S T R A N E F O B I E
PISTANTROFOBIA = paura di fidarsi
THANATOFOBIA = paura della morte
PHILOFOBIA = paura di innamorarsi
ATELOFOBIA = paura dell’imperfezione
KAINOLOFOBIA = paura del cambiamento
AUTOFOBIA = paura della solitudine
Cosa ci insegna la vita… testamento spirituale di un libero pensatore
S T R A N E F O B I E
PISTANTROFOBIA = paura di fidarsi
THANATOFOBIA = paura della morte
PHILOFOBIA = paura di innamorarsi
ATELOFOBIA = paura dell’imperfezione
KAINOLOFOBIA = paura del cambiamento
AUTOFOBIA = paura della solitudine
P A R O L E D E L S E S S O
Non so se ci avete mai pensato, ma le parole italiane, sia quelle dotte che quelle popolari (comprese quelle dialettali) che denominano termini che riguardano la sfera sessuale, cominciano con la lettera F.
Secondo me, c’è una spiegazione che ha a che fare con l’onomatopea.
Fricare, in latino e anche in italiano, è un verbo che significa “sfregare, strofinare, stropicciare”.
Confricazione vuol dire strofinamento.
Le consonanti F e V vengono chiamate “fricative” labio-dentali, perché vengono pronunciate emettendo un soffio fra denti e labbra.
Le parole in questione sono: fica, fregna, fessa, fottere, fregare, foia, fregola, fellatio, fornicare, fava, vulva, vagina.
Anche in inglese, comincia con la F il verbo to fuck che vuol dire fottere.
I L S I L E N Z I O
Quello che non puoi dire
con le parole
puoi dirlo con il silenzio.
Hermann Hesse.
G I O C O C O N L E P A R O L E (curiosità paradossali)
AMBASCIA = oppressione spirituale, accoramento stringente, grave difficoltà di respiro.
Allora, perché si dice: AMBASCIATOR NON PORTA PENA ?
E ancora.
Se la terra è rotonda (o tondeggiante) e non piana (o piatta),
allora, perché viene considerata un pianeta?
E S T M O D U S I N V E R B I S ( C’ È U N M O D O N E L D I R E L E C O S E )
Una circonlocuzione elegante,
accademicamente cruscante,
è un ipocrita e surrettizio
trucco della mente, un artifizio
per ingentilire un po’ il pensiero
che non è, per questo, meno sincero.
Una espressione diretta, papale,
pure se sembra che suoni un po’ male,
ha, però, la sua chiara verità,
persino con palese volgarità.
Non c’è regola nel dire le cose,
che siano interessanti o noiose.
Così, nella scelta delle parole,
talvolta, quello che ci va ci vuole.
da QUORA
CHI ERANO GLI ELOHIM
ELOHIM
Un nome per Dio usato frequentemente nella Bibbia ebraica.
La parola biblica per Dio è in realtà un titolo e non un nome. Questo titolo può riferirsi ad altri esseri spirituali oltre che al Dio creatore. In questo video esploriamo la terminologia biblica per gli esseri spirituali e come questo ci aiuta a capire cosa significa la Bibbia quando dice che “Dio è uno”.
Quando la maggior parte della gente pensa alla storia della Bibbia, pensa a una storia su Dio e sugli uomini.
Ma ricordate, abbiamo imparato che c’è un intero altro cast di personaggi che appare in tutta la Bibbia e gioca un ruolo davvero importante.
Giusto. Esseri spirituali: angeli, demoni e simili.
Giusto. Nella Bibbia, essi abitano il regno celeste che è parallelo alla nostra realtà terrena e si sovrappone a essa.
Tutti questi esseri spirituali hanno le loro caratteristiche uniche.
Ma ecco ciò che è affascinante.
Gli autori biblici hanno una parola che può riferirsi a tutti gli abitanti del regno spirituale.
Nell’ebraico dell’Antico Testamento la parola è “Elohim”.
Nel Nuovo Testamento greco è “Theos”.
Ma il fatto è questo.
Questa parola viene tradotta in molti modi diversi, a seconda dell’essere a cui si fa riferimento:
angeli, dio con la “d” minuscola, o anche dio con la “D” maiuscola.
Aspetta, una parola può riferirsi a uno qualsiasi di questi esseri?
Sì.
È perché Elohim è un titolo di categoria.
Può designare qualsiasi essere spirituale che appartiene al regno celeste.
Ok, un titolo, non un nome.
Come la parola “mamma”.
Sì, giusto!
La parola mamma può riferirsi a molti tipi di persone veramente diverse, ma tutte hanno in comune lo stesso ruolo in una famiglia.
Poi, diciamo che un gruppo di fratelli e sorelle stanno parlando e uno dice: “Ehi, è il compleanno della mamma!
Usano il titolo come se fosse un nome.
Ma è chiaro che non si riferiscono a nessuna mamma, ma alla loro mamma.
Sì. E lo stesso vale per gli autori biblici.
Hanno chiamato il loro Dio “Yahweh”, che è il nome rivelato a Mosè.
Ma a volte si riferiscono a lui anche con il titolo di categoria “Elohim”,
Usato come un nome perché tutti sanno a chi si riferiscono.
Va bene, ma gli autori biblici non pensano che Yahweh sia in una classe tutta sua, non come gli altri?
Lo pensano.
Per questo dicono cose del tipo: “Yahweh è l’Elohim di Elohim”.
Cioè, l’Elohim capo tra tutti gli altri.
Oppure, diranno: “Non c’è nessun Elohim oltre a Yahweh”.
Significa che nessun altro essere spirituale è paragonabile a lui, perché solo lui è il sovrano e il creatore di tutte le cose.
Ok, vi seguo. Ma pensavo che la Bibbia insegnasse il monoteismo, il che significa che c’è un solo Dio.
Bene, gli autori biblici sostengono che tra tutti gli esseri spirituali là fuori, solo uno è la fonte e il creatore di tutte le cose, incluso l’Elohim.
Questo è il monoteismo biblico: che un solo Elohim, Yahweh, è al di sopra di tutti gli altri Elohim.
Cioè gli altri esseri spirituali.
Ora, con tutto ciò che è stato detto, siamo pronti a sapere di più su chi sono questi altri Elohim
e come si inseriscono nella storia biblica.
C’è un gruppo affascinante di Elohim a cui la Bibbia dà molti titoli:
le “schiere del cielo”, “i figli di Dio” o anche “il consiglio divino”.
Gli Elohim sono esseri spirituali.
Secondo molti studiosi i primi ebrei non erano monoteisti, ma politeisti e veneravano un pantheon di divinità simile a quello di altre popolazioni del Medio Oriente come i Fenici e i Cananei, in cui Yahweh era il capo, come Zeus o Odino per Greci e Norreni. Di conseguenza Yahweh aveva anche una moglie di nome ASHERAH.
Solo in seguito gli Ebrei avrebbero adottato il monoteismo ed eliminato il culto degli altri dèi minori, tra cui Asherah.
Il suo nome è simile a quello della dea Astarte o Ishtar e potrebbe significare “Colei che cammina sui mari”.
da QUORA
Scrive Shiro Fukò, corrispondente di QUORA
Le nuove generazioni sono più ignoranti delle precedenti?
Nel corso dei secoli le nuove generazioni sono sempre state più intelligenti delle precedenti, secondo una normale regola evoluzionistica.
Tuttavia, negli ultimi dieci anni, stiamo assistendo a un fenomeno insolito: i figli sono meno intelligenti dei loro genitori.
Il Quoziente Intellettivo medio della popolazione occidentale è in declino, con particolare riferimento alle capacità di memoria e apprendimento.
Una delle ragioni di questo fenomeno è da ricercare nell’impoverimento del linguaggio.
Diversi studi hanno rivelato una correlazione tra la ricchezza lessicale e la capacità di elaborare pensieri complessi.
La graduale scomparsa dell’uso dei tempi verbali si accompagna a un ridotto uso delle parole.
La ragione della sempre più dilagante violenza nella società è causata anche dall’incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso il linguaggio.
Quando mancano le parole per spiegarsi e difendere le proprie ragioni, il ricorso alla violenza fisica diventa un rischio concreto.
La semplificazione dell’ortografia, come l’abolizione dei generi, dei tempi, delle sfumature lessicali rappresentano una causa dell’impoverimento della mente umana.
A B R A C A D A B R A
Da bambini avrete certamente sentito questa parola. Non tutti sanno, però, che deriva dall’aramaico Avrah KaDabra: «io creo quello che dico». Che cosa significa? Che le parole creano la realtà. Non c’è pensiero senza parole. E senza pensieri non esistono pensieri critici.
Pensate che cinquant’anni fa un ginnasiale conosceva in media 1600 parole; oggi non ne conosce più di 500. È una cosa grave, si domanderanno alcuni?
Ecco, ricordate le sirene del mito di Ulisse? Con il loro canto seducono i marinai e li spingono a gettarsi in mare. Perché ci riescono? Perché le loro parole sono così persuasive che riescono a condizionare gli uomini. O ricordate il latinorum di Don Abbondio, il linguaggio forbito dell’Azzeccagarbugli? Tutti questi personaggi hanno una cosa in comune: distraggono, sviano, manipolano. Ma riescono ad avere la meglio sugli altri perché sanno parlare.
Quando prendo in mano un giornale o leggo un libro pubblicato recentemente, mi prende proprio una gran rabbia. Perché questi libri e questi articoli sono scritti come se noi lettori avessimo cinque anni e fossimo tutti preda di un istupidimento collettivo! Ma l’importante è che siano facilmente comprensibili! Sbagliato! Perché oggi, non mi stancherò mai di ripeterlo, i ragazzi hanno bisogno di conoscere più parole, perché non puoi esprimere ciò che hai dentro, non puoi avere un pensiero critico, non puoi dare voce al tuo dissenso se non hai le parole per farlo. E non soltanto i ragazzi ne hanno bisogno.
E a coloro che sostengono la necessità di semplificare il linguaggio e di abolire la punteggiatura, voglio rispondere con questa frase del poeta Julio Cortàzar: «Se l’uomo capisse realmente il valore che ha, la donna andrebbe continuamente alla sua ricerca.» Però se adesso sposto la virgola dopo la parola donna, una semplice virgola che molti reputano inutile come lo studio della grammatica e della letteratura, guardate come cambia la frase: «Se l’uomo capisse realmente il valore che ha la donna, andrebbe continuamente alla sua ricerca.»
Come si fa? Si arricchisce il proprio vocabolario leggendo molto e, per leggere molto, ci vuole molto tempo. Bisogna saperlo ricavare rinunciando alla play station e all’Happy hour, ma non solo. Bisogna anche interessarsi di tanti argomenti e padroneggiare i termini specifici di ciascuno di essi, dopo averli capiti a fondo: rem tene et verba sequentur, diceva Catone il censore, che vuol dire “possiedi un argomento e le parole seguiranno”. Rifuggite, giovani, dalle semplificazioni artificiali, non è tempo perso articolare compiutamente ed anche elegantemente una comunicazione o un ragionamento, perché è indice di ampiezza oltre che di chiarezza e di profondità di pensiero. Le parole sono sempre state uno strumento decisivo nel processo di convinzione dell’interlocutore: anche una cosa banale, illustrata bene e raccontata con maestria, diventa un link (connessione) affidabile e credibile.
da QUORA
I C O G N O M I D E G L I O R F A N I L’argomento è già stato trattato al Numero1502, questo è un approfondimento.
I cognomi degli orfani.
Prima del Medio Evo, i genitori in difficoltà economiche non abbandonavano i propri figli, ma li vendevano; le femmine venivano vendute per la prostituzione e i maschi per i lavori dei campi e le fatiche.
Durante il Medio Evo Federico II di Svevia mise fine a questa pratica con una legge che proibiva la vendita delle femmine per la prostituzione.
Si passò così alla pratica detta “oblazione”, consisteva nel lasciare in “dono” i propri figli nei conventi, abbandonandoli in un marchingegno a ruota che permetteva di introdurre il pargolo dall’esterno, mantenendo l’anonimato.
Quando un bambino veniva abbandonato si doveva mettergli un cognome.
A Napoli, tutti i bimbi della ruota degli esposti si chiamavano appunto Esposito, che è “esposto” in spagnolo, oppure Ruotolo. Prima di adottare questa pratica, infatti, i neonati venivano esposti sui gradini delle chiese e lasciati anche per ore alle intemperie, prima che qualcuno li scoprisse: spesso venivano trovati morti assiderati.
A Firenze ed in Toscana, uno dei conventi fu lo Spedale di Santa Maria degli Innocenti, e gli esposti ebbero tutti il cognome di Innocenti, Degli Innocenti, Nocenti, Nocentini.
A Milano l’istituto era l’ospizio di Santa Caterina della Ruota, che aveva come simbolo una colomba, perciò qui i trovatelli vennero nominati Colombo e Colombini. Similmente a Pavia, ad esempio, gli esposti vennero chiamati spesso Giorgi, mentre a Siena avevano per cognome Della Scala.
Spesso i bimbi abbandonati venivano chiamati con cognomi esplicativi: Esposti, Orfano, Proietti, Trovato, Ventura, Venturini, Bastardo, Ignoto, Incerto, Infascelli, D’Avanzo, Spurio. Casadei, Casadidio, Casagrande, Diotallevi, Donadio, Vacondio, Bentivoglio. In Veneto Balasso.
Se abbandonati vicino alla ruota degli esposti venivano chiamati Rota, vicino ad un ponte Da Ponte, vicino ad una chiesa il cognome era Chiesa, Dalla Chiesa, Della Chiesa.
Erano i figli di “N.N.” (Nomen Nescio = non conosco il nome) o di “M. IGNOTA” ( Mater Ignota = di madre sconosciuta, da cui il termine dispregiativo “mignotta”).
A I G I O V A N I I T A L I A N I
Correva l’anno 1818 e, dalla dimora gentilizia in Recanati, dove abitava la famiglia paterna del Conte Monaldo, un giovane, aveva allora 20 anni, Giacomo Leopardi, fra le sue “sudate carte”, mandava un appello, nobile, accorato e quasi commovente, ai suoi coetanei e conterranei. A oltre 200 anni di distanza di tempo, è di una sorprendente attualità. Eccolo.
Io non vi parlo da maestro, ma da compagno. Non vi esorto da capitano, ma vi invito da soldato. Sono coetaneo vostro e condiscepolo vostro ed esco dalle stesse scuole con voi, cresciuto fra gli studi e gli esercizi vostri, partecipe dei vostri desideri, speranze e timori.
Abbiate pietà di questa bellissima terra e dei monumenti e delle ceneri dei nostri padri.
Fate che la povera patria nostra, in tanta miseria, non rimanga senza aiuto, perché non può essere aiutata fuorché da voi.
U N L U S T R O
In questo mese di novembre, dell’anno 2018, questo BLOG emetteva i suoi primi vagiti.
Buon compleanno a MILLE E PIU’ MOTTI.
Sembra che sia diventato adulto: ora si occupa di argomenti più seri ed importanti. L’epoca e lo spirito dei piccoli proverbi di cinque anni fa sono superati, per far posto ad altre istanze ed interessi.
Anche chi scrive è diventato più vecchio e, forse, anche più saggio: molto ha imparato, cammin facendo, dalle sue stesse scritture, tramite le ricerche, le documentazioni, le recensioni; ha tratto spunto da ogni tipo di argomenti, i più svariati, ma sempre con spirito di curiosa criticità e persino, a volte, di partigianeria per i propri punti di vista.
Spero di non aver annoiato nessuno, io certo non mi sono annoiato e continuerò, pervicacemente, a pormi ancora tante domande per sviscerare delle risposte che spero non saranno deludenti per i lettori, ma sempre coinvolgenti e mai banali.
Grazie a chi mi ha seguito fin qui e….buona prosecuzione. Fino a quando non so….
3 Novembre 2023.
Qual è l’origine della parola siciliana “minchia”?
L’etimologia di questa parola e’ ricondotta al latino mèntula (riportata acriticamente e stancamente da molti vocabolari, anche da quello calabrese del Rohlfs): da cui potrebbe derivare anche il calabrese mentìri, equivalente a penetrare: iddha mi risi ed eu nci risi / iddha lu vosi ed eu nci lu misi.
Il mai compianto abbastanza Giovanni Semerano (Dizionario della lingua latina e di voci moderne, Firenze, Olschki, 2002, sub mentula, mateola, meta) chiarisce che dall’ebraico matte, pertica, e dall’accadico metu, palo (da cui l’espressione latina porrexit ab inguine palum per ebbe un’erezione), è derivato il latino arcaico mattea, mazza, con il diminutivo mateola, piccola mazza (analogo al calabrese mazzarèddhu), poi divenuto mèntula; meta era inoltre “un cumulo conico di paglia. Di fieno, …, sempre costituito da uno stollo o stocco, lunga pertica intorno alla quale si ammucchiava la paglia”; e, d’altra parte, deriva da ‘meta’-pertica anche il verbo metor, misuro con la pertica, donde il metro unita di misura nel sistema metrico decimale.
Per Raffaele Corso (La vita sessuale nelle credenze, pratiche e tradizioni popolari italiane, Firenze, Olschki,, p. 298) da mentula deriva il latino medievale mentla che, attraverso gli intermedi menkla e menkja, conclude finalmente il suo viaggio bimillenario con la minchia calabro-sicula.
E, a proposito di misure, lunghe e sofisticate applicazioni nulla hanno apportato circa la lunghezza accettabile, ‘media’ o ‘modale’, per la minchia: inferenze venivano ricavate da tratti somatici evidenti ( quali nasu / tali fusu) e, con sofismi ‘a contrario’ rispetto all’altezza, si sosteneva (e la circostanza era avvalorata da una canzone di Fabrizio di André) che i nani sarebbero superdotati e gli spilungoni facessero brutta figura; donde il brocardo che l’omu non si misura cu lu parmu ma, verrebbe da dire, la minchia sì.
E colpì molto il fatto che i Bronzi di Riace, simbolo ormai universale della virilità nell’arte classica, apparissero sproporzionati per difetto.
Io sono un uomo
che s’offre.
Gli uomini dicono circa 12.500 parole al giorno.
Le donne ne dicono circa 22.000.
N O I A
Coi miei discorsi
ho riempito alcune ore
della vostra noia?
Allora … non sono così noioso …