Numero1918.

 

CARO  CORONAVIRUS

 

Testo adattato alla musica di     “Erba di casa mia”      di  Massimo Ranieri

 

Caro Coronavirus,

ma questa pandemia

quando va via?

È un gran disagio

vivere col contagio,

restare chiusi in casa,

attenti ad ogni cosa.

 

Incubo, Coronavirus,

ci causi troppi guai

come non mai!

Della pazienza

siamo rimasti senza.

Che fare della vita

che tu hai rovinata?!

 

Ma questa malattia

un bel dì finirà,

allora tutti insieme

ci si ritroverà,

vedersi con gli amici

nella normalità.

Comincia un’altra vita!

Basta che sia finita!

 

Vattene, Coronavirus:

ora la vita è questa,

non è una festa.

Muore la gente

e non puoi farci niente.

Cantiamo tutti in coro,

almeno col pensiero.

 

Un’altra primavera

chissà quando verrà?

E questa nostra vita

chissà come sarà?!

Ancora un’altra volta

cominciar si dovrà.

Basta che vada via

questa epidemia!

 

Tricesimo,        22 Marzo  2020.

Numero1917.

 

CORONAVIRUS

 

Sull’aria di                 “La canzone di Marinella”          di Fabrizio de André

 

E adesso abbiamo proprio la certezza:

questo “coronavirus” è una schifezza.

Staremo chiusi in casa, per settimane,

mentre la vita se ne andrà a puttane.

 

Ci roderemo il fegato di rabbia,

chiusi come leoni in una gabbia.

Ci stiamo rovinando l’esistenza,

frustrati da un senso d’impotenza.

 

Negli ospedali, in tanti stan morendo,

sono stroncati da ‘sto male orrendo

che si diffonde come uno “tsunami”

e che ti porta via quelli che ami.

 

Stavolta ce l’han fatta troppo grossa,

e in molti finiranno nella fossa,

perché finisca ‘sta maledizione

non basterà cantare una canzone.

 

E questo è un ricorso della storia

di cui abbiamo perso la memoria,

non ci voleva anche questa guerra

che porterà sterminio sulla terra.

 

E come prima non sarà più niente,

chissà come farà tutta la gente,

con questa malattia contagiosa:

dovremo inventarci qualche cosa.

 

Però, se il coraggio non si smorza,

in qualche modo, ci faremo forza:

bando ai piagnistei e alle lagnanze,

non perderemo anche le speranze.

 

Bando ai piagnistei e alle lagnanze,

non perderemo anche le speranze.

 

Tricesimo,   21  Marzo  2020                 Primo giorno di Primavera.

Numero1901.

 

LO  CHIAMAVANO  VIRUS  CORONA

sull’aria di     BOCCA  DI  ROSA    di  Fabrizio de Andrè

 

Lo chiamavano Coronavirus, metteva timore, metteva timore,

lo chiamavano Virus Corona, purtroppo non era una cosa buona.

Appena sceso all’Areoporto, un tizio tornato da un viaggio in Cina,

tutti si accorsero con uno sguardo, che aveva bisogno dell’Amuchina.

Bisogna stare a una certa distanza, lavarsi le mani con molta frequenza

e non affollarsi in nessun locale, lo dice il decreto ministeriale.

 

Ma l’infezione spesso conduce a rinunciare alle proprie voglie,

niente più uscire  e andare a cena, né con l’amante né con la moglie.

E fu così che da un giorno all’altro, chiusero scuole, teatri e chiese,

il lavoratore ormai fuori sede, fece il biglietto per il paese.

Spesso i cretini e gl’irresponsabili  al loro dovere vengono meno

e quando hanno molta paura, si ammassano tutti davanti al treno.

 

Alla stazione c’erano tutti, dal commissario al sagrestano,

alla stazione c’erano tutti, con mascherina e cappello in mano,

a salutare chi, per un poco, senza pretese, senza pretese,

a salutare chi, per un poco, portò il contagio nel paese.

C’era un cartello giallo, con una scritta nera,

diceva “Addio terrone a Milano, con te se ne parte la quarantena”.

 

E alla stazione successiva, molta più gente di quando partiva,

chi manda un bacio, chi getta un fiore, chi si prenota per un tampone.

E, per concludere, cari Italiani, anche se siamo tutti allo stremo,

è necessario che stiamo uniti e sono convinto che ce la faremo.

 

 

Numero1804.

EL  PLEVAN  DI  MALBORGHET

 

El plevan di Malborghet

se nol ves vut nancje un difiet

sares stat Pape,

ma al beveve, al porconave,

al fumave e al girave

ator cu l’Ape.

 

Une dì cun doi amis

e son sus fur di pais

par cambià arie,

al è tornat dut spetenat

cence amis e compagnat

da ‘ne massarie.

 

Le à cjatade sul stradon

c’al va jù viers Fossalon

sot el soreli.

Je jà dit: “Ma sior plevan

ca no mi tocj cun che man

se no i bergheli”.

 

Lui jà dit: “Ma ce biei voi

a son come doi pedoi

ator pa muse”.

Je jà dit: “Ma ce nas larc,

a mi par di viodi un farc

c’al jes da buse”.

 

Lui jà dit: “Cjale ce tetes

a son come las sachetes

da me mantele.

Je jà dit: “Pense al to cul

ca l’è grues come un baul

mi par ‘ne siele”.

 

E se al è dur a no l’è mol,

ben si sa che dopo al cjol

cui c’al disprezze.

Ân pensat ben di fa la pas

e po la voe ju à cjapas

come une frezze.

 

A son sus sù tal camarin

e àn sunat il mandulin

fintremai sere.

Po je jà dit: “Ma ce biel jet

quattri breis e un cavalet,

durmin par tiere”.

 

Cussì il plevan di Malborghet

al è stat tre dis pognet

cun che massarie

e par no lassale plene

i cjarezzave il fil de schene

cu la manarie.

 

E al Monsignor di Cividat

une bigote jà contat

dute la storie.

Al è sut sù tal indoman,

satu ce c’al veve in man?

Une gruesse scorie.

 

Ma il plevan di Malborghet

a nol podeve sta quiet

cence fa ‘ne frape.

Al à butat la so velade,

al à molat ‘ne celerade

e vie cu l’Ape.

 

Cussì lu àn scomunicat,

ancje la cros i àn gjavat,

al sta in campagne.

Cumò al fas il mantignut

da la massarie, che a so mut,

si la guadagne.

 

La massarie dal plevan

e à sclipat il capelan

par fa la scuete

e par no patì la fan

e guadagne un toc di pan

cu la sunete.

Numero1801.

Uno dei più bei testi di protesta e contestazione da un personaggio fra i più amati dal mondo intellettuale e non solo teatrale.

Canzone interpretata da Francesco Guccini.

C I R A N O                              Musica di Giancarlo Bigazzi    Parole di Giuseppe Dati.

Venite pure avanti voi con il naso corto
signori imbellettati, io più non vi sopporto,
infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio
perché con questa spada vi uccido quando voglio.

Venite pure avanti poeti sgangherati
inutili cantanti di giorni sciagurati
buffoni che campate di versi senza forza
avrete soldi e gloria, ma non avete scorza,
godetevi il successo, godete finché dura
ché il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura
e andate chissà dove per non pagar le tasse
col ghigno e l’arroganza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna
però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L’arrivismo? All’amo non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!

 

Facciamola finita, venite tutti avanti
nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze
feroci conduttori di trasmissioni false
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte
coraggio liberisti, buttate giù le carte,
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese
in questo benedetto, assurdo bel paese.
Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato
spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco
io non perdono, non perdono e tocco!

Ma quando sono solo con questo naso al piede
che almeno di mezz’ora da sempre mi precede,
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore.
Non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute
per colpa o per destino le donne le ho perdute
e quando sento il peso d’essere sempre solo
mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo.
Ma dentro di me sento che il grande amore esiste
amo senza peccato, amo, ma sono triste,
perché Rossana è bella, siamo così diversi,
a parlarle non riesco, le parlerò coi versi
le parlerò coi versi.

Venite gente vuota, facciamola finita
voi preti che vendete a tutti un’altra vita,
se c’è, come voi dite, un Dio nell’infinito
guardatevi nel cuore, l’avete già tradito
e voi materialisti col vostro chiodo fisso
che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso
le verità cercate per terra da maiali,
tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali.
Tornate a casa nani, levatevi davanti
per la mia rabbia enorme mi servono giganti,
ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!

Io tocco i miei nemici col naso e con la spada
ma in questa vita oggi non trovo più la strada,
non voglio rassegnarmi ad essere cattivo
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo.
Dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto,
non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un’ombra e tu, Rossana, il sole.
Ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perché oramai lo sento, non ho sofferto invano
se mi ami come sono per sempre tuo,
per sempre tuo, per sempre tuo, Cirano.

 

Numero1772.

….Quando il mio tempo sfiorerà

la soglia dell’eternità

e qualche cosa mi dirà: ci siamo.

Quando guardandoti, vedrò

che senza il nostro amore no,

non avrai più quei giorni tuoi di prima.

Quando più calmo sembrerò

e la tua mano cercherò

perché il mio polso batterà più piano,

dopo aver accettato Dio,

prima di andarmene lo so,

un’altra volta, se potrò,

io ti dirò, come un addio,

….. ti amo.

 

A mia moglie      Charles  Aznavour.     (testo Italiano di Giorgio Calabrese).

Numero1453.

 

Una poesia in musica, dedicata ad una categoria di persone molto speciali,
scritta da un giovane Claudio Baglioni, quasi 40 anni fa (1981).

 

I   V E C C H I

 

I vecchi sulle panchine dei giardini
succhiano fili d’aria a un vento di ricordi
il segno del cappello sulle teste da pulcini
i vecchi mezzi ciechi
i vecchi mezzi sordi…

I vecchi che si addannano alle bocce
mattine lucide di festa che si può dormire
gli occhiali per vederci da vicino
a misurar le gocce
per una malattia difficile da dire…

I vecchi tosse secca che non dormono di notte
seduti in pizzo a un letto a riposare la stanchezza
si mangiano i sospiri e un po’ di mele cotte
i vecchi senza un corpo
i vecchi senza una carezza…

I vecchi un po’ contadini
che nel cielo sperano e temono il cielo
voci bruciate dal fumo
e dai grappini di un’osteria…
I vecchi vecchie canaglie
sempre pieni di sputi e consigli
i vecchi senza più figli
e questi figli che non chiamano mai…

I vecchi che portano il mangiare per i gatti
e come i gatti frugano tra i rifiuti
le ossa piene di rumori
e smorfie e versi un po’ da matti
i vecchi che non sono mai cresciuti…

I vecchi anima bianca di calce in controluce
occhi annacquati dalla pioggia della vita
i vecchi soli come i pali della luce
e dover vivere fino alla morte
che fatica…

I vecchi cuori di pezza
un vecchio cane e una pena al guinzaglio
confusi inciampano di tenerezza
e brontolando se ne vanno via…
I vecchi invecchiano piano
con una piccola busta della spesa
quelli che tornano in chiesa lasciano fuori bestemmie
e fanno pace con Dio…

I vecchi povere stelle
i vecchi povere patte sbottonate
guance raspose arrossate
di mal di cuore e di nostalgia…
I vecchi sempre tra i piedi
chiusi in cucina se viene qualcuno
i vecchi che non li vuole nessuno
i vecchi da buttare via…

Ma i vecchi… i vecchi
se avessi un’auto da caricarne tanti
mi piacerebbe un giorno portarli al mare
arrotolargli i pantaloni
e prendermeli in braccio tutti quanti…
sedia sediola… oggi si vola…
e attenti a non sudare

 

Numero1448.

Ayse Deniz Karacagil, giovane ragazza turca di etnia Curda, aveva 24 anni, quando morì in combattimento.
Nell’anno 2013, a 20 anni, prese parte alle proteste, spontanee ma reiterate, della gente comune di Istanbul contro la decisione di Erdogan di far radere al suolo un grande polmone verde della città, Gezi Park, per destinare l’area ad un nuovo centro commerciale. Venne arrestata, accusata di terrorismo, condannata chi dice a 98, chi dice a 103, facciamo una media di 100, ma non frustate, non giorni, non mesi, ma anni di carcere. Quando le truppe del Daesh, praticamente l’ISIS, invasero la Siria e un vasto territorio occupato anche dalle popolazioni Curde, le fu offerta la possibilità di commutare la pena, arruolandosi nell’esercito Curdo per difendere il proprio territorio. Scarcerata, si unì ai guerriglieri Curdi dell’YPG (Unità di Protezione Popolare) nella divisione femminile. Il giovane fumettista Romano Michele Rech, noto con lo pseudonimo di “Zerocalcare”, la conobbe sul fronte di guerra e ne descrisse la storia nel fumetto “Kobane calling”. La ragazza era conosciuta con il soprannome di “Cappuccio rosso”, perché aveva in testa sempre un copricapo di questo colore.

Roberto Vecchioni racconta in musica la tragica morte della ragazza, il 29 Maggio 2017, presso Raqqa. Le parole e la melodia, in una struggente commistione di pathos e di rabbia contro la guerra, sono un partecipe, emozionato ed emozionante omaggio al coraggio di una giovane ragazza, morta per un ideale, che non era solo la patria, ma anche il diritto delle donne all’affrancamento da una condizione disumana ed innaturale di sudditanza da principi religiosi, interpretati dagli uomini, e perpetrati surrettiziamente in secoli di oscurantismo.

Questo il testo della canzone:

C A P P U C C I O    R O S S O

Ti penso amore mio che sei lontano
ti penso con il mio fucile in mano,
tu forse crederai che io sia pazza
che queste non son cose da ragazza.

E invece viene un giorno nella vita
che scegli e se non scegli l’hai tradita
e non importa se si vive o muore
piangere gioia o ridere dolore.

Questa curva di sole nel tramonto di Raqqa
mi disegna nel cuore l’arco della tua bocca,
ho tagliato i capelli, ho sfidato la rabbia,
i miei giorni più belli sono lacrime e sabbia.

Noi siamo di una patria senza terra,
noi siamo Curdi naufraghi di guerra:
è l’alba e coi compagni sto partendo
e parto e coi compagni sto cantando.

Ho in me tutte le favole di un tempo,
attorno a un fuoco acceso e ora spento,
e seguo il filo di una ninna nanna,
chiedendomi se ho messo il colpo in canna

C’era un drago di fuoco che sbarrava la strada,
ma non teme nemico un eroe con la spada;
ma non ho mai capito come andava a finire
che succhiandomi il dito cominciavo a dormire.

È il 29 maggio e non ho sonno
e qui c’è proprio il drago di mio nonno.
Saprò questa volta come va a finire,
che non ho proprio tempo di dormire.

Qui sparano li sento e non li vedo
qui sparano e mi sa che mi hanno preso;
ma non temere amore non è niente,
mi brucia un po’ ma in fondo non si sente.

Metti il pane nel fuoco, versa il vino migliore,
che ritorno tra poco, è questione di ore;
spazza tutte le foglie, che l’autunno è passato,
quando l’odio si scioglie, che sia verde il mio prato.

Se qualcuno me lo trova addosso,
riporti a casa il mio cappuccio rosso

Numero1433.

Figlio chi ti insegnerà le stelle

se da questa nave non potrai vederle?

Chi ti indicherà le luci della riva?

Figlio, quante volte non si arriva!

Chi ti insegnerà a guardare il cielo

fino a rimanere senza respiro?

A guardare un quadro per ore e ore,

fino ad avere i brividi dentro al cuore?

Che al di là del torto e la ragione,

contano soltanto le persone?

Che non basta premere un bottone

per un’emozione?

 

Figlio,figlio,figlio.        Roberto Vecchioni

Numero1431.

Il 20 Settembre 2013, alle redazioni dei giornali di tutto il mondo, quindi anche di quelli Italiani, arriva una notizia di Agenzia, (in Italia ADNKRONOS) che lascia di stucco i destinatari e che, lì per lì, viene scambiata per una “fake news”.
Dice il testo che l’Accademia Reale Svedese, responsabile incaricata delle “nominations” ai “Premi Nobel”, starebbe per comunicare che , per il “Nobel” della Letteratura 2013, esiste una terna di nomi di candidati “a sorpresa”.
Veramente, a sorpresa, c’era già stata, nel 1997, l’assegnazione del “Nobel” per la Letteratura ad un personaggio molto impegnato nel mondo dello spettacolo, più che  nella produzione libraria: quel geniale, strampalato “giullare medioevale”, che rispondeva al nome di Dario Fo. Evidentemente, si sta instaurando la moda che, per la Letteratura, si deve far riferimento anche ad altre e diverse forme espressive che non siano solo quelle della consueta produzione letteraria cartacea: lo spettacolo, gli audiovisivi, e quant’altro si sta diffondendo come mezzo di comunicazione e di trasmissione del messaggio d’arte letteraria. Questa volta toccherebbe al mondo della canzone, come veicolo culturale che, per la prima volta, viene elevato al rango di arte popolare.

Infatti, questi sono i nomi dei 3 candidati:

Leonard Cohen, cantautore, poeta, scrittore Canadese, chiaramente di religione Ebraica, conosciuto in tutto il mondo per le sue composizioni di canzoni profondamente ispirate alla sfera intima dell’uomo, alla religione, all’isolamento, alla sessualità. Al momento della notizia, Cohen ha 79 anni.

Bob Dylan, anche lui cantautore, poeta e scrittore, mostro sacro di generazioni di giovani, contestatori e pacifisti, anche lui di religione Ebraica, in seguito convertito al Cristianesimo, ma niente affatto coinvolto e piuttosto agnostico.
Vero “guru” dei generi musicali “folk rock”, “country rock”, “gospel” e via dicendo. Nel 2013, Dylan (vero cognome Zimmerman) ha 72 anni.

Il terzo candidato della terna, e qui sta la vera sorpresa, è un cantautore Italiano.

La notizia non ebbe seguito. Si pensò ad una presa in giro. Infatti, il “Nobel” per la Letteratura del 2013 venne assegnato ad Alice Munroe, scrittrice Canadese regina del “romanzo breve”, di larga divulgazione.
Alcuni giornalisti interpellarono la Segreteria dell’Accademia Svedese, chiedendo se avesse fondamento la notizia di cui sopra. La risposta fu che non era loro abitudine riferire alcunché in merito a “candidature”, “nominations” o quant’altro, per motivi di riservatezza o privacy delle persone coinvolte.

Ma chi sarebbe il cantautore Italiano che avrebbe avuto la candidatura?
Sì, è proprio lui, il nostro “professur” di latino e greco al Liceo Beccaria di Milano e in altri Licei Classici della Lombardia, che andava a scuola con i jeans e la camicia bianca sbottonata e che parlava ai suoi studenti come a suoi pari, grande poeta e musicista raffinato e paradossale nella sua “classicità”, che attinge l’ispirazione nel passato per  cristallizzare l’eternità dei pensieri e dei sentimenti in una compartecipe modernità: Roberto Vecchioni.

Leonard Cohen è morto il 7 Novembre 2016. Non avrà mai il “Premio Nobel” perché non viene assegnato postumo o alla memoria.

Bob Dylan ha avuto il “Premio Nobel” per la Letteratura a 75 anni, il 13 Ottobre dell’anno 2016, lo stesso in cui muore, 25 giorni dopo, Leonard Cohen. Lo ha ritirato il 1 Aprile 2017.

Allora, forse quella notizia, poco credibile e stravagante, non era una bufala.

Senza atteggiarmi presuntuosamente a mago o veggente, avanzo qui e ora, 10 Luglio 2019, la previsione che, in uno dei prossimi anni a venire, Roberto Vecchioni riceverà il “Premio Nobel” per la Letteratura.
“Giorno verrà, presago il cor mel dice”.

 

Numero1428.

IL  TEMPO  PASSÒ
Il tempo veloce passò
su favole appena iniziate
su giochi bambini
finiti in castigo
su grandi avventure
sognate sui libri di scuola.
Il tempo veloce passò
su candidi giovani amori
su lunghe poesie
mai dette a nessuno
su timidi sguardi
su piccoli grandi segreti
e passò…
Il tempo veloce passò
sul volto dell’unica donna
sul sogno di vivere
insieme per sempre
su grandi promesse
su poche parole d’addio.

Numero 1257.

 

FORMIDABILI   QUEGLI   ANNI

 

Noi non siamo della razza

di chi frigna e si dispera,

come zombie di un passato

che sembrava primavera.

 

A fanculo ogni rimpianto

che non sono roba vera,

la malinconia è uno sguardo

e la vita è roba seria.

 

E se passi un solo giorno

senza farti una domanda,

senza un grido di stupore,

l’hai mandata al creatore.

 

Formidabili quegli anni,

formidabili quei sogni nei miei sogni,

la malinconia bevuta, gli occhi insonni,

formidabili quei giorni nei miei giorni….

 

….noi siam quelli del rimorso

prima ancora del peccato,

siamo i primi della classe

di un amore immaginato.

 

E le libertà che avete

mica c’erano a quei tempi,

noi ci siamo fatti il culo,

tocca a voi mostrare i denti……

 

….ed è proprio aver vissuto

che ci fa vivere ancora

ed è proprio aver perduto

che ci fa credere ancora.

 

Roberto Vecchioni     Formidabili quegli anni.

Numero1028.

Non mi vergogno a dire che un tempo, nei FAVOLOSI ANNI ’60, le canzonette si scrivevano così. Erano di una ingenuità banale, ma piacevano per questo.

Noi eravamo banalmente ingenui, allora. Adesso, invece, siamo logori e incarogniti. Ci rimane la triste saggezza della vecchiaia e….qualche ricordo.

 

M A R I L I S A

 

Un’estate così non verrà mai più,

con te è finita la mia gioventù,

oh Marilisa, Marilisa torna ancor,

su questa spiaggia dove si è bruciato

tutto il nostro amor.

 

Il silenzio del mar parla ancor di te

di quando eri qui accanto a me,

oh Marilisa, Marilisa torna ancor,

perfino il sole sembra freddo e grigio

senza il tuo calor.

 

Ora sento che mai non potrò dimenticar

i giorni che ho vissuto in riva al mar,

oh Marilisa, Marilisa dove sei.

vorrei che il vento ti potesse dire

tutti i sogni miei.

 

Le parole d’amor che dicevi a me,

il vento le ha portate via con sé,

oh Marilisa, Marilisa dove sei,

non ho la forza per poterti dire

quanto ti vorrei.

 

Tricesimo    Anno 1964.