Numero2243.

 

N I E N T E   P A U R A !   S O N O   A N C O R A   V I V O.

 

Avete ragione, qualcuno mi ha anche chiamato per sapere se mi era successo qualcosa. In effetti, ho dato il modo di pensarlo, perché in questi ultimi tre mesi, ho pubblicato ben poco. Ma sono felice di rassicurare tutti che godo di buona salute, compatibilmente con l’età, Il fatto è che , in questo periodo, mi sono dedicato ad un progetto editoriale molto impegnativo, del quale non voglio anticipare nulla, ma che vedrà la luce solo dopo il compimento del mio ottantesimo anno di età, quindi a luglio del prossimo anno. L’ho cominciato tre mesi fa, per l’appunto, e pensavo di aver bisogno di un anno intero per realizzarlo. Invece, con mia sorpresa, devo comunicare che è praticamente finito in questi giorni. Attualmente, sto correggendo e rifinendo le bozze. Credo che, in una settimana, avrò concluso. Dopo di che, mi rimetto in pista, con le antenne accese, per dedicarmi a qualunque argomento che possa attirare la mia attenzione. Vi ringrazio del vostro interessamento, in questa circostanza e sempre. È un onore ed un piacere, sentirmi seguito: grazie.

 

Numero2180.

 

T R O P P E   R I E V O C A Z I O N I :  POVERO  IL  POPOLO  CHE  HA  BISOGNO  DI  EROI !

 

Ne ho abbastanza! Ho bisogno di sbroccare!
Da qualche tempo (su per giù da quando si è insediato questo tipo di governi degli ultimi tempi), si è instaurata, subdolamente e surrettiziamente all’esordio, poi con frequenza dilagante e urtante, la moda delle rievocazioni.
Non passa giorno che ci viene proposta dal mondo dell’informazione, a cura di solerti giornalistini, evidentemente su incarico di dirigenti a loro volta ispirati da esponenti politici, una serie interminabile ma puntuale di ricorrenze, di anniversari di nascite o di morti, di giorni del ricordo, della memoria, riesumazioni di personaggi e rievocazioni di avvenimenti passati, con una assiduità sospetta e inconsueta.
D’accordo, lo si è sempre fatto: è persino doveroso e giusto che certe ricorrenze di fatti importanti e reminiscenze di personaggi illustri della storia patria non vengano trascurate, ma è oltremodo irritante, almeno per me, l’insistenza e l’improntitudine con cui ci vengono riproposti fatti e personaggi passati, come santi laici e celebrazioni del calendario. Per inciso, sanctus è il participio passato del verbo latino sancire, che vuol dire, come in Italiano, stabilire, fissare, dichiarare, decretare, disporre, imporre, legiferare, promulgare, statuire, approvare, confermare, convalidare, ratificare, consacrare ( quanti sinonimi, e quante diverse sfumature, di una parola o di un verbo esistono nella nostra lingua! Forse troppi! ). Il calendario contiene date e ricorrenze che devono essere ricordate, rispettate e festeggiate: scandiscono lo scorrere del tempo della convivenza civile, secondo partecipazioni collettive abitudinarie e convenzionali. E contiene anche centinaia di personaggi della storia religiosa cristiana cattolica che, in un modo o in un altro, si sono distinti meritoriamente nell’ esemplificare questa appartenenza e professione di fede. Alla stregua del calendario devozionale, vogliono forse istituire un calendario laico e secolare?
Ad essere rievocati non sono poi avvenimenti di eccezionale importanza della nostra storia passata, recente o lontana, o personaggi di grande rilievo dell’arte, della politica, della scienza e quant’altro. Vengono riesumati accadimenti, solo di un certo tipo e con una certa partigianeria, anche poco significativi, ma che, giornalisticamente e, vivaddio, anche politicamente, fanno gioco. E personaggi, positivi o negativi, paradigmatici di una ben definita appartenenza. Questo, che si sta instaurando, è un clima autocelebrativo che mi piace poco. Mi chiedo dove stia la regia occulta di questa “atmosfera”: costruire un sancta sanctorum leggendario. Forse lo posso immaginare. Ma si ricordi sempre che la leggenda penetra solo laddove i valori che vuole esaltare sono accettati dalla comunità a cui li si presenta. E che rievocare ossessivamente gli esempi del passato significa solo non aver fiducia nei valori del presente né, tanto meno, in quelli del futuro. In certe stanza dei bottoni, qualche studioso di sociologia si è accorto che stanno venendo meno i principi e i valori statuali e statali, insomma, nazionali. Appellarsi a quei principi fondanti di valori “tradizionali” è giusto, ma deleterio quando questa diventa l’unica matrice di comunicazione. Ci dovrebbe sorreggere, al contempo, lo spirito critico, la cultura dell’attualità creativa e l’attivismo innovativo che vedo, purtroppo, mancare alle generazioni che si affacciano alla storia di questo paese. Altro che partiti progressisti!
Un’ultima considerazione. Un popolo, una nazione, una comunità sociale e civile che indulgono così spesso in questa pratica di tentare di insediare su qualche piedistallo degli “eroi” del passato e di “mitizzare”, con spicciola disinvoltura, fatti o personaggi anche di secondaria importanza, e perfino negativi, sono dei perdenti.
Ricordiamo insieme certi personaggi della storia di Roma, come Attilio Regolo e Muzio Scevola, che fin dalle scuole elementari, ci venivano additati come esempi di coraggio e di abnegazione, per la salvezza del bene comune. Tito Livio ci dice: “facere et pati fortia Romanum est” ossia, “L’operare e il soffrire da forte è degno di un Romano”. Ebbene, anziché essere degli eroi positivi della storia patria, essi sono il simbolo di sconfitte militari: pur di non ammettere che le sorti dei conflitti non erano state favorevoli, si sono “mitizzati” dei personaggi sacrificali e salvifici che, in realtà, sono morti e hanno fallito e perduto.
Tecnica vecchia, quella di “celebrare” la sconfitta!

Numero2005.

 

L’ U O M O   E    L A   L I B E R T À                    La condizione umana vista con gli occhi della filosofia.

 

La tesi che vorrei illustrare, senza nessuna pretesa di persuadervi, perché in tutte le cose che dico, non ho mai preteso di persuadere nessuno, anche perché non ci riesco, è che la libertà non esiste.
Però esiste l’idea di libertà e guardate che, quando esiste, un’idea fa storia.
Per esempio, nessuno sa se Dio esiste, in fondo, nessuno l’ha mai visto. Però, dal fatto che esiste l’idea di Dio, nasce una storia, la storia di chi è persuaso che Dio esiste.
Mi raccomando, le idee non stanno a raccontare la verità. Bisogna considerarle dal punto di vista della loro efficacia storica. Se l’dea genera una storia, questa idea va presa in considerazione.

 

Umberto  Galimberti      filosofo.

Numero1993.

 

C U R I O S E   C O I N C I D E N Z E   S T O R I C H E.

 

Se vi interessano le corrispondenze, nell’ambito della scienza, dei nomi e dei numeri, pensate alle stupefacenti coincidenze tra l’assassinio di John Fitzerald Kennedy e quello di Abraham Lincoln.
Lincoln venne eletto al Congresso nel 1846 e Kennedy nel 1946.
Lincoln fu eletto Presidente nel 1860, Kennedy nel 1960.
L’assassino di Lincoln, John Wilkes Booth, nacque nel 1839 e Lee Harvey Oswald, il presunto assassino di Kennedy, nacque nel 1939.
Entrambi i loro successori si chiamavano Johnson. Andrew Johnson, che succedette a Lincoln, era nato nel 1808, mentre Lyndon Johnson, che succedette a Kennedy, era nato nel 1908.
La segretaria di Lincoln si chiamava Kennedy, mentre la segretaria di Kennedy si chiamava Lincoln.
Entrambi i Presidenti furono assassinati di venerdì, davanti alle loro mogli, ed entrambi furono uccisi con un colpo alla testa.

Numero1790.

MASSONERIA  E  RISORGIMENTO  ITALIANO

MASSONERIA  E  CHIESA  CATTOLICA ROMANA

Ciro Menotti, Giuseppe Mazzini, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Vincenzo Gioberti, Giuseppe Garibaldi, Nino Bixio, Aurelio Saffi, Camillo Benso Conte di Cavour erano tutti massoni.

Non è vero che l’Unità d’Italia è stata ottenuta per volontà popolare, come ha sempre voluto farci credere la retorica nazionalistica. Al contrario è stata una cospirazione nobile – medio borghese di patrioti liberali anticlericali “illuminati”, la cui cultura è ascrivibile all’Illuminismo Razionalista e Libertario. Un parto elitario e settario.

Questa tesi è stata da me sostenuta nel tema d’Italiano all’esame di Maturità Classica presso il Liceo Stellini di Udine nel luglio del 1960. Era una esegesi storica chiaramente controcorrente, rispetto ai comuni insegnamenti dei testi di storia. Ho dovuto sostenere, per questo, un duro contraddittorio con tutta la Commissione, all’esame orale, come un interrogatorio di terzo grado, come in un Tribunale dell’Inquisizione: ero considerato un “sovversivo” dell’ordine costituito, sul piano intellettuale, ben s’intende. Se mi hanno dato il 9, come voto, probabilmente è perché hanno riconosciuto che i miei argomenti erano storicamente e filologicamente corretti e condivisibili, ancorché e quantunque frutto di una interpretazione del tutto personale.

L’opera della massoneria nel Risorgimento italiano è iniziata con Napoleone e terminata con la distruzione dello Stato pontificio. Sempre condannata dal magistero della Chiesa.

Che lo scopo ultimo della massoneria dell’Ottocento fosse proprio l’abbattimento del potere temporale dei papi e che per raggiungere questo obiettivo i “fratelli” di tutto il mondo si siano affidati ai Savoia che hanno realizzato un’unificazione italiana ad immagine e somiglianza dei desiderata del pensiero massonico, sta scritto nero su bianco in centinaia di documenti sia di parte massonica che cattolica.


Tanto per esemplificare. Il Risorgimento è iniziato dal massone Napoleone che invade l’Italia e la saccheggia impunemente in nome della “libertà”. Prima dì entrare a Milano, il futuro imperatore ha l’ardire di rivolgere alla popolazione il seguente bando: ” Noi siamo amici di tutti i popoli, ed in particolare dei discendenti dei Bruti e degli Scipioni. Ristabilire il Campidoglio, collocandovi onorevolmente le statue degli eroi che lo resero celebre: e risvegliare il Popolo Romano assopito da molti secoli di schiavitù, tale sarà il frutto delle nostre vittorie, che formeranno epoca nella posterità”.

Napoleone attribuisce a se stesso il ruolo di liberatore. Vuole che gli italiani non siano più schiavi. Ma da chi e da cosa gli italiani, carichi di storia e di primati, avrebbero dovuto essere liberati? Lo si capisce con immediatezza considerando lo stemma del Regno d’Italia che vede la luce nel 1805, frutto della fervida fantasia del generale-imperatore. Come distintivo del nuovo tipo di regalità, spicca, tra gli altri, un simbolo molto impegnativo: un Pentalfa massonico (una stella a cinque punte) con due punte rivolte verso l’alto e una sola verso il basso. Un’insegna satanica. Ciò significa che Napoleone non si vergogna di mostrare in bella vista cosa intende per l’Ordine Nuovo che viene ad imporre al mondo: un ordine fondato sulla potenza di Satana. Un ordine anticristiano. 
Per capire come il binomio massoneria-satanismo sia in qualche modo costitutivo, bisogna tener presente che la visione del mondo massonica è interamente costruita intorno a due presupposti. Il primo è il rifiuto della Rivelazione: i massoni ritengono spetti all’uomo in totale autonomia, e col solo aiuto della ragione, stabilire quali siano le leggi della morale e del vivere civile.

Questo è anzi il compito che i massoni ritengono loro proprio ed esclusivo: non a caso il 10 febbraio 1996 una pagina intera di pubblicità sul Corriere della Sera ricorda che i massoni “hanno la responsabilità morale e materiale di essere guida di altri uomini”.

Il secondo presupposto è che la natura dell’uomo (della specie umana, non del singolo) è costantemente perfettibile: si tratta del mito del Progresso che induce a ritenere possibile il raggiungimento su questa terra della felicità (il diritto alla felicità tanto solennemente iscritto nella Costituzione americana) conseguito attraverso il pieno sviluppo di tutte le potenzialità umane.

La massoneria ritiene dunque possibile raggiungere la tangenza uomo-dio con le sole forze della ragione, e cioè per natura: gli aspetti di satanismo che colorano tante posizioni massoniche derivano da questa convinzione. Nel libro della Genesi quando Satana si rivolge ad Eva lo fa proprio per insinuarle il desiderio di diventare Dio come se ciò fosse possibile in forza di un semplice atto di volontà: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio” (Gn 3, 5).

Tanto per restare in Italia, è in questo contesto teorico che Giosuè Carducci  (Premio Nobel per la Letteratura nel 1906) compone l’inno a Satana (“Salute, o Satana,/ O ribellione,/ O forza vindice/ De la ragione!”).

Tenendo presenti questi assunti diventa chiaro in che senso Napoleone (ed i liberali al di lui seguito) spaccino se stessi per i liberatori del popolo italiano: si propongono di “liberare” gli italiani dal cattolicesimo che, a loro modo di vedere, ha trasformato gli ‘eredi degli Scipioni” in un popolo di schiavi.

Più in generale la massoneria ritiene che gravi sulle sue spalle il compito ciclopico di liberare l’uomo dalla superstizione, da ogni superstizione. Ecco cosa scrive nel 1853 il luminare della massoneria francese J.M. Ragon: l’ordine apre i suoi templi agli uomini “per liberarli dai pregiudizi dei loro paesi o dagli errori delle religioni dei loro padri”. Ancora: la massoneria “non riceve la legge ma la stabilisce dal momento che la sua morale, una ed immutabile, è più estesa e più universale di quelle delle religioni native, sempre esclusive”.

La massoneria italiana è perfettamente allineata su questa posizione. La Costituente che si riunisce nel maggio del 1863 dopo aver stabilito che l’ordine “Non prescrive nessuna professione particolare di fede religiosa, e non esclude se non le credenze che imponessero l’intolleranza delle credenze altrui”, precisa (art.3) che i principi massonici debbono gradualmente divenire “legge effettiva e suprema di tutti gli atti della vita individuale, domestica e civile” e specifica (art.8) che il fine ultimo dell’istituzione è “raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità”.

“Legge suprema di tutti gli atti della vita individuale, domestica e civile”, prescrive la Costituente. Detto fatto. Tutti gli ordini religiosi cattolici all’indomani dell’unità d’Italia vengono aboliti ed i loro beni svenduti all’1% della popolazione di fede liberale. Tutte le opere pie costruite nel corso dei secoli soppresse. Le processioni cattoliche vietate, permesse quelle massoniche. Le scuole cattoliche chiuse, imposte quelle di Stato a guida “illuminata”. E via continuando.

Stando così le cose, è ovvio che fra Chiesa cattolica e massoneria ci sia incompatibilità radicale. Fra Cristo e Belial – ricordano Pio IX e Leone XII – non ci può essere compromesso.

Eppure è stato reiteratamente sostenuto il contrario. Per convincere le masse cattoliche della bontà della proprie intenzioni, l’élite massonica ha avuto buon gioco . I fratelli hanno spesso gridato ai quattro venti di essere cattolici più cattolici del Papa. Così hanno fatto i fautori del nostro Risorgimento.

A questa propaganda, i papi hanno risposto come potevano, ripetendo all’infinito la serie delle scomuniche contro la massoneria: ogni volta c’era qualcuno che sosteneva che le censure ecclesiastiche, per lui e per i suoi, non valevano. E ogni volta i papi dovevano ricominciare. Durante il Risorgimento la guerra contro la Chiesa cattolica condotta dalla massoneria nazionale ed internazionale è stata particolarmente cruenta e distruttiva.

Essendo la popolazione italiana, in maggioranza, cattolica, per far trionfare il proprio punto di vista assolutamente minoritario i liberal-massoni hanno fatto ricorso ad una strategia che si potrebbe definire coperta: hanno provato in ogni modo ad infiltrarsi all’interno della Chiesa per condizionarla dal di dentro, hanno colto ogni possibile occasione per definirsi cattolici perfettamente ortodossi, hanno fatto scattare sul piano interno ed internazionale una campagna di denigrazione e falsificazione sistematica.

Contro lo Stato della Chiesa era già in corso una pluricentenaria campagna d’odio e di calunnia orchestrata dalle potenze protestanti. La massoneria organizza un’intensificazione di questa propaganda e lo Stato pontificio viene descritto come il più sanguinario, retrogrado e mal amministrato di tutta la terra. L’ Ordine cerca di convincere i cattolici che la semplice esistenza di uno Stato pontificio sia contraria all’insegnamento di Cristo, vissuto povero e morto in croce, e assicura che rinunciando alla sua visibilità (dal momento che non siamo puri spiriti ciò equivale alla rinuncia all’esistenza) la Chiesa avrebbe guadagnato in spiritualità e purezza.

Pio IX ha combattuto come un leone in difesa della “sua”verità. In decine di encicliche ha descritto a cosa corrispondevano nei fatti le belle e suadenti parole della propaganda liberale. Per evitare che il suo gregge rimanesse abbagliato dalla menzogna trionfante, a cominciare dal 1849 (costretto all’esilio, all’epoca della Repubblica Romana, ha preso carta e penna per raccontare ai cattolici cosa succedeva durante il supposto “risorgimento” della nazione. I massoni, ricorda il Papa, proclamano ai quattro venti di agire nell’interesse della Chiesa e della sua libertà. Si professano cristiani e pretendono dì rifarsi alla più pura volontà di Cristo. Le cose non stanno così: “noi desidereremmo prestar loro fede, se i dolorosissimi fatti, che sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti, non provassero il contrario”.

È in corso una vera e propria guerra, ammonisce il Papa: “da una parte ci sono alcuni che difendono i principi di quella che chiamano moderna civiltà, dall’altra ci sono altri che sostengono i diritti della giustizia e della nostra santissima religione”. L’obiettivo che i massoni perseguono è “non solo la sottrazione a questa Santa Sede ed al Romano Pontefice del “suo legittimo” potere temporale”, ma anche “se mai fosse possibile, la completa eliminazione del potere di salvezza della religione cattolica”.

Dalla dura guerra di religione scatenata durante il Risorgimento ad oggi le cose sono cambiate? Sotto tanti aspetti sì. Però c’è un inquietante particolare che indurrebbe a non esserne così sicuri: l’attitudine dei mezzi di comunicazione di massa a sostenere che l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della massoneria è radicalmente mutato.

Così nel 1995 la più diffusa enciclopedia su dischetto – la Grolier Multimedia Enciclopedia scrive: “Il divieto ai cattolici di far parte di logge massoniche è stato cancellato nel 1983”. Così, ed è caso molto serio, il Corriere della Sera nel luglio dello scorso anno, in un’inchiesta pubblicata su Sette dal titolo “Il risveglio della Massoneria” Lindner, firmatario dell’articolo, sostiene: “L’istituzione ha dovuto fare sempre i conti con gli ostacoli frapposti dal Vaticano che solo nel 1983 ha tolto la scomunica”.

È vero l’esatto contrario: nel 1983 la Chiesa non ha cancellato nessuna delle centinaia di scomuniche comminate nel tempo contro la massoneria. La Chiesa ha fatto di più: nella Dichiarazione sulla Massoneria dei 26 novembre 1983 ha ribadito ad opera del card. Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che nulla è cambiato dall’epoca della prima censura contenuta nella bolla “In eminenti” redatta il 28 aprile 1738 da Clemente XII. Nulla di nuovo sotto il sole.


N.d.R. : oggi, ottobre 2019, si legge su articoli di stampa di qualunque ispirazione e su libri di giornalisti  e saggisti specializzati ( Gianluigi Nuzzi, Emiliano Fittipaldi ecc.), che la massoneria sarebbe profondamente infiltrata nella Chiesa Cattolica Romana e che Papa Francesco si sentirebbe “assediato”. Secondo molti, questo “assedio” sarebbe anche alla base dei motivi che hanno spinto alle dimissioni l’ex Papa Ratzinger.

Numero1426 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Detto fra noi, ho la netta consapevolezza di essere un ignorantello. Eppure, dicono e lo dico anch’io, ho studiato tanto, nel passato, perché ho sempre avuto una curiosità sfrenata di conoscere le cose. Ma lo scibile umano è immenso e, per quanto mi sforzi, ho la sensazione che sto tentando di riempire continuamente un recipiente senza fondo, o di svuotare il mare con un secchiello. Però, non è solo la mia limitatezza nell’applicazione che mi fa sentire inadeguato, è anche e, soprattutto, il cambiamento e l’aggiornamento delle notizie che, oggi molto più che in passato, rimescolano le carte e modificano le regole del gioco del sapere.
Sto passando in rassegna tante cose, che costituiscono, il patrimonio consolidato dei dati storici acquisiti, nel comune notiziario degli studi scolastici ed accademici e, qua e là, mi accorgo di uno stillicidio di errori od omissioni o, verosimilmente, di cattive e capziose interpretazioni dei dati, che sono passati per veri e costituiscono il nostro comune, consueto, tradizionale bagaglio del sapere corrente.
Insomma, mi sto accorgendo che non me l’hanno raccontata giusta, nelle aule delle scuole, seppur qualificate, nei libri di testo, spesso infarciti di luoghi comuni, nell’approccio ad una verità che possa essere storicamente accettabile, probabile, condivisibile.
So bene che la verità non è mai stereotipata, sclerotizzata, dogmatica. Mentre, invece, è in costante cammino di revisione, di aggiornamento: la verità storica, in particolare, è “in fieri” per definizione, ed io mi sto appassionando ad una serie di “gialli storici”, in cui mi sento, e mi diverto a impersonare, una sorta di Commissario Montalbano.
Intendiamoci bene, io non voglio riscrivere la storia, Voglio solo, invece, interpretarla a modo mio, forse pretestuosamente o presuntuosamente, ma mi piace farlo in barba a tutte le autorità accademiche che possano eccepire e confutare.

Numero1425 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Uno dei “gialli storici” che più mi stanno appassionando in questi tempi, è quello che riguarda la “Gioconda”, il dipinto di Leonardo da Vinci, ad olio su tavola di legno di pioppo di 77 X 53 cm e 13 mm di spessore, che si trova al Museo del Louvre di Parigi.
La sua datazione è imprecisata, ma copre un arco di tempo che va dal 1503-4 al 1512-13 e anni seguenti fino alla data della morte del Maestro, nel 1519.
Va subito detto che si tratta di un dipinto incompiuto. Da quando Leonardo cominciò a dipingerlo, vi pose mano continuamente fino ai suoi ultimi giorni. Con grande pazienza e amorevole devozione. Vi si notano, infatti, affioramenti dei colori di base. In alto, a destra, vicino alla cornice, si nota un piccolo tratto color blu brillante, che non è il colore del cielo, come alcuni critici scrivono, bensì il colore di fondo. Mentre il color marrone affiora, a chiazze, dietro le spalle del personaggio. Leonardo, come altri pittori, partiva dalla tavola di legno levigata, vi applicava del gesso duro, che lasciava asciugare. Poi, applicava del blu nella metà alta e del marrone in quella bassa e, una volta seccati questi due colori di fondo, cominciava a dipingere.
Il quadro è integro, non è stato tagliato o ridotto. Si può riscontrare solo una maggiore opacità, causata da una disastrosa pulitura con solvente effettuata nel 1809 e da una successiva applicazione d’una vernice che provocò la comparsa della finissima “craquelure” oggi visibile.
Già studi radiografici avevano reso noto che, sulla tavola di pioppo, c’erano almeno 3 versioni del dipinto.
Nel 2004, lo scienziato francese Pascal Cotte, fondatore della Società di Ingegneria Elettronica “Lumiere Technology” di Parigi, ha analizzato, con la sua equipe, migliaia di immagini multispettrali, archiviato 3 miliardi di punti dati e individuato 155 elementi nascosti sotto la vernice e non visibili ad occhio nudo.
Cotte non si lancia in interpretazioni da critico d’arte, ma racconta così quello che ha trovato.
“Abbiamo analizzato esattamente cosa c’è fra i vari strati del dipinto e siamo in grado di ricostruire tutta la cronologia della creazione del quadro”. Ci sarebbe un primo ritratto, nascosto sotto la Gioconda che noi vediamo, che Leonardo avrebbe iniziato a dipingere nel 1503; era più grande rispetto alla cosiddetta “Monna Lisa”, che noi oggi vediamo, più grande la mano e la manica destra, più grandi e orientate verso il basso le dita della mano sinistra. Poi, ci sarebbe un secondo ritratto con l’aggiunta di molti dettagli stupefacenti: ampie cancellature del ritratto precedente, che sembrano eseguite con la mano destra (Leonardo era mancino naturale ma, anche, ambidestro), aghi o spilloni per sorreggere l’acconciatura dei capelli e diversi elementi decorativi a forma di stella sulla veste. Le mani sono già impostate e così la balaustra e il paesaggio, ma subiranno ulteriori trasformazioni. Gli accessori e le gioie sono proprie di un ritratto di dama facoltosa: in questo caso, sembrano corrispondere bene e riferirsi credibilmente, anche a una Lisa Gherardini, il cui marito, Francesco del Giocondo, , mercante e strozzino, era molto ricco.
Nel terzo ritratto nascosto, lo studio di Cotte rileva come Leonardo abbia cancellato e ridisegnato alcuni contorni, stendendo un nuovo strato di fondo. Spariscono spilloni e perle, cambia la cuffia, l’acconciatura dei capelli sulle spalle è differente da quella della versione precedente e della quarta, e finale, visibile oggi.
Modificati anche i lineamenti del volto e del naso, la veste ha più volume, la bocca appare molto più piccola, il collo e le spalle diverse dalla versione conclusiva; la camicia con décolleté è differente dall’attuale e così, anche, molti dettagli delle maniche.
Una sottolineatura particolare merita il sottilissimo velo (o veletta) di seta scura che si trova sul capo e sui lati del volto della figura femminile. Va  ricordato che questo accessorio, nella vita comune dell’epoca, era il segno distintivo della donna in gravidanza o in puerperio e, quindi, la sua presenza è un rafforzativo dell’ipotesi che il volto abbia a che fare con “la maternità”.
Pensate anche voi quello che penso io? Che, presto o tardi, il Louvre dovrà cambiare la targhetta con il nome del personaggio dipinto? Vedremo.

Numero1424 (Testo completo dal 1426 al 1421).

La denominazione “La Gioconda” o “Monna Lisa” deriverebbe dall’interpretazione di un passo, contenuto nel “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” di Giorgio Vasari (1511-1564), che mai conobbe Leonardo e mai vide il quadro, dove parla diffusamente di una testa, non mai di un ritratto, che Leonardo dipinse raffigurando Monna Lisa Gherardini (1479-1542), andata in sposa (per lui era la terza moglie) a Francesco del Giocondo (1460-1528). Tale testa sarebbe stata eseguita da Leonardo al tempo del suo soggiorno a Firenze (1504-1506), dopo le campagne militari di Cesare Borgia.
Della testa il Vasari così scrive: “Prese Lionardo a fare, per Francesco del Giocondo, il ritratto di Monna Lisa sua moglie, e, quattro anni penatovi, lo lasciò imperfetto, la quale opera è appresso il re Francesco di Francia, a Fontanableò”. Attenzione, dunque, al fatto che il dipinto era incompiuto e non si poteva parlare di ritratto finito. Si dilunga, in seguito, in una serie di lodi del dipinto, in realtà piuttosto generiche.
Ma dalla descrizione del Vasari, sorgono molti dubbi: egli parla, infatti, della peluria delle sopracciglia magnificamente dipinte ed esalta la grazia delle fossette sulle guance. Invito il lettore ad osservare attentamente il volto della donna dipinta e si accorgerà che non vi è traccia di sopracciglia (cosa piuttosto rara ed inconsueta), né, tanto meno, di fossette. Le une e le altre sono completamente assenti.
Il Vasari potrebbe aver attinto la sua descrizione, da un “sentito dire”, a memoria, sull’opera, com’era visibile a Firenze fino al 1508, quando il pittore lasciò la città. D’altra parte Il Vasari era ed è ritenuto uno spregiudicato e superficiale raccoglitore di “fake news” sensazionali, piuttosto che uno storico rigoroso.
Sta di fatto che la descrizione del Vasari non concorda con la realtà visibile a tutt’oggi. Chissà dove sarà finita la testa di cui parla Vasari; potrebbe essere il primo volto trovato da Cotte, ma lui e i posteri recensori l’hanno fatta coincidere con il dipinto che si trovava a Fontaineblau, quello che che noi oggi vediamo. Il quadro è passato dalle mani di Gian Giacomo Caprotti, chiamato dal maestro “Salaì”, giovane, scapestrato allievo e amante di Leonardo, destinatario della donazione di molte opere del Maestro, alla proprietà di Francesco I, previo esborso di una considerevole somma, si dice addirittura a peso d’oro. Non è vero dunque che il dipinto sarebbe stato “rubato” dai Francesi. In un documento del 1525, in cui vengono elencati alcuni dipinti, che si trovavano tra i beni di Gian Giacomo Caprotti, l’opera viene menzionata, per la prima volta, come “La Joconda”.
Devo, tuttavia, sottolineare che, nell’Italiano antico, “gioconda” significava allegra, che vivifica, che consola e ispira gioia. Infatti San Francesco d’Assisi, nel suo “Cantico delle Creature”, definisce “jocundo” il fuoco.
Può essere mai, che l’appellativo “gioconda” si riferisca non alla appartenenza familiare, bensì al sorriso indecifrabile e imperscrutabile, all’enigmatico, ironico e misterioso atteggiamento del volto? In una canzone degli anni ’60, Nat King Cole la canta, chiamandola “the Lady with a mystic smile”.
A proposito del sorriso, dirò che a me non pare di cogliervi granché di sensuale o, addirittura, di sessuale, bensì una calma, serena, benevola espressione materna. Così come, dirò delle mani, che trovo in una elegantissima, abbandonata, “protettrice” postura.
Altra precisazione doverosa è che, nella Firenze di Leonardo, una donna (specialmente se bella, perché spesso additata, indicata o sparlata), riceveva un nomignolo tratto dal cognome paterno (patronimico), non da quello del marito. Per esempio, Ginevra de’ Benci, che aveva sposato Luigi Niccolini, era nota come la Bencina, non come la Niccolina. Dunque, Lisa Gherardini, che fu brava moglie e brava mamma, ma non una sex symbol, la si doveva chiamare,semmai, “La Gherardina”, figlia di Antonmaria Gherardini di Montagliari, e non “La Gioconda”. Il termine “Monna”, che troviamo davanti al nome, è un diminutivo, per crasi, di “Madonna”, derivante, a sua volta, dal latino “Mea Domina”, che oggi avrebbe lo stesso significato di “Signora”.
Ultima notazione, di non poco rilievo, è che nel 1503, quando il dipinto sarebbe stato cominciato, Lisa Gherardini avrebbe dovuto avere 24 anni. A me pare, francamente, che la donna ritratta sia più vicina alla quarantina, che ne dite?
Al Vasari, il mondo accademico storico e artistico ha creduto. Io no.
Così come non credo alla congerie, improbabile e fumosa di altre attribuzioni, snocciolate nei secoli da illustri recensori. Altre ipotesi, più o meno fondate sull’identità della signora riguardano: Costanza di Avalos, Caterina Sforza, Bona Sforza, la napoletana Isabella Gualandi, Isabella d’Aragona, duchessa di Milano nel 1489. C’è anche chi ha formulato l’ipotesi che la figura femminile ritratta sia nient’altro che “Salaì”: Il Maestro, notoriamente omosessuale e amante del bello, sopra tutto di quello mascolino effeminato, si sarebbe divertito a rappresentare l’allievo e amante, vestito da donna, con gli abiti femminili che “Salaì” indossava fra le mura domestiche.
Tutto questo appartiene al “sapere diffuso”, alla credulità popolare, tramandato sui libri di scuola e accettato supinamente, acriticamente, per vero.
Da qui, comincia un’altra storia, sulla quale mi sono documentato: la mia.

Numero1423 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Nell’anno 1492, muore, a Firenze, Lorenzo il Magnifico. Da Clarice Orsini ha 10 figli: 3 morti, 4 figlie e 3 maschi: Piero (detto il Fatuo) è il primogenito, che sarà cacciato da Firenze, dove viene instaurata la Repubblica, e morirà in giovane età; Giovanni, che è Cardinale, dall’età di 17 anni, e si trova a Roma: diventerà Papa Leone X; Giuliano, il più giovane, duca di Nemours (1479-1516), è un bambino “vivolino e frescolino com’una rosa, gentile, pulito e nettolino come uno specchio, lieto e tutto contemplativo, con quegl’occhi”. Crescendo, sviluppa una fine cultura letteraria. Anche lui, bandito dalla Firenze repubblicana e costretto all’esilio, nel 1505 riceve da Elisabetta Gonzaga, moglie di Francesco Maria Della Rovere, nipote di Papa Giulio II, l’invito alla sua corte nel castello dei Montefeltro ad Urbino. Lì risiedono anche Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione e altri letterati ed artisti dell’epoca.
Giuliano è un libertino e, anche alla corte urbinate, è sempre a caccia di fanciulle con le quali potersi intrattenere. Fra le sue relazioni, una più delle altre, gli sconvolge il cuore. Lei si chiama Pacifica Brandani, figlia naturale, poi legalizzata, di Giovanni Antonio Brandani, un uomo ricco e influente, molto vicino alla casata dei Montefeltro; dunque non è una popolana, ma una benestante, intelligente, sensibile, sposata ma, probabilmente, vedova. I due diventano amanti e Pacifica rimane incinta. Corre l’anno 1511, viene il tempo del parto e Giuliano è altrove, a Roma. Lui non è sicuro di essere il padre della creatura concepita, pensando potesse essere “figliuolo di un misser Federico Ventura, suo concorrente nella pratica della gentildonna”. Subito dopo il parto, Pacifica Brandani muore. Un attimo prima di spirare, però, afferma che il bambino è figlio di Giuliano. In punto di morte, l’attendibilità è fuori discussione. Il fatto giunge alle orecchie di Giuliano.
Al pargolo viene dato il nome di Pasqualino e, il 19 Aprile 1511, viene esposto, ancora in fasce, davanti alla chiesa di Santa Chiara de’ Cortili, sede di culto molto legata alla corte. Secondo la ricostruzione storica di Roberto Zapperi, “il piccolo aveva addosso un panno bianco e una fascia con una moneta, come segno di riconoscimento….”. Tre giorni dopo che era stato esposto, fu affidato a tale Bartolomeo di Giorgio.
Il notaio più importante della città, Lorenzo Spaccioli, interviene nella faccenda e, senza sentir ragioni, impugna l’affidamento già stabilito, dichiarando di voler provvedere alle spese di mantenimento per i successivi quattro anni. Ma, appena qualche mese più tardi, Giuliano de’ Medici bussa alla sua porta e riconosce il bambino come suo figlio naturale. Detto per inciso, sarà il suo unico figlio. Già che c’è, sceglie per lui un altro nome: Ippolito. Preso con sé il piccolo, riparte per Roma,  in Vaticano, da suo fratello maggiore, il futuro Papa Leone X.
A Roma, Ippolito cresce, ma piange e si lamenta, gli manca la mamma. Chiede di lei, ma nessuno sa consolarlo. Siamo nel 1515, il bimbo ha quattro anni. Giuliano ha, allora, un’idea: chiama Leonardo da Vinci, che in quei tempi risiede in Vaticano, al Palazzo del Belvedere, dove lavora alle dipendenze di Giuliano, pagato mensilmente. Lavora a progetti urbanistici e alla bonifica delle Paludi Pontine ma, notoriamente, è grande artista anche come pittore. Giuliano chiede a Leonardo di realizzare un dipinto da dare al bimbo, con le fattezze di una mamma. Leonardo non aveva mai visto Pacifica Brandani e, tutto quello che sapeva era ciò che, in qualche modo, risultava dalla descrizione che Giuliano gli faceva della donna. Ma poco importava se non c’era somiglianza somatica, credibile o plausibile. Quello che contava era che il bimbo sentisse il “feeling” materno, da una figura rassicurante e dolce: quella che, per lui, sarebbe stata la sua mamma. Se di ritratto si tratta, fu un ritratto inventato o, tutt’al più, raccontato.
Leone X entra in conflitto con la Francia. Manda Il fratello Giuliano, a capo degli armati, nella pianura Padana. Questi, male in salute, da tempo, per via della tubercolosi, nelle vicinanze di Firenze, si ammala e, improvvisamente, muore. Il dipinto non è finito, il committente è deceduto, il destinatario, cioè il bimbo Ippolito, non lo vedrà mai. Leonardo non rimane a Roma, anche perché là, nell’ambiente artistico, va per la maggiore un certo Raffaello Sanzio, da Urbino, esclusivista delle committenze papali. Porta il dipinto con sè, in Francia, dove sarà accolto da un suo grande estimatore: il re Francesco I. Papa Leone X e Giuliano sono ritratti da Raffaello. Anche Ippolito (1511-1535), che da adulto sarà Cardinale e uomo d’armi, viene ritratto da Raffaello, da bambino, in un affresco delle Stanze del Vaticano, (l’Incoronazione di Carlo Magno),  e più tardi, da uomo, in un ritratto ad olio su tela, anche da Tiziano Vecellio. Morirà, a soli 24 anni, avvelenato dal proprio siniscalco, Giovanni Andrea de’ Franceschi di Borgo San Sepolcro. Questi fu processato, ammise il veneficio ma, ciononostante, fu liberato, forse perché aveva confessato che i mandanti erano Papa Paolo III e il Duca di Firenze.

Numero1422 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Ser Piero da Vinci era un facoltoso notaio di Firenze, proprietario di tutte le terre, lì intorno a Vinci, dove viveva una bellissima fanciulla, Caterina di Antonio di San Pantaleone. Lui, all’epoca, era il 1451, aveva 25 anni e Caterina, di anni ne aveva 15. Si incontrarono, si piacquero, si presero per tutta l’estate. Poi ser Piero se ne tornò a Firenze, mentre Caterina, durante la vendemmia, si accorse di essere incinta.
“Spòsati mentre non si vede ancora, dopo non ti vorrà più nessuno”, le consigliò la sorella. “E ser Piero?”
“Ser Piero fa il notaio a Firenze. Toglitelo dalla testa”.
Questa giovanissima contadina, dava alla luce, il 15 di Aprile 1452, il più grande genio della storia umana: Leonardo da Vinci.
Questi, nell’infanzia, ha avuto due mamme: la nobile Albiera degli Amadori, sposa di ser Piero da Vinci, che lo ha riconosciuto e cresciuto, e Chataria, cioè Caterina, orfana di padre e di madre irreperibile, che lo ha messo al mondo e lo ha allattato.
Caterina e ser Piero si rividero davanti alla chiesa, il giorno di san Leonardo. Lui era fidanzato con Albiera degli Amadori e l’avrebbe sposata. Caterina gli disse del bimbo in arrivo, lui si emozionò: “Mio Figlio!”.
A lei disse che avrebbero pensato a tutto lui e sua madre, Monna Lucia: “Sistemeremo tutto. Bella come sei, ti troveremo anche un marito”. Poi le consegnò un sacchettino pieno di ducati: “Abbiti cura, Caterina, la madre di mio figlio non deve soffrire di privazioni”. Leonardo venne al mondo, bello, paffuto e biondo come i putti delle pitture sacre. E con gli occhi color del fiordaliso. La data e l’ora precisa della sua nascita vennero scrupolosamente annotate dal nonno paterno, ser Antonio, sul suo registro di notaio. “Sei stata brava!”, le disse Monna Lucia, emozionata come tutte le nonne.
Per allattare Leonardo, i da Vinci avevano destinato a Caterina una stanza nell’ala riservata ai domestici. Lei vi si trasferì subito dopo il battesimo. Due mesi dopo, entrò in casa da Vinci anche Albiera, novella sposa di Piero. “Non ho mai visto un bambino così bello” esclamò quando Caterina venne chiamata a presentarle Leonardo. Monna Lucia prese il bambino dalle braccia di Caterina per darlo ad Albiera: “E’ ora che il nostro Leonardo vi conosca. Caterina lo allatterà finché ce ne sarà bisogno”. E, rivolta a Caterina: “Puoi andare, Leonardo, adesso, sta con noi. Te lo riporto per la poppata”.
“Sono la tua mamma”, gli sussurrava Caterina ogni volta che gli dava il suo latte. Leonardo aveva quasi un anno e mezzo, quando Monna Lucia disse a Caterina che il suo latte non serviva più. Le tese un sacchettino di monete, “Per il tuo buon servizio”.
Caterina avrebbe voluto urlare che le si strappava l’anima, ma capiva che il suo destino era di amarlo da lontano. E uscì, senza voltarsi indietro. Ser Piero e la madre erano stati di parola: le avevano trovato un marito, Toni Buti del Vacca, detto l’Accattabriga. La loro prima figlia nacque a novembre, seguita da altri quattro. Lei vide Leonardo molto tempo dopo e per caso. Lei era con una bambina al collo, lui con lo zio. “Non mi riconosci? Sono quella che ti ha dato il latte…….”. Poi lo aveva rivisto ai funerali del nonno: era bello, aveva 12 anni ed era alto quanto lei. Già si diceva che fosse un genio.
Lo rivide quando stava per partire per Milano, chiamato alla corte degli Sforza: il bambino che lei aveva messo al mondo era diventato ingegnere ducale, progettava le città, imbrigliava le acque, dipingeva ritratti lodati perfino dai poeti.
Molti anni dopo, quando suo marito Toni morì, Caterina decise di raggiungere Leonardo a Milano. Là, malata e morente, con le mani strette nelle mani del figlio, sul letto di morte si sentì chiamare, per la prima e l’ultima volta: ”Madre”.

Numero1421 (Testo completo dal 1426 al 1421).

Leonardo da Vinci è in Francia, nel piccolo castello di campagna di Clos-Lucé, messogli a disposizione dal Sovrano francese Francesco I, suo grande ammiratore, sponsor e patrono. La località è vicino a Cloux, presso Amboise. Vi si trova in compagnia del suo fedele Francesco Melzi e del fidato domestico Batista de Vilanis. Salaì non c’è. Solamente quando la salute di Leonardo peggiorerà, egli tornerà ad assistere il suo Maestro ed amante. Il 10 ottobre 1517, vengono in visita a Leonardo il Cardinale Luigi d’Aragona e il suo segretario Antonio De Beatis. Nello studio di pittura, si trovano esposti tre dipinti. Uno grande è la “Madonna col bambino e sant’Anna”, il secondo, è il “San Giovanni”, il terzo, il più piccolo, è la “Gioconda”. Antonio De Beatis rivolge a Leonardo la domanda: chi era la dama ritratta nel quadro e chi glielo aveva commissionato. Risponde Leonardo che si trattava di una dama fiorentina e che la committenza era del Magnifico Giuliano de’ Medici. Ma questi non poteva conoscere Lisa Gherardini, perché in quegli anni era in esilio, lontano da Firenze. Non si parlò, dunque, di Monna Lisa Gherardini e di Francesco del Giocondo. Ma, Leonardo equivocò, credo volutamente, sulla provenienza della dama dipinta, probabilmente perché Giuliano non glielo aveva mai detto e poi, anche, per depistare la curiosità dei visitatori, perché il Cardinale d’Aragona apparteneva ad una casata ostile ai Medici. Così facendo, difese anche la privacy e i sentimenti del suo patrono Giuliano, morto da un anno.
Quanto riferito è contenuto storico di una approfondita ricerca del Prof. Roberto Zapperi, che ribadisce e conferma l’ipotesi, fatta già diversi decenni prima (1957) dal Prof. Carlo Pedretti, il maggior esperto  della vita di Leonardo. La figura di donna dipinta sul quadro conosciuto come “La Gioconda”, non è Monna Lisa Gherardini e il committente non è suo marito Francesco del Giocondo. Si tratterebbe, dunque, di Pacifica Brandani? E chi può dirlo?
Qui si innesta la mia perplessità. Leonardo avrebbe dovuto rappresentare il volto di quella gentildonna. Ma come fa il volto della Gioconda ad assomigliare a quello della Pacifica, quando sappiamo che Leonardo non l’aveva mai vista e ne aveva avuto solo una descrizione sommaria da Giuliano de’ Medici? Può essere un ritratto somigliante al vero, se dipinto a memoria o a fantasia? Va bene essere genio, ma fino a questo punto….
Giuliano aveva chiesto, verosimilmente , a Leonardo di rappresentare il volto di una madre, che sorride benignamente ad un bambino orfano; doveva trasparire solo l’atmosfera della serenità e dell’affetto materno. Il piccolo Ippolito non aveva mai visto sua madre. La somiglianza con il soggetto reale non era richiesta, non era neanche un “optional”.
Stando alle stupefacenti ricerche del Dott. Cotte, ci sarebbero tre dipinti sotto quello definitivo.
Il primo potrebbe essere il ritratto della Lisa Gherardini, iniziato e impostato con certi dati somatici, fra cui le famose sopracciglia e fossette, che non si vedono nel volto finale. Leonardo, come faceva spesso e, come dice il Vasari, non lo aveva finito. Infatti non risulta che fosse stato pagato. Ma il Maestro aveva conservato la tavola già impostata. Alla richiesta di Giuliano di dipingere un volto femminile di madre, a memoria o ad immaginazione, Leonardo, è la mia ipotesi, adoperò la stessa tavola, apportandovi le opportune modifiche  e inserendo anche i particolari decorativi che potessero connotare il rango di nobildonna della Pacifica Brandani. Probabilmente, ci fu ancora una ulteriore fase di ripensamento, forse dovuta ai suggerimenti che Giuliano poteva dargli sui particolari. Quindi la reimpostazione di un altro volto. Ma dopo la morte del suo patrono e committente, cosa fece Leonardo del dipinto? Non aveva nessuno a cui consegnarlo. Lo portò, allora, con sé e continuò a dipingerlo e ritoccarlo con infinito amore, modificando ancora una volta i particolari troppo specifici del volto precedente, ivi compresi, spilloni con perle, drappeggi decorati di stelle e quant’altro, perché ormai aveva in mente di rappresentare per sé, e soltanto per sé, un volto che era, a lui, il più caro e che lui non aveva mai guardato abbastanza: quello di sua madre.
Come intuì Sigmund Freud, in un suo geniale saggio sull’infanzia di Leonardo, pubblicato nel 1911, il sorriso conturbante della supposta “Gioconda”, è un ricordo di Caterina, la madre dell’artista fiorentino e l’unica donna che egli abbia veramente amato.
Come ho già scritto in premessa, io non intendo qui profferire una verità storica inoppugnabile. Siamo nel campo dei più sottili e profondi sentimenti umani, dove i fatti e i comportamenti sono meno impositivi delle sensazioni e delle intuizioni. E, una di queste intuizioni, modesta e dimessa, quanto si voglia, ma mia, mi dice che, davanti alla incertezza degli accadimenti, debba prevalere, sempre e anche in questo caso, la strada del cuore: sì, il sorriso della figura femminile del dipinto più famoso del mondo è il sorriso di una madre. Questo è il suo valore universale e intramontabile.

Dedicato a mia madre.

P.S. : Chi l’ha conosciuta lo può confermare. Secondo me, mia madre assomigliava, se non molto, certamente abbastanza, alla figura femminile denominata “La Gioconda”.