Numero3560.

 

A V E R E    R A G I O N E

 

Sapete cosa si nasconde dietro il nostro bisogno di avere ragione?

E non è una battaglia per il potere, né una questione di superiorità e di orgoglio: “Ho ragione, ho vinto”. No.

Ma dietro il combattere per la nostra opinione, c’è il nostro bisogno originario e atavico di sintonizzazione.

Quando sentiamo che la persona che amiamo, o la persona per noi importante, la pensa diversamente da noi, per noi rappresenta lo stesso rischio, e quindi la stessa terribile sensazione che, forse, abbiamo sperimentato da piccoli, di perdere la figura di attaccamento primario.

Ovvero, chi ha avuto esperienza del fatto che, se, da piccolo, faceva qualcosa di diverso, o la pensava diversamente da lei, perdeva, per un po’, il suo affetto.

Alcuni, addirittura, ricevevano una totale svalutazione: “La pensi diversamente da me, perciò il tuo pensiero non vale. Quindi tu non hai valore per me.”.

Allora, di fronte a questo rischio, ormai diventati grandi, facciamo di tutto per portare l’altro a pensarla come noi, per sentirlo vicino a noi, per sentirlo connesso.

A tal punto che, quando poi l’altro ci dà ragione, proviamo un sollievo fisico, non morale: “Sei con me, sono al sicuro”.

Ecco cosa c’è davvero dietro il bisogno di avere ragione: il terrore di perdere la sintonizzazione e il bisogno di sentire che non siamo soli.

E, quindi, chiederete: Bisogna dare sempre ragione all’altro?” NO.

Bisogna imparare a rimanere sintonizzati anche nel conflitto. Forse, è così che diventiamo adulti.

 

@agnesescappini

 

Numero3550.

 

C R E S C E R E    F I G L I    F E L I C I

 

Tuo figlio non è tuo. È un individuo con la sua anima. Rispettala.

Prima ascolta i suoi sentimenti. Poi cerca le ragioni. Non il contrario.

Evita i paragoni e aspetta, al ritmo di tuo figlio.

Le regole devono essere chiare e costanti e conserva una stabilità emotiva.

Sii specifico nelle tue lodi e mantieni i rimproveri pacati e brevi.

Insegnagli a scegliere e ad accettare le conseguenze.

Quando sbagli, ammettilo subito. Chiedi scusa. Anche i genitori sono umani.

E, ricorda: prima costruisci una vita stabile per te. Non puoi dare ciò che non hai.

Crescere un figlio non è controllarlo. È accompagnarlo a diventare chi è destinato ad essere.

 

@healingsoulmusic436

Numero3548.

 

A    M I O    F I G L I O    P A P A’

 

Se vuoi crescere un figlio forte

devi amare sua madre

quanto ami lui.

Perché i bambini che crescono,

vedendo i loro genitori

amarsi davvero,

sono più sani, più felici e capiscono,

presto, cosa significa essere

un vero uomo.

Devi dargli sicurezza, non soltanto

economica, ma soprattutto

emotiva, che non

significa comprargli cose costose, ma

non farlo mai sentire un peso,

non farlo mai

sentire in colpa per il fatto di esistere.

Devi elogiarlo e spesso, perché

l’approvazione

di un padre costruisce la sua autostima.

È il tuo modo per dirgli sempre:

“Tu ce la farai,

ed io sono qui per coprirti le spalle”.

Ma, soprattutto, devi essere

molto presente.

Taglia quella birra con gli amici,

salta qualche cena fuori,

passa quel tempo

con tuo figlio perché, se non ci sei,

non potrai avere indietro

la sua infanzia,

come è successo a me, con te bambino.

E quel vuoto che mi ha lasciato

nel cuore, quello,

forse, non si chiuderà mai del tutto.

Auguri, figlio mio, rendi

felice lui,

almeno il doppio di quanto

lui fa felice te.

E anche me.

 

Numero3471.

 

Giovedì 25 Settembre 2025 alle ore 18.03, presso l’Ospedale di  Pordenone, è venuto al mondo

IL   MIO   NIPOTINO   EDOARDO

 

 

                                                                                Lettera di benvenuto

 

Carissimo piccolo Edoardo,

sei arrivato nel mondo da poco, e già la tua presenza ha acceso una nuova luce nei nostri cuori.

Io sono il tuo nonno, e forse non sarò sempre accanto a te ogni giorno, ma sappi che il pensiero di te mi accompagna già ora, e ti seguirà sempre, come un filo invisibile che lega le persone che si vogliono bene.

La tua casa sarà con la mamma e con il papà, e io ti verrò a trovare di tanto in tanto, oppure ti porteranno da me.

Non saranno visite quotidiane, ma ogni volta che sarò con te desidero che tu senta quanto affetto, quanta gioia e quanta speranza porto con me, per te.

Vorrei che i momenti insieme fossero semplici e belli: una passeggiata, un gioco, un racconto del nonno che forse sembrerà un po’ antico, ma sempre con il desiderio di farti sorridere o pensare.

Non so se sarò bravo a raccontare fiabe o a fare magie, ma ti prometto che sarò sincero, curioso della tua crescita, e sempre orgoglioso di te.

Vorrei che tu potessi ricordarmi come un nonno che sapeva ascoltare, più che parlare.

Non ti insegnerò formule complicate, ma proverò a mostrarti come guardare il mondo con meraviglia.

Anche se non sarò ogni giorno al tuo fianco, sarai sempre nei miei pensieri: questo è un modo di esserci, silenzioso ma vero.

Il tempo che vivremo insieme non lo conteremo in giorni o ore, ma nella gioia che sapremo darci l’un l’altro.

Da te non mi aspetto niente, se non la tua spontaneità: io ti offrirò la mia esperienza e il mio affetto.

Forse un giorno riderai delle mie rughe o dei miei racconti un po’ ripetuti, ma spero che tu possa vederci dentro la tenerezza.

Quando mi vedrai, ti basterà guardarmi negli occhi: lì troverai tutto l’amore di un nonno.

Tu sei un dono nuovo, una promessa di vita che continua.

Io, che di anni ne ho già tanti, guardo a te come al futuro che sboccia, e questo mi riempie di speranza e di pace.

Già da tempo e, sin da ora ancora di più, ti voglio bene.

 

Nonno Alberto.

 

 

A Martina e Ale,

 

educare Edoardo alla vita

è come scolpire una statua

dal marmo grezzo:

ogni colpo dello scalpello

rimuove un pezzo

di ciò che non è,

fino a rivelare al mondo

il capolavoro unico

che è sempre stato lì:

la sua vera persona.

C’è bisogno della vostra

autentica “arte” di vivere,

di ciò che siete dentro,

dei buoni sentimenti

che da sempre avete,

per dare forma allo  spirito

della vostra creatura.

Che il cielo accompagni

e benedica il vostro percorso

di amore e dedizione.

Numero3422.

 

COSE   CHE   I   BAMBINI   NOTANO   SEMPRE

 

Il tono della tua voce

Se stabilisci contatto visivo.

Il tempo che passi con loro.

Gli abbracci che durano un po’ di più.

I sorrisi che condividi ogni giorno.

Quanto delicatamente li correggi.

La tua reazione alle loro lacrime.

Le parole che scegli quando sei arrabbiato.

Se li stai davvero ascoltando.

L’attenzione durante le loro storie.

Mettere via il telefono.

Le promesse che mantieni sempre.

Le scuse quando sbagli.

Ridere alle loro piccole battute.

Leggere loro la storia della buona notte preferita.

Mostrare orgoglio per i loro sforzi.

Celebrare anche le piccole vittorie.

Essere paziente quando faticano.

Dire “sono orgoglioso di te”.

Condividere ricordi della tua infanzia.

Mantenere vive le tradizioni familiari.

Esporre le loro opere d’arte in casa.

Dire spesso “Ti voglio bene”.

Essere presente nei momenti difficili.

Come li saluti ogni giorno.

Coinvolgerli nelle decisioni.

Chiedere cosa pensano veramente.

Essere scherzoso senza esitazione.

Consolarli quando falliscono.

Notare anche le piccole cose.

 

@DianaUrsu.

Numero3321.

 

 

A    T U T T E    L E    D O N N E    M A D R I

 

 

È questo un omaggio e un riconoscimento

a tutte le donne madri che hanno dato

e dedicato la vita ai loro figli per tanto tempo,

e a quelle di loro che, divenute, a loro volta,

bisognose di assistenza e accudimento,

si sono riprese indietro parte della vita

di quei loro figli che hanno saputo ricambiare

e restituire quello che avevano ricevuto.

È una regola e legge della vita a cui nessuno,

che si consideri essere umano, può sottrarsi,

in nome del sentimento che ha più alto valore

spirituale nell’universo: semplicemente l’amore.

 

 

Q U A N D O    S A R A I    P I C C O L A

 

di Simone Cristicchi    Festival di Sanremo 2025.

 

Quando sarai piccola ti aiuterò a capire chi seiTi starò vicino come non ho fatto maiRallenteremo il passo se camminerò veloceParlerò al posto tuo se ti si ferma la voce

Giocheremo a ricordare quanti figli haiChe sei nata il 20 marzo del ’46Se ti chiederai il perché di quell’anello al dito
Ti dirò di mio padre ovvero tuo marito
Ti insegnerò a stare in piedi da sola, a ritrovare la strada di casaTi ripeterò il mio nome mille volte perché tanto te lo scorderai

Eeee… è ancora un altro giorno insieme a tePer restituirti tutto quell’amore che mi hai datoE sorridere del tempo che non sembra mai passato

Quando sarai piccola mi insegnerai davvero chi sonoA capire che tuo figlio è diventato un uomoQuando ti prenderò in braccioE sembrerai leggera come una bambina sopra un’altalenaPreparerò da mangiare per cena, io che so fare il caffè a malapenaTi ripeterò il tuo nome mille volte fino a quando lo ricorderai

Eeee… è ancora un altro giorno insieme a tePer restituirti tutto, tutto il bene che mi hai datoE sconfiggere anche il tempo che per noi non è passato

Ci sono cose che non puoi cancellareCi sono abbracci che non devi sprecareCi sono sguardi pieni di silenzioChe non sai descrivere con le paroleC’è quella rabbia di vederti cambiareE la fatica di doverlo accettareCi sono pagine di vita, pezzi di memoriaChe non so dimenticare

Eeee… è ancora un altro giorno insieme a tePer restituirti tutta questa vita che mi hai datoE sorridere del tempo e di come ci ha cambiato

Quando sarai piccola ti stringerò talmente forteChe non avrai paura nemmeno della morteTu mi darai la tua mano, io un bacio sulla fronteAdesso è tardi, fai la brava,Buonanotte

 

N.d.R.:  Una poesia in musica.

Numero3316.

 

da  QUORA

 

Scrive Rosy, corrispondente di QUORA

 

A L L E V A R E    F I G L I

 

Un’aquila diede un consiglio a una donna su come crescere al meglio i propri figli.

— Stai bene, madre umana? — chiese l’aquila.

La donna, sorpresa, la guardò negli occhi.

— Ho paura — rispose — Il mio bambino sta per nascere e ho così tanti dubbi. Voglio dargli il meglio, desidero che la sua vita sia facile e serena… ma come farò a sapere se lo sto crescendo nel modo giusto?

L’aquila la osservò in silenzio, poi si posò vicino a lei.

— Crescere un figlio non è semplice — disse. — Non si tratta di offrirgli una vita comoda. Anzi, spesso è proprio il contrario. Quando nascono i miei aquilotti, il nido è pieno di piume e foglie morbide: è un rifugio accogliente, dove possono sentirsi protetti. Ma quando arriva il momento di imparare a volare, tolgo tutto. Lascio solo i rami secchi e le spine.

La donna aggrottò la fronte, confusa.

— Le spine? Perché rendere tutto così difficile?

— Perché il disagio li sprona a cambiare — rispose l’aquila. — Se il nido resta comodo, loro non si muoveranno mai. Invece, il fastidio li costringe a cercare un nuovo posto, a scoprire la forza che hanno dentro. La comodità non insegna nulla.

La donna rifletté, ma aveva ancora dei dubbi.

— E quando cadono? Cosa fai?

— Li lancio nel vuoto — disse l’aquila con voce calma. — All’inizio precipitano, il vento li travolge. Ma io li raggiungo, li afferro con i miei artigli e li sollevo. Poi li lascio andare di nuovo. Ripeto questo gesto più volte, finché non trovano le ali. E quando finalmente riescono a volare, li lascio andare per davvero. Non intervengo più.

La donna la fissò, ancora incredula.

— Quindi non li proteggi sempre?

— No — rispose l’aquila con fermezza. — Non nutro la loro dipendenza. I miei piccoli devono imparare a volare da soli, a essere forti, a sopravvivere senza di me. Se li tenessi nel nido per sempre, non farei altro che indebolirli. Il mio compito è prepararli al volo, non trattenerli.

La donna abbassò lo sguardo, accarezzandosi il ventre.

— Dunque… devo lasciare che mio figlio affronti qualche difficoltà?

L’aquila annuì.

— Non si tratta di farlo soffrire. Si tratta di insegnargli. E anche se ti farà male, madre umana, la cosa più preziosa che puoi donargli è la forza. Non proteggerlo da tutto. Non coprirlo costantemente. Lascia che affronti il mondo. Fallo volare.

La donna annuì lentamente, guardò l’aquila con gratitudine e le sorrise.

— Grazie, madre aquila — sussurrò mentre si allontanava. — I tuoi consigli sono un dono.

Riprese il cammino, decisa a diventare la madre di cui suo figlio avrebbe avuto bisogno: saggia, coraggiosa, capace di lasciarlo andare al momento giusto.

Se vuoi che tuo figlio impari a volare alto… non fare tutto al posto suo.

Non trattenerlo in un nido di sole comodità.

Le aquile spingono i propri piccoli fuori dal nido, li costringono ad affrontare le spine, perché sanno che solo così scopriranno le proprie ali.

Non temere di vederli cadere. Come l’aquila, sarai lì per sollevarli.

Ma non tenerli sotto la tua ala per sempre.

Lasciali affrontare il vento. Lasciali diventare forti.

Il vero amore non è proteggerli da ogni difficoltà,

ma prepararli alla vita.

Anche se ciò significa lasciarli cadere.

Anche se fa male.

Lasciali trovare la loro strada.

Anche inciampando, anche sbagliando.

È così che si impara a volare.

Numero3191.

 

Dedicata a mio figlio Alexis, alla fine dell’Anno 2024.

 

YOU’ LL  NEVER  WALK  ALONE

brano di Gerry and the Pacemakers     1963.      (Inno della squadra di calcio di Liverpool).

 

Quando cammini attraverso una tempesta
When you walk through a storm

Tieni la testa alta
Hold your head up high

E non aver paura del buio
And don’t be afraid of the dark

Alla fine di una tempesta
At the end of a storm

C’è un cielo dorato
There’s a golden sky

E il dolce canto argentato dell’allodola
And the sweet silver song of a lark

Prosegui nel vento
Walk on through the wind

Continua a camminare sotto la pioggia
Walk on through the rain

Perché i tuoi sogni saranno gettati e spazzati via
For your dreams be tossed and blown

Continua a camminare, continua a camminare
Walk on, walk on

Con la speranza nel cuore
With hope in your heart

E non camminerai mai da solo
And you’ll never walk alone

Non camminerai mai solo
You’ll never walk alone

Continua a camminare, continua a camminare
Walk on, walk on

Con la speranza nel cuore
With hope in your heart

E non camminerai mai da solo
And you’ll never walk alone

Non camminerai mai solo
You’ll never walk alone.

 

 

BUON  ANNO  NUOVO 2025.

Numero2951.

 

Le persone che hanno avuto un’infanzia difficile spesso hanno questi 5 tratti caratteriali

di Emma Moretti

Le esperienze infantili hanno un impatto significativo sullo sviluppo della nostra personalità. Un’infanzia difficile, segnata da sfide come problemi familiari, violenza o abbandono, può influenzare fortemente i nostri comportamenti e atteggiamenti da adulti. In questo articolo esploreremo cinque tratti caratteriali spesso presenti nelle persone che hanno vissuto un’infanzia difficile. Vale la pena sottolineare che queste caratteristiche non sono universali e possono variare da un individuo all’altro.

1. Maggiore empatia

Gli individui esposti a esperienze difficili in gioventù spesso sviluppano una maggiore capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri. Questa empatia di solito deriva dalla necessità di navigare rapidamente in situazioni complicate per rilevare segnali emotivi e adattare le proprie reazioni di conseguenza. Possono quindi costruire stretti legami con gli altri ed essere sensibile ai loro bisogni e preoccupazioni. Gli adulti che hanno affrontato un’infanzia complicata spesso comprendono meglio come si sentono gli altri e sono in grado di adattarsi facilmente alle diverse situazioni.

L’altro lato della medaglia

Tuttavia, questa empatia può anche comportare un’elevata sensibilità che rende queste persone vulnerabili e sopraffatte dalle emozioni degli altri. È quindi essenziale che sviluppino meccanismi per mantenere un equilibrio tra empatia e benessere personale.

2. Resilienza

La resilienza è definita come la capacità di riprendersi dalle difficoltà e di adattarsi a situazioni difficili. Le persone che hanno vissuto un’infanzia difficile spesso hanno imparato a superare le avversità sviluppando strategie per affrontare gli ostacoli e trasformare il proprio dolore in forza. Ciò può includere lo sviluppo di capacità di risoluzione dei problemi, comunicazione assertiva e gestione dello stress.

Attenzione

Va notato che questa resilienza non significa necessariamente che l’individuo sia completamente guarito o che non sia più influenzato dalla situazione passata. Al contrario, è una capacità di continuare ad andare avanti nonostante gli infortuni, rimanendo sempre pronti ad affrontare le sfide con determinazione.

3. Indipendenza

Molti di coloro che crescono in ambienti instabili imparano rapidamente a fare affidamento su se stessi e a prendere le proprie decisioni. Questa indipendenza si manifesta spesso nella tendenza ad essere autonomi, a cercare soluzioni per se stessi e a non aspettare l’aiuto degli altri per progredire. Pertanto, questi individui possono essere estremamente autonomi e in grado di assumere il controllo della propria vita senza eccessiva dipendenza dagli altri.

L’importanza dell’autosufficienza

Saper essere autosufficienti è una competenza preziosa nella vita adulta e permette di affrontare le difficoltà con più sicurezza. Tuttavia, a volte può essere utile circondarsi di persone su cui fare affidamento e a cui rivolgersi nei momenti difficili – anche questo dimostra una grande forza interiore.

4. Creatività

Un passato difficile spesso spinge a sviluppare talenti artistici o un’immaginazione sconfinata per sfuggire alla realtà della vita quotidiana. La creatività fornisce un mezzo di fuga e di auto-espressione, che può essere particolarmente importante per coloro che hanno vissuto situazioni traumatiche. Cercando costantemente nuovi modi per esprimersi, questi individui possono scoprire nuove passioni e talenti, contribuire positivamente alla società e sfruttare le loro esperienze passate in progetti creativi concreti.

La necessità di esprimersi

In alcuni casi, altri arriveranno addirittura a utilizzare la propria creatività come strumento terapeutico, trasformando la propria sofferenza in arte e contribuendo così a guarire alcune ferite emotive indelebili.

5. Flessibilità psicologica

Affrontando situazioni complesse e spiacevoli, molte persone che vivono un’infanzia difficile hanno la capacità di adattarsi rapidamente alle mutevoli circostanze. In altre parole, verificano una larga flessibilità psicologica, la capacità di adattarsi con successo di fronte a situazioni nuove e difficili. Le persone che hanno avuto questo tipo di esperienza riescono quindi in genere ad adattarsi rapidamente alle varie situazioni, modificando il proprio modo di pensare o di agire per soddisfare nuovi bisogni o problematiche.

Sempre pronto al cambiamento

Questa caratteristica conferisce un vantaggio anche a livello professionale, dove l’adattabilità è spesso considerata una competenza chiave. Aiuta anche le persone colpite a rimanere ottimiste e proattive di fronte agli imprevisti.

Sebbene ogni individuo sia unico, in coloro che hanno avuto un’infanzia difficile si riscontrano spesso diversi tratti caratteriali: maggiore empatia, resilienza, indipendenza, creatività e flessibilità psicologica. Queste qualità aiutano le persone colpite ad affrontare le sfide della vita adulta con coraggio e determinazione, anche se continuano a essere influenzate dalle esperienze del loro passato.

Numero2948.

 

da  QUORA

 

Scrive Shiro Fukò, corrispondente di QUORA

 

Le nuove generazioni sono più ignoranti delle precedenti?

 

Nel corso dei secoli le nuove generazioni sono sempre state più intelligenti delle precedenti, secondo una normale regola evoluzionistica.

Tuttavia, negli ultimi dieci anni, stiamo assistendo a un fenomeno insolito: i figli sono meno intelligenti dei loro genitori.

Il Quoziente Intellettivo medio della popolazione occidentale è in declino, con particolare riferimento alle capacità di memoria e apprendimento.

Una delle ragioni di questo fenomeno è da ricercare nell’impoverimento del linguaggio.

Diversi studi hanno rivelato una correlazione tra la ricchezza lessicale e la capacità di elaborare pensieri complessi.

La graduale scomparsa dell’uso dei tempi verbali si accompagna a un ridotto uso delle parole.

La ragione della sempre più dilagante violenza nella società è causata anche dall’incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso il linguaggio.

Quando mancano le parole per spiegarsi e difendere le proprie ragioni, il ricorso alla violenza fisica diventa un rischio concreto.

La semplificazione dell’ortografia, come l’abolizione dei generi, dei tempi, delle sfumature lessicali rappresentano una causa dell’impoverimento della mente umana.

Numero2908.

 

P O E S I A    A    S A N R E M O

 

….. “Sogna, ragazzo, sogna,

ti ho lasciato un foglio sulla scrivania,

manca solo un verso a quella poesia,

puoi finirla tu”. 

 

Roberto Vecchioni questa volta ha dedicato gli ultimi versi della sua celebre canzone al giovane genovese Alfa, con cui ha condiviso il palco dell’Ariston alla serata duetti di Sanremo 2024.

Due generazioni a confronto, una che cede il passo all’altra. Una canzone che ha fatto la storia della musica, Sogna ragazzo sogna, che si trasforma in un testimone alle nuove generazioni, un invito a guardarsi dentro e imparare a sognare in grande, come ha fatto Alfa. Il rapper genovese, non ha provato a nascondere la sua emozione di duettare sul palco insieme a un gigante come Vecchioni, portando una canzone che lo accompagna da quando è piccolo. “Cinque anni fa caricavo canzoni online da una cameretta con il poster di Roberto Vecchioni, oggi canto con lui al Festival di Sanremo… la vita è strana e se ci penso ho i brividi” ha scritto Alfa sui suoi profili social.

Ricondividendo il replay del duetto, ha aggiunto: “Spero di avervi emozionato almeno la metà di quanto mi sono emozionato io”.

Alla fine del brano, Vecchioni ha guardato Alfa, toccandogli un braccio e cantando le parole “Puoi finirla tu”, lo ha indicato e gli ha lasciato la scena sul palco, ascoltando ad occhi chiusi, con il sorriso sulle labbra, il finale rap scritto da un giovane ragazzo che sogna. Ecco i versi che Alfa ha aggiunto alla “poesia” di Vecchioni.

 

“Lo voglio scrivere, cancellare e riscrivere

Strappare delle pagine e usare dell’inchiostro invisibile

Per poterlo nascondere e non lasciarne traccia

Non so se sarà poesia oppure solo carta straccia

In fondo c’ho 20 anni ma sai che cosa sento?

Ho tutta la vita davanti eppure sto perdendo tempo.

C’è chi corre perché scappa, poi chi corre perché insegue.

Io corro perché è solo quello che mi fa stare bene.

Salgo sopra questo palco per giocare con la vita.

Ma se poi mi si spezza il fiato, se mi si spezza la matita?

Più in basso è il punto di partenza, più alta è la salita.

Ma spero che il panorama, valga tutta sta fatica.

Non so che cos’è l’amore, ma a volte lo percepisco

In un tramonto, uno sguardo, un disco.

E se mi guardo attorno, penso che son fortunato.

Non so chi ha creato il mondo, ma so che era innamorato”.

Numero2862.

 

A I    G I O V A N I    I T A L I A N I

 

Correva l’anno 1818 e, dalla dimora gentilizia in Recanati, dove abitava la famiglia paterna del Conte Monaldo, un giovane, aveva allora 20 anni, Giacomo Leopardi, fra le sue “sudate carte”, mandava un appello, nobile, accorato e quasi commovente, ai suoi coetanei e conterranei. A oltre 200 anni di distanza di tempo, è di una sorprendente attualità. Eccolo.

 

Io non vi parlo da maestro, ma da compagno. Non vi esorto da capitano, ma vi invito da soldato. Sono coetaneo vostro e condiscepolo vostro ed esco dalle stesse scuole con voi, cresciuto fra gli studi e gli esercizi vostri, partecipe dei vostri desideri, speranze e timori.
Abbiate pietà di questa bellissima terra e dei monumenti e delle ceneri dei nostri padri.
Fate che la povera patria nostra, in tanta miseria, non rimanga senza aiuto, perché non può essere aiutata fuorché da voi.

Numero2859.

 

Comportamenti tipici di chi si trascina un vissuto difficile

Ana Maria Sepe    Dottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi.

 

Crediamo di essere indegni di felicità, di piacere, d’amore o della realizzazione. Tutti abbiamo una “ferita centrale” nel profondo che varia in base alle nostre circostanze ed esperienze. Questa profonda e fondamentale ferita è il risultato delle credenze che ci hanno insegnato fin dalla nascita, contribuendo alla difettosa immagine di noi stessi che continuiamo a portarci dietro fino ad oggi. Le nostre ferite fondamentali sono i nostri dolori più profondi nella vita. Sono i nostri amici più vecchi e più miserabili. Per la maggior parte di noi, queste ferite interiori sono governate dalle seguenti due convinzioni errate:

  • “Sono imperfetto e quindi una persona cattiva.”
  • “Devo cambiare o sistemare qualcosa di me per essere accettabile.”

Riconoscere di avere una ferita interiore

Può essere molto difficile riconoscere di avere una ferita interiore legata agli errori (spesso involontari o inconsapevoli) compiuti dalla figura di accudimento, quella che più di tutte avrebbe dovuto proteggerci, accudirci, accoglierci e insegnarci a diventare sicuri e forti.

Da bambini infatti, assorbiamo tutto ciò che ci viene detto su di noi come se fosse una “verità incontrovertibile” un dato di fatto solido e assodato che non potrà cambiare mai: “sei pigro”, oppure “sei un bambino cattivo” o altro, sono espressioni che il bambino assorbe e fa proprie senza avere la capacità di poterle mettere in discussione, né di comprendere che spesso si tratta di affermazioni imprecise e parziali. In tal modo cresce diventando un adulto che è ancora – spesso inconsapevolmente – profondamente convinto di essere pigro o cattivo, e si comporta di conseguenza, dando per scontato che si tratti di una verità assoluta e immodificabile.

Un’altra ragione che rende difficile comprendere di aver avuto relazioni di accudimento disfunzionali, è legata al fatto che ogni bambino tende a credere che ciò che accade in casa sia “normale”, che accada allo stesso modo in tutte le altre famiglie: penserà che suo papà alza le mani perché “è stanco” oppure “perché mi comporto male”, o che la mamma è arrabbiata o infastidita perché “sono un cattivo bambino che dà fastidio”.

Non è infrequente comprendere che qualcosa non va nella propria famiglia, in seguito all’aver sperimentato cosa accade in altre famiglie, dove magari le figure di accudimento sono più gentili, amorevoli e disponibili. E’ difficile accettare l’idea che il dolore che abbiamo dentro, le difficoltà che viviamo nelle relazioni con le altre persone – specialmente con il/la partner – originano dal modo in cui proprio nostra madre ci ha trattati da bambini (se lei è stata la figura di accudimento principale).

Si tende così a normalizzare, giustificare, negare certi comportamenti, senza che vi sia una vera e profonda comprensione di come sono andate le cose, e delle motivazioni che le hanno prodotte, unica via questa per poter passare dalla comprensione all’accoglimento del passato per ciò che è stato e, infine, al perdono.

Cosa ha interiorizzato chi ha avuto un vissuto difficile

Per procedere dal percorso di comprensione e accettazione di ciò che è stato alla costruzione di uno stile relazionale più sano e gratificante, possiamo partire dal mettere in discussione alcuni falsi miti sui quali spesso poggiano convinzioni, atteggiamenti e comportamenti che automaticamente si esprimono nelle relazioni con gli altri:

1. L’amore va guadagnato

Probabilmente, a causa del modo controllante, giudicante o carico di aspettative in cui siamo stati cresciuti, abbiamo imparato che l’amore non è mai gratuito, ma deve essere meritato e guadagnato dandosi da fare per gli altri, accondiscendendo alle loro richieste oppure cercando di “non dare fastidio” con bisogni e richieste.

2. Bisogna nascondere i propri sentimenti

La lezione si impara quando i genitori si arrabbiano o prendono in giro un figlio a causa della sua sensibilità, chiamandolo  “piagnucolone” o accusandolo di essere esagerato o troppo sensibile. I bambini in genere rispondono a questo comportamento, costruendosi una sorta di “barriera” dietro alla quale nascondere i loro sentimenti e le loro emozioni, prendendo le distanze e proteggendosi da queste. Così facendo però, perdono anche l’opportunità di sviluppare adeguate abilità di gestione delle emozioni stesse.

3. La cosa più importante sono le apparenze

Questo si apprende da un genitore particolarmente votato a curare le apparenze, che tratta i propri figli come “estensioni di sé”, pretendendo da questi di fargli/le fare sempre bella figura quando sono in pubblico. Il bambino dunque impara che ciò che conta veramente, per essere “amati” dal genitore, non è tanto esprimere il proprio sé, quanto piuttosto dimostrare le apparenze esteriori e le aspettative che contano..

4. E’ meglio non mostrarsi per ciò che si è

La critica e la svalutazione costanti subite dalle figure di accudimento portano il bambino ad assumere comportamenti finalizzati a soddisfare e accontentare i genitori, a fare qualsiasi cosa per sentirsi approvati e apprezzati da questi. Questo processo può portare alla costruzione di un “sé falso”, finalizzato a piacere al genitore, e a imparare a nascondere e non mostrare ciò che si è veramente, fino a perdere quasi il contatto con ciò che si ama davvero e che rende davvero felici.

(N.d.R.: questo tipo di bambino/a, durante tutta la sua vita, andrà sempre alla ricerca di un partner che lo accetti per quello che è: sarebbe quello l’amore che non ha avuto da piccolo/a, perché le figure genitoriali (una o entrambe) lo “condizionavano”. Invece di ricevere affetto senza contropartite, aveva ottenuto l’accudimento solo a patto di obbedienza e rispetto: un pesante ricatto psicologico che adoperava una leva formidabile come quella inculcata dal senso di colpa, che si instaurava, in un lancinante stillicidio, con la sottolineatura dei difetti e mai dei pregi del bambino/a).

5. Occorre controllare il proprio ruolo nella relazione

Quando si è sperimentato un legame di attaccamento con un genitore non amorevole, la relazione non è mai veramente reciproca, perché i comportamenti del genitore nei confronti del bambino gli insegnano che in una relazione c’è sempre un elemento forte e uno debole e che occorre, per proteggersi, mantenere il controllo, cercando di non essere o diventare l’elemento debole.

6. Non sei abbastanza

Svalutazione, giudizio costante, atteggiamento ipercritico delle figure genitoriali, uniti alla mancanza di validazione e supporto sono responsabili dell’origine di questa convinzione di fondo, che opera silenziosamente e in modo dannoso nella costruzione delle future relazioni.

7. Hai meritato di essere trattato male

In presenza di genitori maltrattanti è molto più facile per il bambino giungere alla conclusione di meritare i maltrattamenti, piuttosto che prendersela con chi dovrebbe accudirli e proteggerli amorevolmente. Prendersela con se stessi del resto, serve a molti scopi, non ultimo quello di mantenere in vita – una volta adulti – una relazione abusante.

(N.d.R.: La relazione abusante diventerà normale in tutta la vita. Inconsciamente il bambino/a, diventato adulto/a, non crede che ci sia un altro tipo di rapporto psicologicamente e affettivamente più appagante di questa “comfort zone”, alla quale si è allenato/a ed adagiato/a. Anzi, se lo terrà ben stretto perché costituirà l’unica certezza garantita, anche a costo di vessazioni, angherie e rinunce alle proprie libertà ed espressioni personali).

8. Devi piacere e accontentare gli altri

Pur di andare d’accordo con l’altro – per averlo accanto, per sentirsi apprezzati o non sentirsi in colpa – ci si limita, si rinuncia a far valere la propria voce e ad esprimere se stessi, fino ad annullarsi.

9. L’intimità è pericolosa

Tipica posizione di coloro che hanno sviluppato uno stile di attaccamento evitante e logica conclusione delle relazioni avute con le figure di attaccamento – verosimilmente fredde e indisponibili – dell’infanzia.

Il primo passo per risanare le nostre ferite interiori

Mettere in discussione queste posizioni ed affermazioni – più o meno consapevoli – apprese durante l’infanzia attraverso le relazioni di attaccamento, è un passo importante verso un maggior benessere e relazioni interpersonali e sentimentali gratificanti. Ma prima ancora di poterle mettere in discussione, occorre imparare a individuarle dentro di noi: possiamo farlo portando l’attenzione consapevolmente su certi nostri comportamenti che tendono a ripetersi, e sul nostro dialogo interno nelle situazioni interpersonali.

Può essere utile iniziare a chiedere a noi stessi cosa pensiamo automaticamente di noi e dell’altro, nelle situazioni in cui magari ci sentiamo più vulnerabili o bisognosi: sentiamo di meritare le cure e le attenzioni dell’altro? Riusciamo a chiedere ciò di cui abbiamo bisogno o desiderio? Ci aspettiamo che l’altro possa venirci incontro? Ci fidiamo?

Puoi farcela … A darti quel permesso!!!

Il permesso è quella scelta che fai e che è diversa dalle solite scelte che ripeti da una vita. Esempi. Posso mostrarmi in difficoltà… Mi permetto di dire no… Scelgo di riposarmi… Oppure:

  • Solitamente tieni duro… Ti permetti di mollare!
  • Solitamente fai da solo… Ti permetti di chiedere aiuto!
  • Solitamente trattieni le tue emozioni… Ti permetti di esprimerle!
  • Solitamente reagisci d’impulso… Ti permetti di riflettere un po’ meglio prima di agire!
  • Solitamente non esprimi il tuo pensiero per paura del giudizio… Ti permetti di dire la tua!
  • Solitamente accondiscendi alle richieste altrui anche quando sono eccessive… Ti permetti di dire no e sì in base ad una tua valutazione specifica della situazione!

TROVA IL TUO SOLITO … E DATTI IL TUO PERMESSO!

“Finalmente ce la fai…” perché è veramente la fatica di una vita quella di cambiare ciò che da una vita siamo abituati a fare!!!
Trova l’abitudine di una vita… E prova il permesso per iniziare oggi una nuova vita!
Provando a cambiare ciò che hai sempre fatto, avrai modo di capire perché per te è difficile, perché tendi a ripetere gli stessi schemi da una vita, perché hai paura di cambiare, perché è fondamentale iniziare a fare qualcosa di diverso al fine di migliorare la qualità della tua vita, delle tue scelte, delle tue relazioni.

È proprio necessario cambiare? È proprio necessario darsi questi permessi? Certo che no. È sempre una scelta… Del resto, alcuni modi di essere, pensare e agire che ci portiamo da una vita ancora oggi orientano in modo utile le scelte che facciamo. Quando, allora, è l’ora di nuovi permessi? Quando arriva la sofferenza, quando la vita ci chiede flessibilità, quando le circostanze esterne cambiano in modo significativo, quando stiamo trascurando i nostri bisogni, quando cominciamo ad avere problemi interpersonali importanti, quando siamo confusi, quando arrivano sintomi e malesseri fisici e psicologici ad invitarci a rivisitare il rapporto tra “ciò che devo”, “ciò che non devo”, “ciò che posso”.

La voglia di riscattarsi e… rinascere!

C’è una cosa che hanno in comune tutte le persone che hanno vissuto un’infanzia difficile: hanno voglia di riscattarsi! Il dolore, i torti, annichiliscono ma al contempo alimentano rabbia e frustrazione. È nella rabbia dell’ingiustizia subita che si può trovare il seme della reattività, il motore che può innescare un processo trasformativo utilissimo. Ogni giorno siamo artefici della nostra stessa evoluzione, siamo responsabili delle maschere che indossiamo, delle parole che diciamo… anche se non ne siamo consapevoli.

In realtà, esistono due modalità di vita: la prima ci pone come individui passivi-reattivi, cioè ci fa limitare a reagire alle cose che ci capitano nella vita. Ci fa vivere, quindi, in funzione del comportamento degli altri. Una modalità di vita molto più sudata (perché richiede esercizio, una buona dose di distacco, regolazione delle emozioni e tanta tanta riflessione) è la modalità attivo-reattivo. In questo caso, le persone non si limitano a reagire a ciò che capita ma sono pienamente artefici della propria vita, riescono a gestire le proprie maschere, a ridimensionarle o a distruggerle

(N.d.R.: Ironia linguistica: La parola “maschera”, in latino , che è la lingua da cui deriva l’Italiano, è tradotta dal termine “persona”. I personaggi delle rappresentazioni teatrali antiche così si chiamavano perché indossavano le “maschere”, che erano dei  grossi faccioni di cartapesta o altri materiali, e che avevano due funzioni: la prima era quella di caricaturare gli attori, esagerando le caratteristiche tragiche o comiche degli stessi; la seconda era quella di fungere da amplificatori sonori (il verbo latino personare = suonare attraverso). Non vi erano, infatti, microfoni e, per quanto l’acustica delle cavee degli anfiteatri fosse eccezionale, la voce doveva essere sentita fino agli ultimi posti  delle scalee. Nella “recita” delle nostre vite, noi “persone” siamo veramente delle “maschere”: interpretiamo e recitiamo la parte che gli altri (genitori, coniuge, figli, datore di lavoro, società e via dicendo) ci hanno assegnato. Quando toccherà a noi interpretare noi stessi e il ruolo che ci sentiamo ritagliato, proprio da noi e per noi? Ecco perché un numero sempre più grande di esseri umani, oggi e con la vita di oggi, aspira sempre più ardentemente ad una “second life”, una seconda vita che a loro appartenga compiutamente, e permetta a loro di essere veramente “persone” interpretando se stessi).

Numero2844.

 

F E M M I N I C I D I

 

da QUORA

 

Riporta Flavio T. , corrispondente di QUORA.

 

un autorevole appello ai Padri e a tutti i maschi contro la piaga dei femminicidi nel nostro paese..

Condivido questo articolo dello psichiatra psicoterapeuta, ricercatore e divulgatore Alberto Pellai, che ha dedicato la maggior parte del suo impegno all’adolescenza e alle sue fragilità, con una particolare attenzione a quella maschile:

LETTERA A NOI PADRI

La morte di Giulia ci interpella tutti, noi maschi, uomini, padri, compagni di vita. Non possiamo non sentirci addosso tutto il dolore del mondo. Giulia è anche nostra figlia. Così come il suo assassino. Sono i figli e le figlie che cresciamo nelle nostre vite, nelle nostre famiglie. Sono i figli e le figlie a cui consegniamo la vita con cui li abbiamo messi al mondo perché la rendano quel territorio in cui diventare chi davvero vogliono essere. In questo progetto educativo, devono imparare che non possono esistere parole come possesso, sopruso, sopraffazione. Lo devono sapere le nostre figlie, prima di tutto. Perché se solo un amore si contamina con queste parole allora da lì si deve fuggire. E denunciare. Lo devono però prima di tutto imparare i nostri figli. La sfida enorme con i nostri figli maschi non è solo insegnare loro a non essere violenti, cosa fondamentale, sia chiaro. La vera sfida è quella di insegnare loro ad essere “veri” con se stessi. A comprendere che costruire una storia d’amore significa esercitare tre competenze fondamentali dentro una relazione: rispetto, responsabilità ed empatia. Che vanno insegnate ancora prima della non violenza. Perché se apprendi queste tre competenze, allora la violenza non entrerà mai nella tua vita, il possesso non comparirà mai come bisogno dentro una storia d’Amore.

Cari padri, il cambiamento nella vita dei nostri figli maschi può avvenire a partire da noi. Siamo figli di padri che ci hanno amati e cresciuti, ma che quasi mai sono riusciti a dirci: “Ti voglio bene, figlio mio”. Siamo figli di padri che quasi mai sono stati capaci di vedere le nostre lacrime, anche quando era impossibile non farlo. Siamo figli di uomini che non hanno quasi mai saputo parlarci del sesso, dell’amore, del corpo che cambia, della pubertà. Eppure questi temi sono di importanza cruciale nella vita di un ragazzo.

Noi padri siamo i compagni di viaggio che stanno davanti, di fianco e dietro a un figlio che a sua volta diventerà uomo. Nel vivergli accanto possiamo mostrargli cosa vuol dire per noi uomini essere persone vere. Possiamo aiutarlo a non temere la tristezza e a trasformare la paura in coraggio. Possiamo educarlo a tenere alto lo sguardo sugli altri e sulla vita facendo del nostro sguardo uno specchio in cui lui stesso può riflettersi per cercare quell’immagine identitaria che ancora gli appare sfocata e poco definita, così come deve essere alla sua età.

Noi padri possiamo rendere la relazione con i nostri figli un’occasione di allenamento al rispetto e alla verità, un laboratorio dove si discute dell’amore e della sessualità, uno spazio di vita in cui – aiutando loro a diventare gli uomini che vogliono essere – diventiamo noi stessi uomini più completi e più veri.

Siamo noi padri gli scultori di un nuovo modo di essere maschi e uomini in questo terzo millennio, in cui i nostri figli si trovano spesso sospesi tra il falso mito del vero uomo e il bisogno profondo di diventare uomini veri.

(Tratto da “Ragazzo mio. Lettera agli uomini veri di domani” di A. Pellai, De Agostini ed.).

Con un enorme dolore, oggi, mi sento padre di Giulia e anche padre del suo assassino. Sento dentro di me tutto il dolore del mondo. E comprendo che la rivoluzione più necessaria oggi è quella che dobbiamo fare noi padri.

Se volete e potete condividete questo messaggio con un uomo.

Numero2773.

 

G E N I T O R I

 

Alcuni figli non capiranno mai la tacita supplica di un genitore che li mette in guardia da qualcosa.

Quando un genitore ti chiede di non fumare, ti sta chiedendo solo di vivere più di lui.

Quando un genitore ti chiede di non uscire con determinate persone, è solo perché quelle persone potrebbero farti del male.

Quando un genitore ti chiama più volte al cellulare non lo fa per darti fastidio, è solo che la sua anima freme nel saperti sano e salvo.

Un genitore non ti dà mai il peggio, né te lo augura.

Un genitore ti ama e auspica che tu abbia una vita migliore e più felice della propria.