tale rumore,
smise tosto di fare il confessore
e, col volto scuro come la pece,
s’arrampicò sul pulpito e poi fece:

“Fratelli, chi ha l’uccello, per favore,
abbandoni la casa del Signore”.
I maschi, un po’ sorpresi a tal parole,
lenti e perplessi alzarono le suole.

Ma il prete, a quell’errore madornale,
“Fermi – gridò – mi sono espresso male!
Tornate indietro e statemi a sentire:
solo chi ha preso l’uccello deve uscire !”

A testa bassa e la corona in mano,
le donne tutte uscirono pian piano.
Ma, mentre andavan fuori, ecco allora
che il parroco gridò: “Sbagliate ancora!

Per l’amor del cielo, dove andate?
Io non volevo dir quel che pensate!
Dico, invece, e non vi sia sorpresa,
che mi rivolgo a chi l’ha preso in chiesa !”

A capo chino e nello stesso istante
le monache si alzaron tutte quante
e, con il volto pieno di rossore,
lasciarono il tempio del Signore.

“Per tutti i santi, no ! -gridò il prete-
Sorelle, rientrate e state quiete.
Convien finire, fratelli peccatori,
l’equivoco e la serie degli errori :

esca soltanto chi è così villano
da stare in chiesa con l’uccello in mano”.
Una ragazza, col suo fidanzato,
nascosta in un angolo appartato

di una cappelletta laterale,
poco mancò che si sentisse male
e, con il volto pallido e smorto,
disse: “Ecco, lo sapevo, se n’è accorto !”

 

(Quel che segue è un’appendice….. personale).

 

Ecco, qui finirebbe questa storia,
ma tutti i salmi finiscono in gloria.
Magari non noterete il distacco,
ma ciò che segue è farina del mio sacco.

Ammainò la bandiera mestamente
quel fidanzato: non se ne fece niente.
Però, per rincarare un po’ la dose,
voglio parlare ancora di morose.

In veste di giullare narratore,
pur nel rispetto del tempio del Signore,
per partecipare allo scherzo pure io,
ho pensato di metterci del mio.

Ho creato un’aggiunta birichina
con una licenziosa battutina,
però, per arrivare a conclusione,
serve la vostra collaborazione.

Completate la frase prontamente
con quello che vi viene in mente,
così, la storia sarà più scherzosa
e la risata ancor più fragorosa.                         

Riprendendo da lì dove finiva
il testo, con la battuta conclusiva,
ho integrato la trama originale
con queste due strofe per il finale:

Ma in un angolo ancora più appartato,
un’altra ragazza col fidanzato,
fregandosene di trovarsi in chiesa,
non se ne diede affatto per intesa:

“la bocca sollevò dal fiero pasto”,
e col poco fiato che le era rimasto:
“Non se n’è accorto-disse-io non son sciocca,
perché l’uccello, io lo tengo in….. (bocca !)”.

 

P A R T E   2

 

Ma quale fine ha fatto l’uccellino,
dopo aver provocato quel casino?
La donna, vedova, viveva sola.
“Lo tengo con me, così mi consola”

disse, perciò a casa sua se lo portò,
lo nutrì e poi la ferita gli curò.
Fu libero di volare per la casa
che dal suo lieto canto venne invasa.

Morale della storia, brava gente:
con sé, ciascuno, sia più indulgente,
perché, se far l’amore è peccato,
dalla natura è presto perdonato.

Se far l’amore piace, tuttavia,
fatelo, almeno, senza ipocrisia,
così che ogni figlio sarà nato
dall’amore e non certo dal peccato.

Ma voglio dire, prima che ci caschi,
a ognuno dei miei colleghi maschi,
che ogni uccello, chiuso in una gabbia,
presto o tardi, morirà di rabbia.

E, per finire coi titoli di coda,
visto anche che, adesso, va di moda,
dico alle donne : “Fate una bella cosa!
Sopra la parte del corpo più pelosa,

sarà opportuno che vi tatuate :
Lasciate ogne violenza, voi ch’intrate.
Così, al padre Dante fate il verso
ed il bel gioco sarà assai diverso,

ché quella porta è, a mio avviso,
non dell’inferno ma del paradiso
e pur, senza meritar l’assoluzione,
godiamo, almeno, la soddisfazione”.

Numero1136.

 

‘A   L I V E L L A

di  Totò   (Antonio De Curtis).

 

 

Ogn’anno, il due Novembre, c’è l’usanza
di andare, per i defunti, al cimitero.
Ognuno ll’ha dda fa’ chista crianza,
ognuno ha dda tené chistu penziero.

Ogn’anno, puntualmente, nel giorno
di chista triste e mesta ricorrenza,
pur’io ci vado e, con i fiori, adorno
il loculo marmoreo ‘e zi’  Vicenza.

‘St’anno m’è capitata ‘n’avventura.
Dopo di aver compiuto il triste omaggio,
Madonna, si ce pienzo, che paura!
Ma po’ facette un’anema ‘e curaggio.

‘O fatto è chisto, statemi a sentire.
S’avvicinava ll’ora d’ ‘a chiusura
e io, tomo tomo, stavo per uscire,
buttando l’occhio su qualche sepoltura.

QUI DORME IN PACE IL NOBILE MARCHESE
SIGNORE DI TREVISO E DI BELLUNO
ARDIMENTOSO EROE DI MILLE IMPRESE
MORTO L’ 11 MAGGIO DEL 31.

‘O stemma cu ‘a curona ‘ncoppa a tutto…
…sotto,’na croce fatta ‘e lampadine,
tre mazze ‘e rose cu ‘na lista ‘e lutto,
cannele, cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata ‘a tomba ‘e ‘stu signore
ce steva n’ata tomba piccerella,
abbandunata, senza manco un fiore,
pe’ segno, sulamente ‘na crucella.

E ‘ncoppa ‘a croce, a stento si liggeva:
ESPOSITO GENNARO NETTURBINO.
Guardannola, che ppena me faceva
‘stu muorto, senza manco nu lumino!

Chista è ‘a vita, – ‘ncapo a me penzavo-
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
‘Stu povero maronna s’aspettava
ca pure all’atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo ‘stu penziero,
s’era gia fatta sera e quase notte,
e i’ rummanette chiuso priggiuniero,
muorto ‘e paura…’nnanze ‘e cannelotte.

Tutto a ‘nu tratto, che veco ‘a luntano?
Doje ombre avvicenarse ‘a parte mia…
Penzaje: ‘stu fatto a me mme pare strano…
Songo scetato, …duormo, o è fantasia?

Ate che fantasia: era ‘o Marchese,
c’ ‘o tubbo, ‘a caramella e c’ ‘o pastrano;
chill’ato, appriesso ‘a isso, male in arnese,
tutto fetente e cu ‘na scopa ‘n ‘mmano,

e chillo, certamente è don Gennaro,
‘o muorto puveriello… ‘o scupatore.
‘Int’a ‘stu fatto i’ nun ce veco chiaro:
so’ muorte e se retireno a chist’ora?

Putevano stà ‘a me quase ‘nu palmo,
quando ‘o Marchese se fermaje ‘e botto,
s’avota e, tomo tomo, …calmo calmo,
dicette a don Gennaro: “Giovanotto!

Da voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me, che sono un blasonato?!

La casta è casta e va, sì, rispettata,
ma voi perdeste il senso e la misura:
la vostra salma andava, sì, inumata,
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la vostra vicinanza puzzolente!
Fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i pari vostri, tra la vostra gente”.

“Signor Marchese, nun è colpa mia.
i’ nun v’avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa’ ‘sta fessaria,
i’ che putevo fa’ si ero muorto?

Si fosse vivo ve farrie cuntento,
pigliasse ‘a casciulella cu ‘e qquatt’osse,
e, proprio mo, obbj …’nd’a ‘stu mumento,
mme ne trasesse dint’ a n’ata fossa”.

“E che cosa aspetti, oh turpe malcreato,
che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato,
avrei già dato piglio alla violenza!”

“E famme vedé… e piglia ‘sta violenza!
‘A verità, Marché, mme so’ scucciato
‘e te sentì, e, se perdo ‘a pacienza,
mme scordo ca so’ muorto e so’ mazzate!

Ma chi te cride d’essere…nu ddio?
Ccà dinto, ‘o vvuò capì ca simmo eguale?
Muorto si’ tu e muorto so’ pur’io,
ognuno, comm’ a’ nato, è tale e qquale!”

“Lurido porco,!… Come ti permetti
paragonarti a me ch’ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?”

“ma qua’  Natale …Pasca e Ppifania!!
T’ ‘o vvuò mettere ‘ncapo…’int’a cervella
che staje malato ancora ‘e fantasia?
‘A morte ‘o ssaje ched’è?…È ‘na livella.

‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo,
trasenno ‘stu canciello ha fatto ‘o punto
c’ha perzo tutto, ‘a vita e ppure ‘o nomme,
e tu, nun t’è fatto ancora chisto cunto?

Perciò, stamme a ssentì…nun fa’ ‘o restivo,
suppuorteme vicino,… che te ‘mporta?
‘Sti pagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo seri…appartenimmo ‘a morte!

Numero1097.

La storia della mia vita

dice che non sono stato nessuno.

L’età dei miei anni

dice che starei per morire.

In realtà, mi sembra

di non essere mai nato

e che avrei tanto da fare.

E, se la morte è il prezzo

da pagare per rinascere,

allora, alla fine, così sia,

ma per una vita migliore

e, stavolta, tutta mia.

 

15 Febbraio 2019.