Numero2100.

 

L’ A R T E   M O D E R N A

 

IL PARADIGMA CONTEMPORANEO DELL’ARTE.

 

Che cos’è l’arte oggi?
È il gusto per lo scandalo e la trasgressione, è il confronto solo con un pubblico di iniziati ed è il complesso di strategie tese a dimostrare che il valore dell’arte non risiede nell’opera in sé, ma in un gioco di discorsi sociali e mediatici.
Queste sono alcune delle categorie elementari che intervengono nella realizzazione di un’opera d’arte contemporanea. Però, penso che davvero determinante sia l’idea, il comunicare un pensiero, che può essere rivoluzionario, al di là del fatto che sia più o meno provocatorio o scandalistico. Conta l’originalità e il coraggio di un pensiero nuovo, il riconoscere la potenza dell’arte in un’idea e non tanto in un manufatto o in una capacità tecnica: è la caratteristica più convincente dell’arte contemporanea.
L’arte, nel tempo, ha avuto il compito di insegnare cosa pensare, cosa credere, cosa immaginare.
Quella di oggi, che a volte teorizza il caos oppure inventa linguaggi con lo scopo di confondere e simulare, è forse diversa?
No. L’arte, quando è tale davvero, e non solo un gioco o una provocazione, quando non è fine a se stessa, credo sinceramente offra grandi intuizioni, grandi idee capaci di interpretare la realtà.
E penso, anche, che siano le donne le migliori interpreti di questa realtà, per ragioni che derivano dalla storia dell’evoluzione femminile. Le donne hanno dovuto adattarsi ed affrontare tante situazioni insieme. Infatti si dice che sono multitasking (multidisciplinari), mentre l’uomo riesce a fare solo una cosa alla volta. Probabilmente, la necessità di dover affrontare, di saper leggere con duttilità realtà così diverse, fa loro mettere in campo una dose di coraggio e di audacia in più. E poi, sicuramente, le donne, adesso, sono meno legate ai vincoli dei poteri forti: se ne stanno affrancando e pertanto sono più libere. E, da sempre, detentrici di una qualità assolutamente eccezionale: quella che le fa arrivare alla verità della realtà per via diretta, cioè l’intuizione. Che è la scintilla del fuoco sacro dell’arte.

Numero2095.

 

GOVERNO  RISTORANTE

 

Ho capito perché il Governo vuol chiudere i Ristoranti in Italia.

Perché, per evitare la concorrenza, vuol essere il solo, esclusivo, elargitore di “ristori”.

Vuol essere l’unico “Governo Ristorante”, sotto la conduzione di un geloso “Ristoratore”, Giuseppe Conte……Mah!

 

N.d.R.  Quei geni di politici e “giornalanti” del politichese che abbiamo in Italia hanno voluto distinguerli da altre forme di elargizione. Si poteva usare uno di questi sinonimi: contributo o risarcimento o compensazione o reintegrazione o indennizzo o rifusione o rimborso. Hanno coniato, invece, non un neologismo ma un’espressione parallela, un corollario metaforico e chiamato “ristori” gli aiuti finanziari, a fondo perduto, a quelle attività produttive e a quei servizi che sono costretti a chiudere a causa del COVID-19. Che originalità, che trovata! Complimenti!

Giornalanti = Giornalisti ignoranti.

Numero2094.

 

Ho qualcosa da dire sulla PANDEMIA DA CORONAVIRUS.

 

Se ne sentono di tutti i colori e, purtroppo, ho la sensazione che siamo ancora molto impreparati e sprovveduti circa gli accorgimenti pratici da suggerire o imporre per il contrasto alla pandemia. Le tante analisi, diagnosi, prescrizioni precauzionali, presidi preventivi e terapeutici e via dicendo che sono stati adottati e che ci sforziamo tutti di applicare sono sicuramente adeguati allo scopo ma, credo, non sono sufficienti.
È una mia fissa, da sempre, quella che vado qui ad esporre. Io dico e chiedo di puntare l’attenzione, la più alta possibile, ai luoghi e ai veicoli chiusi che hanno i sistemi di riscaldamento, di raffrescamento e, comunque di ricambio d’aria a circolo continuo che prevedono la presenza di filtri. Ad esempio, i sistemi di condizionamento a pompa di calore o ad aria forzata con ventilazione e quant’altro. I sistemi di purificazione dell’aria sono molto delicati ed importanti e regolamentati da protocolli di manutenzione particolarmente rigidi. Ma, pur prestando la massima attenzione a questa specifica problematica, non sento che vi sia molto allarme o sollecitudine di vigilanza su questo argomento.
Dico questo perché i sistemi di filtraggio dell’aria, in caso di mancata o scarsa manutenzione e pulizia, possono diventare un vero e proprio pericolo costante e incombente: infatti, anziché dei presìdi di prevenzione e protezione, si trasformano in veri e propri diffusori di virus e batteri: untori diabolici in pianta stabile.
Succede che tutta l’aria di un ambiente chiuso, anziché essere ricambiata con aria nuova proveniente dall’esterno, viene riciclata circolando all’interno e passando attraverso i filtri dei condizionatori. In questi filtri passano e si depositano continuamente, per tutto il tempo di funzionamento, microorganismi presenti nell’ambiente emessi dalla respirazione di migliaia di persone, fra le quali, statisticamente, sono presenti un certo numero di portatori dei virus. Questi, respirando, o tossendo, emettono virus in quantità che vengono veicolati e trasportati dalle correnti convettive dell’aria e intercettati dai filtri. In questi, a lungo andare, si formano colonie formidabili di virus e batteri con notevole carica virale e batterica e da lì gli agenti infettanti vengono ridiffusi nell’ambiente addirittura rinforzati. In un supermercato, in un cinema o teatro, in una classe scolastica, in una casa di riposo, in un vagone del treno o del metrò, in un autobus o in un tram o, peggio ancora in un aereo( aria pressurizzata), si respira continuamente aria malsana, se i filtri degli impianti termici non vengono puliti, igienizzati, sanificati con il massimo scrupolo e, soprattutto, continuamente.
Volete un esempio banale? Fate un viaggio abbastanza lungo, di almeno un’ora o due, chiusi con altre persone nell’abitacolo di un’automobile. Se una di queste ha un semplice raffreddore, in un ambiente così ristretto anche gli altri passeggeri a bordo respireranno i virus emessi dal contaminato che diventa contaminante. Nessuno ci farà caso perché la contaminazione non è immediata. Lasciate che passino alcuni giorni di incubazione del virus, minimo due o tre, e vedrete che sentirete i primi sintomi, mal di gola e naso chiuso, ma non vi ricorderete quando siete venuti in contatto con il virus. Darete la colpa all’umidità, al balzo della temperatura e quant’altro. Questi sono fattori concause dell’installarsi del disturbo respiratorio, ma non la vera causa che è sempre virale. Anche i filtri della circolazione d’aria del veicolo si possono intasare dei virus presenti in dose massiccia all’interno dell’abitacolo e possono a loro volta ridiffondere i microorganismi che lì stazionano e permangono in colonie virali vive e feconde.
Avete mai sentito dire dagli organi di informazione che sono state date disposizioni stringenti e tassative in tal senso? Io no.
Perché continuiamo a dire di metterci le mascherine, che sono un rimedio, ( e anche un business ) e non ci diamo da fare per eliminare le cause della diffusione? È così che si fa la sanità in Italia. Ma non la salute.
Per questo, lancio qui un allarme a chi vuol rendersene conto e a chi vuole ascoltare: si prendano provvedimenti urgentemente, affinché questi strumenti di riscaldamento o raffreddamento, pur necessari, non diventino il più grave pericolo per la popolazione. Molto di più di altre restrizioni che limitano la libertà personale e danneggiano l’economia. Non nascondiamoci dietro una mascherina.

Riporto, qui di seguito, una notizia che ha fatto storia nella diagnostica sanitaria.

La legionella  è un genere di batteri gram-negativi aerobi. La legionella deve il nome all’epidemia acuta che nell’estate del 1976 colpì un gruppo di veterani della American Legion riuniti in un albergo di Philadelphia causando ben 34 morti su 221 contagiati (erano presenti oltre 4.000 veterani), con eziologia (studio delle cause) ignota a quel tempo; solo in seguito si scoprì che la malattia era stata causata da un batterio, denominato poi legionella, che fu isolato nel gennaio del 1977 nell’impianto di condizionamento dell’hotel dove i veterani avevano soggiornato.

Numero2090.

Un’altra curiosità storica nella Serenissima Repubblica de Venessia.

 

Le Impiraresse: Chi erano, chi sono

Impiraressa, letteralmente infilzaperle, deriva dal verbo veneziano impirar, infilzare, e indica una particolare professione – esclusivamente femminile – nella produzione di collane e monili di perle. Il lavoro della impiraressa consiste nell’infilare piccole perle di vetro, dette conterie. A Venezia il termine conterie indica le perle, ma anche specificatamente indica lo spazio di Murano dove si producevano questi manufatti. Le fasi di lavorazione di queste perle erano complesse e molteplici, generalmente eseguite da manodopera maschile, ma l’ultima fase, ovvero quella della filatura – più delicata e più adatta alla manualità femminile – erano di pertinenza esclusiva delle donne.

Il termine veneziano impiraressa esiste dunque nella sua sola accezione al femminile. Altra particolarità di questo lavoro è che si svolgeva a domicilio. Da una parte assicurando la fondamentale presenza della donna nell’ambito domestico, dall’altra esponendola a un massacrante carico di lavoro.

Alla fine dell’800, nell’isola di Murano, apre la più grande fabbrica di perle di vetro: la Società Veneziana per le Industrie delle Conterie. Questa grande realtà manifatturiera, nata dalla fusione di tante piccole ditte muranesi, produce enormi quantitativi di perle.

A Venezia, soprattutto nei sestieri di Castello e Cannaregio ma anche nell’isola della Giudecca le conterie, attraverso una estesa rete di mediatori e la disponibilità di manodopera a domicilio e a bassissimo costo trovano uno sviluppo eccezionale. Le impiraresse sono pagate a cottimo. È stato calcolato che con il loro impegno quotidiano di 8 ore, con il modesto guadagno, a malapena, riescono ad acquistare un chilo di pane. I mediatori ci speculano. È più corretto parlare però di mediatrici, perché la distribuzione delle perle alle lavoranti avviene nella totalità dei casi dalle mistre (nome veneziano per indicare le maestre), piccole imprenditrici che con le loro relazioni con i produttori riescono ad assicurare agli industriali un buon fatturato a un costo minimo. Le mistre ricevono le perle, le portano alle impiraresse, registrandone il peso e ritirano quindi i mazzi infilati che poi vengono riconsegnati per la distribuzione commerciale. Le mistre dispongono di propri laboratori o scuole, dove insegnano a bambine e ragazzine e dove spesso gestiscono anche piccole attività di casse peote, per l’erogazione, all’occasione, di piccoli prestiti o sovvenzioni.  Le mistre – esempio di semi-imprenditorialità femminile – fungono da padroncine, ovvero pagano direttamente le operaie per il lavoro fatto e sempre loro ne ricavano però un guadagno spesso superiore a quello della impiraressa stessa.

Per l’economia della città, il lavoro delle impiraresse ha avuto un ruolo decisamente rilevante. Agli inizi del ‘900 le donne che svolgevano questa attività erano più di 5000 e quindi voleva dire altrettante famiglie sostenute da queste donne che, lavorando in casa potevano anche continuare a badare alla famiglia ed ai figli. È difficile parlare di emancipazione, perché la loro libertà di lavoro mal si conciliava con altri diritti fondamentali. Le impiraresse aderiscono numerose a partire dalla fine dell’800 agli scioperi di categoria, ma sempre con scarsissimi risultati per non dire spesso ridicolizzate anche dalla stampa maschilista dell’epoca.

Caratteristica di questo lavoro è che si svolge durante la bella stagione, con le donne sedute in calle (la tipica strada veneziana); ognuna con i propri strumenti di lavoro a fare bozzolo (col significato di cerchio, pannello) e chiacchierare (o pettegolare, come insinuano alcuni maliziosi). È interessante la rappresentazione armoniosa del pittore John Singer Sargent (ora alla National Gallery di Dublino) del 1880, dove giovani donne sono dignitosamente impegnate con i loro strumenti di lavoro.

Gli strumenti di lavoro dell’impiraressa sono molto semplici: un vassoio in legno con il fondo leggermente curvo dove vengono messe le conterie, una palmetta, ovvero 40/80 aghi lunghi 18 cm tenuti in mano come un ventaglio e i fili lunghi circa 2 metri, generalmente di lino o cotone.

Come accade in molti lavori, anche il mestiere delle impiraresse si è ripartito in varie specializzazioni: ci sono le impiraresse da fin che sono  abilissime nell’infilatura delle perle più piccole che viene eseguita con più di 80 aghi sottilissimi e dalla cruna quasi invisibile; ci sono poi le impiraresse da fiori, esperte nella infilatura eseguita senza aghi, fatta direttamente su fili di ferro  che poi modellano e attorcigliano trasformandoli, quasi magicamente, in foglie e petali di varie forme, misure e colori;  infine vi sono le impiraresse addette alla produzione delle frange che hanno un ampio utilizzo negli anni Venti del ‘900: vengono infatti impegnate per arredare tende e lampadari nelle case ma anche moltissimi abiti nel classico stile charleston.

La fabbricazione delle frange in perle di vetro richiede due fasi diverse: la prima è quella della infilatura delle conterie che avviene con una specie di pettine fatto  di particolari aghi molto lunghi ma privi di cruna e con un uncino che serve ad agganciare i  fili di cotone dove verranno trasferite le conterie; la seconda fase è quella della tessitura: con dei telai manovrati a pedale vengono praticamente tessuti i vari fili di perle che risulteranno infine bloccati da una fettuccia di cotone così da formare la frangia  Questo tipo di lavorazione sta ormai scomparendo. A Venezia è rimasta solo la ditta Gioia che, nella volontà di conservare le tradizioni, ha recuperato dalla famosa ditta Costantini gli ultimi vecchi telai in legno che ancora oggi vengono utilizzati per la produzione delle frange di perle di vetro, articolo ormai di nicchia e pressoché introvabile altrove.

Intorno al lavoro delle impiraresse c’è un mondo di termini dialettali creatisi via via negli anni e che essendosi tramandati solo attraverso il linguaggio popolare, spesso sono pronunciati in modi leggermente diversi anche da sestiere a sestiere di Venezia.
Si riporta qui di seguito un piccolo glossario.

  1. .AGÀDA: il ventaglio di aghi riempito di conterie.
  2. .BURATTINI: le perle di tanti colori diversi (spesso si facevano mescolando le poche conterie che inevitabilmente restavano sulla sessola alla fine di ogni lavoro).
  3. .CREMETTE: tipo di perle dal taglio obliquo, vengono chiamate così per la somiglianza, nella forma simile ad una losanga, che ricorda un tipico dolce veneziano chiamato appunto crema.
  4. .GIARDINETTO: praticamente un mazzo variopinto ovvero composto da più marini di vari colori.
  5. .MARIN: insieme di fili di perle corrispondente a due agàde.
  6. .MAZZO: l’unione di più marini (generalmente 240 fili).
  7. .PALMETTA: il ventaglio di aghi tenuto in mano dalla impiraressa.
  8. .ORBE: le perline con il foro tappato.
  9. .SÉSSOLA: una piccola pala di legno con fondo leggermente curvo, usato per contenere le perline di vetro da infilare. È curioso sottolineare che in una città d’acqua come Venezia questo attrezzo è spesso più usato per secar la barca, togliere l’acqua dal fondo della barca.
  10. .SPÒLVARO: la sabbia che poteva restare sul fondo della sessola (la sabbia veniva usata in alcune fasi della lavorazione delle conterie: poteva restarne nei fori delle perle se queste non venivano setacciate bene).
  11. .TAMÌSO: setaccio usato sia per pulire le perle (da sabbia e crusca ) sia per dividerle per misura.

Numero2089.

 

COME  SI  ESPRIME  LA  POLITICA

 

La politica di oggi,

con la diffusa impreparazione

dei suoi squallidi protagonisti,

non sa far altro che identificare

l’aspetto più meschino dei problemi

e banalizzarlo e ridurlo

ad un cliché, ad un totem,

ad uno slogan di poche sciocchezze.

Numero2088.

 

UN  TIMORE  È  UN  DESIDERIO

 

Ho ascoltato, di sfuggita, questa frase apparentemente contraddittoria. Mi ha indotto ad una intima riflessione.

Desiderio e paura: due facce della stessa medaglia

Che relazione c’è tra desiderio e paura e come possono entrambi rafforzare la purezza della volontà se veicolati con la giusta energia e auto-osservazione.

 

Entrambe le condizioni – sia quella di uno stato legato alla paura o mosso dal desiderio – sono estremamente vicine l’una all’altra. In quanto esseri umani siamo soggetti a variazioni del sentire che possono prendere determinate forme e avere un influsso predominante sulle azioni.

Se però si osserva, ci si ascolta, senza giudizio, con il puro scopo di conoscersi bene e sempre meglio, ecco che sentire certe spinte può rivelarsi un primo, prezioso passo per veicolarle nella direzione utile alla nostra condizione attuale dal punto di vista materiale e spirituale insieme.

Entrare in contatto con l’intuizione profonda, che sa comunicarci immediatamente cosa è bene per noi, presuppone darsi la possibilità di sentire.

Se si avverte invece paura ma, per un condizionamento interno misto a uno sociale, la si ostacola o la si nega, non ci si orienta su uno stato di evoluzione, non si vive in pieno il ruolo di protagonisti nella propria esistenza.

 

La dialettica tra paura e desiderio

È una vera e propria tensione quella che gioca dentro di noi e che può travolgerci o muoverci in senso utile. È una tensione necessaria e squisitamente umana.

Alle basi di questa tensione ci sono due tipi di impulsi: l’impulso repulsivo e l’impulso attrattivo, che partono sempre da un movimento emozionale (non mi piace/mi piace).

Se non si sta nel radicamento e nel presente, questi impulsi diventano imperanti e noi diventiamo l’arena dove si gioca un dualismo spietato e controproducente, in grado di attingere alla nostra energia vitale, alla nostra capacità di operare delle scelte in accordo con il cuore.

 

La coppia, tra desiderio e paura

Basta prendere il caso tipico del rapporto di coppia vissuto in senso ordinario, senza un reale intento di sacra condivisione: se voglio e desidero quella persona, temo anche di perderla o di assistere al suo allontanamento o che qualcuno subentri e guasti il rapporto. Questo gioco si traduce immediatamente in stati ansiosi anche di alta intensità.

Se mi distacco un attimo da tale dualismo comprendo che, di fatto, io possiedo nessuno, considerando anche e prima di tutto quanto prioritaria dovrebbe essere la gestione di se stessi. Se questo diventa il mio obiettivo, sarò impegnato in un procedimento che coinvolgerà l’altro non come vittima oppure oggetto, ma come partecipe di un processo che aggiunge luce e leggerezza.

Di fatto, si può amare senza sviluppare timore? La meccanica sembra appartenerci in quanto esseri umani, ma nostra è anche l’abilità di trasformare. Noi siamo partecipi del nostro microcosmo e possiamo adattarci al cambiamento, imparare a gestire le emozioni.

 

Desiderio e paura: la gestione delle emozioni

Possiamo pensare al desiderio come a un intento, come un obiettivo su cui tenere la mira, considerando la tensione che esso produce e gli ostacoli che potremmo via via incontrare.

Possiamo cavalcare l’esistenza senza essere trascinati da forze che ci ostiniamo a non voler guardare oggettivamente.

Occorre osservare gli impulsi fisici che la paura e il desiderio scatenano, imparare a riconoscerli.
Possiamo diventare intimi della nostra stessa sfera emotiva, prima di invadere, penetrare, criticare senza rispetto quella dell’altro.

Chi non è capace di gestire se stesso e, pertanto, non è soddisfatto del rapporto che ha con se stesso, come rimozione e compensazione in questo stato di difficoltà, per non svilire la propria personalità, tenderà a sopraffare l’altro.

 

Numero2086.

 

A R T U R O   O V V E R O   L’ E L O G I O   D E L L A   P E N S I O N E.

 

Gastone è una commedia musicale teatrale di Ettore Petrolini, rappresentata per la prima volta nel 1924 al teatro Arena del Sole di Bologna. Si tratta di una satira, ironica ed amara, della società dello spettacolo degli anni venti, e dei personaggi meschini, avidi, invidiosi e gretti che vi fanno parte. Esemplare rappresentante di questo mondo di presunti artisti è il protagonista, appunto Gastone, istrionico e carismatico attore di varietà di infima categoria, dalla affabulante parlantina romanesca, squattrinato, demodè, dedito a mille vizi, corteggiatore di tutte le soubrette e ballerine, dai modi esagerati e teatrali ma fondamentalmente malinconico e solo.

Il personaggio di Gastone trae origine da una delle numerose macchiette create, negli anni ’10, dalla fantasia surreale, crepuscolare e demenziale di Ettore Petrolini : Il bell’Arturo, parodia del giovane affettato, svenevole e un po’ stolido.

Il personaggio di Gastone è divenuto uno stereotipo comico, per il suo atteggiamento istrionico e per la sua presenza scenica caricaturale, ed è stato portato sul palcoscenico e sul grande schermo da alcuni grandi attori romani: al cinema, ne fu interprete Alberto Sordi nel film di Mario Bonnard nel 1960; a teatro ne hanno invece vestito i panni interpreti come Fiorenzo Fiorentini, Mario Scaccia e, il più bravo di tutti, Gigi Proietti.

Ricordandomi di questo, ho attinto l’ispirazione per adottare ed adattare l’aria musicale di “Gastone le beau”, modificandone il testo, poiché l’ho trovata, fra tante, particolarmente adeguata allo scopo.
Sicuramente alcuni di voi la ricorderanno, ma, siccome  non a tutti può essere presente, ne farò una breve rievocazione.

Gastone/Petrolini si presenta sulla scena vestito con il frac, scarpe nere di vernice, camicia, sparato, panciotto, papillon tutto in bianco. In testa ha il tubo a cilindro, nella mano destra ha calzato un guanto, color bianco latte, a cui è attaccato, a penzolone, il guanto sinistro e impugna un bastone da passeggio di faggio laccato nero con pomello in finto avorio. Fra le dita della mano sinistra, tiene una sigaretta appena accesa, da cui aspira, con ricercata voluttà, una profonda boccata di fumo, che trattiene nella bocca aperta, per poi lasciarla fuoruscire molto lentamente.
Così, cattura su di sé l’attenzione generale del pubblico.
La canzonetta, è presentata e seguita da un breve parlato, che non va assolutamente trascurato perché parte integrante del testo. Ne esistono varie versioni, ognuna leggermente diversa dalle altre, perché Petrolini un po’ improvvisava dal vivo. Io ne ho fatto una sintesi, cercando di coglierne le sfumature più “saporite”.

 

Gastone, è la satira efferrata (efferata) del bell’artista cinematografico, fotogenico al cento per cento, pallido di cipria e di vizio, numero di centro del “varietè”, “danseur”, “diseur”, frequentatore dei “Bal – tabarins”, conquistatore di donne a getto continuo, il tre ore di buonumore, il ridere, ridere, ridere. Autore, interpetre (interprete) del suo repertorio, creatore. Creare significa mettere al mondo qualcosa che prima non c’era. Gastone, uomo incredibilmente stanco di tutto, affranto, compunto, vuoto, senza orrore di se stesso, uomo che emana fascino, uomo rovinato dalla guerra.

 

Gastone,

sei del cinema il padrone,,

Gastone, Gastone,

Gastone,

ho le donne a profusione,

e ne faccio collezione,

Gastone, Gastone.

 

Sono sempre ricercato

per le filme più bislacche,

perché sono ben calzato,

perché porto bene il fracche,

con la riga al pantalone,

Gastone, Gastone.

 

Tante,

mi ripeton “Sei elegante!”.

Bello,

non ho niente nel cervello!

Raro,

io mi faccio pagar caro,

specialmente alla pensione,

Gastone, Gastone.                    ( N.B.   Non sono riportate le tre strofe della seconda parte )

 

 

 

(Gastone/Petrolini attraversa il proscenio con un passo di danza, che accompagna il “refrain” della canzone).
Questa camminata l’ho inventata io.
(Mostra il guanto bianco a penzolone, attaccato all’altro, che è calzato).
Anche questa è una cosuccia mia.
È una cosuccia senza pretensioni (pretese), ma è mia. Non l’ho fatta neanche registrare. È di pubblico dominio. Altri (qualcun altro) avrebbe precisato: “Made in Gastone”. È una mia trovata e me la scimmiottano tutti i comiciattoli del varietà.
I miei guanti bianco latte, elegantissimi: guardateli!
Però, il guanto bianco latte è pericoloso….Una volta, sorbendo una tazza di latte, distrattamente, …..mi son bevuto un guanto.
Ma io non ci tengo, né ci tesi mai.

Quante invenzioni ho fatto io! Discendo da una schiatta di inventori, di creatori.

Mia sorella, si chiama Lina, è una creatrice: tutti lo sanno, la chiamano …..Creolina.

Mio padre ha inventato la macchina per tagliare il burro: una cosuccia da nulla, un pezzettino di legno ricurvo e, teso e legato alle estremità, un fil di ferro . Et voilà.

Mia madre, anche lei  era una grande inventrice, innanzitutto ha inventato me. Mia madre studiava economia, aveva il senso del calcolo e del risparmio sviluppato fino alla genialità.
Figuratevi, io mi chiamo Gastone, lei mi chiamava Tone,….Tone, per risparmiare il Gas.
Infatti, il mio diminutivo è Tone….tutti mi chiamano Tone….quante donne si contenterebbero di mangiare pan e… Tone.
Ma io non ci tengo, né ci tesi mai.

A me mi ha rovinato la guerra. Se non era per la guerra, a quest’ora stavo a Londra. I londrini (londinesi), per me, vanno pazzi.
Dovevo andare a Londra come musicista: dovevo musicare l’orario delle Ferrovie.
Ma io non ci tengo, né ci tesi mai.

Io sono molto ricercato: ricercato nel parlare, ricercato nel vestire, ricercato dalla Questura.
Io sono molto ricercato, anche perché porto molto bene il fracche: ovunque io vado, porto quell’onda di signorilità che manca agli altri comici del varietà.
Io sono nato con il fracche. Anzi, quando sono nato, mia madre mica mi ha messo le fasce, macché! Un fracchettino. Camminavo per casa che sembravo una cornacchia (o un pinguino).
Ma io non ci tengo, né ci tesi mai.

E poi, sono il cantante aristocratico, sono grande nella dizione, sono il “fine dicitore”.

Adesso vi faccio sentire tutto il succo del mio ingegno, con un saggio della mia dizione.
Io sono, come vi ho detto, il “fine dicitore” e tutto ciò che dico è veramente profondo.
Io non ci tengo, né ci tesi mai, però fate attenzione a questo mio soliloquio così denso di pensiero.
Non fermatevi alla superficie, ascoltate bene quello che c’è dentro, quello che c’è sotto. È il mio motto: “Sempre più dentro, sempre più sotto”.

Se l’ipotiposi del sentimento personale, prostergando i prolegomeni della subcoscienza, fosse capace di reintegrare il proprio subiettivismo alla genesi delle concomitanze, allora io rappresenterei l’autofrasi della sintomatica contemporanea, che non sarebbe altro che la trasmificazione esopolomaniaca.

Che ve ne pare? Che bel talento eh?

Ma io non ci tengo, né ci tesi mai!

 

Questa è la parodia di Petrolini.

E quella che segue è la parodia della parodia, di Alberto per il suo amico Arturo, dal titolo:

 

A R T U R O   O V V E R O   L’ E L O G I O   D E L L A   P E N S I O N E.

 

Arturo,

ti sorriderà il futuro,

Arturo, Arturo,

Arturo,

sì, nel tempo tuo venturo,

sarà tutto meno duro,

Arturo, Arturo.

 

Senza andare al lavoro,

non avrai molto da fare

e, senza alcun deploro,

farai quello che ti pare :

sarà l’ ozio di Epicuro,

Arturo, Arturo.

 

Tanti

I momenti rilassanti,

bello

riposare il cervello.

Raro?

Per te non sarà avaro

Il tuo tempo, di sicuro,

Arturo, Arturo.

 

Arturo,

oramai tu sei maturo,

Arturo,Arturo,

Arturo

fai con calma, ti scongiuro,

mai a ritmo di tamburo,

Arturo, Arturo.

 

Se qualcuno ti ha cercato,

tu farai l’indifferente,

sarai troppo occupato

a non fare quasi niente:

il riposo è duraturo,

Arturo, Arturo.

 

Si dice

che ti senti già felice,

la flemma

ti risolverà il dilemma.

Domattina,

ti farai una dormitina

e dirai “non me ne curo”,

Arturo, Arturo.

 

 

 

Caro Arturo,

il tempo della pensione è tutto ciò che ti resta della tua vita. Utilizzalo nel modo migliore, affinché diventi il periodo più bello. Non dipende dagli altri. Finalmente, dipenderà solo da te.
Auguri!

Alberto.     Con gli amici del Tennis Club Martignacco.

 

Martignacco,  22 Ottobre 2020.