Numero1453.

 

Una poesia in musica, dedicata ad una categoria di persone molto speciali,
scritta da un giovane Claudio Baglioni, quasi 40 anni fa (1981).

 

I   V E C C H I

 

I vecchi sulle panchine dei giardini
succhiano fili d’aria a un vento di ricordi
il segno del cappello sulle teste da pulcini
i vecchi mezzi ciechi
i vecchi mezzi sordi…

I vecchi che si addannano alle bocce
mattine lucide di festa che si può dormire
gli occhiali per vederci da vicino
a misurar le gocce
per una malattia difficile da dire…

I vecchi tosse secca che non dormono di notte
seduti in pizzo a un letto a riposare la stanchezza
si mangiano i sospiri e un po’ di mele cotte
i vecchi senza un corpo
i vecchi senza una carezza…

I vecchi un po’ contadini
che nel cielo sperano e temono il cielo
voci bruciate dal fumo
e dai grappini di un’osteria…
I vecchi vecchie canaglie
sempre pieni di sputi e consigli
i vecchi senza più figli
e questi figli che non chiamano mai…

I vecchi che portano il mangiare per i gatti
e come i gatti frugano tra i rifiuti
le ossa piene di rumori
e smorfie e versi un po’ da matti
i vecchi che non sono mai cresciuti…

I vecchi anima bianca di calce in controluce
occhi annacquati dalla pioggia della vita
i vecchi soli come i pali della luce
e dover vivere fino alla morte
che fatica…

I vecchi cuori di pezza
un vecchio cane e una pena al guinzaglio
confusi inciampano di tenerezza
e brontolando se ne vanno via…
I vecchi invecchiano piano
con una piccola busta della spesa
quelli che tornano in chiesa lasciano fuori bestemmie
e fanno pace con Dio…

I vecchi povere stelle
i vecchi povere patte sbottonate
guance raspose arrossate
di mal di cuore e di nostalgia…
I vecchi sempre tra i piedi
chiusi in cucina se viene qualcuno
i vecchi che non li vuole nessuno
i vecchi da buttare via…

Ma i vecchi… i vecchi
se avessi un’auto da caricarne tanti
mi piacerebbe un giorno portarli al mare
arrotolargli i pantaloni
e prendermeli in braccio tutti quanti…
sedia sediola… oggi si vola…
e attenti a non sudare

 

Numero1452.

La più grande poetessa dell’antichità è, fuor di dubbio, Saffo.

Saffo nacque ad Eresos, nell’isola di Lesbo, oggi Mitilene, in Grecia. La data di nascita non è certa: c’è chi dice nel 640 prima di Cristo e chi nel 610. E, comunque, a parte l’incertezza sulla datazione della nascita, molte altre cose non storicamente definite circondano la biografia della nostra, a causa dell’alone romanzesco che vi aleggia. Nasce da famiglia nobile ed ha tre fratelli. A causa delle faide da guerra civile che sconvolgevano l’sola per il predominio politico, è costretta all’esilio, con la famiglia, in Sicilia, probabilmente a Siracusa o Akragas (Agrigento). Torna nel luogo natio, dopo circa 10 anni. Si dedica a scrivere poesie, comporre versi sarà tutta la sua vita, assieme ad un’altra attività: dirige un “tìaso”, una sorta di collegio gineceo, dove le giovani fanciulle delle migliori famiglie aristocratiche dell’isola ricevono una educazione assolutamente particolare. Presso la scuola, le allieve vengono preparate alla vita matrimoniale, con lezioni di economia domestica, non solo, ma anche di educazione ai valori che la società aristocratica di allora richiedeva ad una donna: l’amore, anche quello fisico, la delicatezza, la grazia, la capacità di sedurre, il canto, la musica, la danza, l’eleganza raffinata dell’atteggiamento. Anche in Giappone, le Geishe, le moderne “escort” o “entraineuse”, ricevono una preparazione simile per esercitare il ruolo di accompagnatrici di uomini, nelle sale da tè, ma non certo per fini matrimoniali.
Archeanassa, Atthis, Arignòta, Dike, Eirène, Mègara, Girinno, Tenesippa, Mica: questi i nomi di alcune allieve del “tìaso”. che è anche centro religioso e culturale, dedicato al culto della dea Afrodite (dea della bellezza). Qui, gli strettissimi, quotidiani, rapporti fra l’insegnante e le allieve spiegano la “nomea” che vi si sviluppassero anche “licenziosità” di carattere omosessuale, che hanno avuto, da sempre, la denominazione di “lesbiche” o “saffiche”. Di Saffo ci è rimasto poco: un “Inno ad Afrodite” con il testo intero e circa 200 frammenti, molti dei quali solo interpretabili “ad sensum”.
Però, Saffo ha scritto molto, 8 o 9 libri di poesie, con diverse tipologie di metri poetici adoperati: odi in distici di pentametri, odi in distici saffici, odi in asclepiadei maggiori, carmi ed epitalami: questi erano composizioni destinate alla celebrazione dei matrimoni ed erano molto frequenti nella produzione poetica di Saffo. Infatti, a molte delle sue allieve che, terminato il percorso formativo/educativo, lasciavano la scuola per andare a sposarsi, la nostra poetessa dedicava canti epitalamici (in lode al matrimonio). In essi traspare, in forma lirica e struggente, un empito sentimentale, a volte ricambiato, a volte no, di passione e di amore per le fanciulle, che si allontanavano da lei, ma le descrizioni di atti fisici fra donne sono poche e oggetto di dibattito.
Probabilmente, il fatto va inquadrato secondo il costume dell’epoca e secondo i valori etici e sociali della cultura greca, come forma prodromica di un amore eterosessuale, cioè una fase di “iniziazione” per la futura vita matrimoniale.
Nel “tìaso”, si imparava e rispettava il culto della dea dell’amore, Afrodite. Ricordiamo, per chiarezza, che il sesso e tutto ciò che riguardava il piacere fisico e la sua soddisfazione, non era affatto esecrabile e condannabile, come secondo i dettami della nostra cultura cristiano cattolica, ma era considerata una manifestazione del tutto lecita e, addirittura, patrocinata da una dea, fra le più importanti, del mondo religioso greco. Il piacere fisico, ispirato dall’amore, di qualunque specie, veniva considerato una espressione naturale di vitalità e di gioia di vivere. Le relazioni amorose fra le fanciulle e con la maestra sono, dunque, da inserire in un quadro paideutico più ampio ed analogo a quello della pederastia maschile, che trovava nelle palestre del “Ginnasio”, il suo luogo di esercizio, di culto, di relazione. Il fatto è che, solo oggi, cominciamo a concepire come ammissibile uno stato o condizione abbastanza comuni all’epoca: la bisessualità.
Nell’Iliade, il pelìde Achille fu preso da “ira funesta” perchè gli fu sottratta Briseide, sua schiava ed amante, ma aveva come suo “amico del cuore”, che viveva con lui nella stessa tenda, il bellissimo Patroclo. Fu la morte di questi, per mano di Ettore, a scatenare l’accelerazione degli eventi, la discesa in campo di Achille per vendicarlo e, dopo 10 anni di inutile assedio, la disfatta di Troia.
Alessandro Magno, sposava  le eredi femmine ( almeno 3) dei regni che conquistava, si circondava di concubine e amanti, ma aveva accanto a sé un magnifico giovanotto, Efestione, ” di gran lunga, il più caro di tutti gli amici del re, allevato alla pari con lui e custode di tutti i suoi segreti”. La loro intensa amicizia, per diverse fonti, un vero e proprio amore omosessuale, durò tutta la vita e fu paragonata da altri, ma prima ancora, dai due diretti interessati, a quella, mitica, tra Achille e Patroclo. Alessandro Magno ed Efestione ebbero come precettore  un tale Aristotele!
Tornando a Saffo, la pratica di comunità, ravvicinata in tutti i sensi, delle fanciulle, fra loro e con la maestra, non era affatto immorale nel contesto storico e sociale in cui Saffo viveva:  per gli antichi Greci, l’erotismo, attenzione, si teneva ben lontano dalla pedofilia: tutelavano da frequentazioni estranee i bambini d’ambo i sessi che non avevano compiuto una certa età. Ma, esso si faceva canale di trasmissione di formazione culturale e morale nel contesto di un gruppo ristretto, dedicato all’istruzione e all’educazione delle giovani, qual era il “tìaso” femminile, pur preparando le giovani donne a vivere in una società che prevedeva una stretta separazione fra i sessi e una visione della donna, quasi unicamente, come fattrice di figli e signora del governo domestico.
A proposito di bisessualità, la Suda dice che Saffo sposò un certo Cercila di Andros e da lui ebbe una figlia di nome Cleide a cui dedicò alcuni teneri versi.
Qualcuno insinuò che si trattava di “fake news” e che Cleide fosse una sua allieva che ella amava. Altra “bufala” sarebbe quella della sua morte, avvenuta nel 570 avanti Cristo, (quindi all’età di 70 anni) per suicidio: si sarebbe gettata sugli scogli dalla Rupe di Lefkada (Leucade), perché esasperata dall’amore, non corrisposto, per il bellissimo, giovane battelliere Faone.
Un’altra leggenda riguarda la presunta passione amorosa per Saffo del poeta lirico conterraneo Alceo, che le avrebbe dedicato i seguenti versi: “Crine di viola, eletta dolceridente Saffo”. Questi versi si riferiscono veramente a Saffo o non sono, piuttosto, una idealizzazione non autobiografica? Se effettivamente i versi di Alceo si riferissero a Saffo, descritta come una donna bella e piena di grazia, dal fascino raffinato, dolce e sublime, verrebbe sfatata l’altra leggenda legata alla poetessa di Lesbo, quella della sua non avvenenza fisica. Sembra che fosse bruttina di viso, di bassa statura e con la pelle scura. Capisco bene che, a 70 anni, non si possa essere contenti del proprio aspetto fisico, ma questo non potrebbe essere un alibi per togliersi la vita.
Platone la nomina, chiamandola “Saffo , la bella”: intende dire “bella dentro”?
Pseudo-Platone nell’epigramma XVI scrive: “Alcuni dicono che le Muse siano 9. Guarda qua, c’è anche Saffo di Lesbo”.
Strabone, in età tardoellenistica, la definisce “un essere meraviglioso”.
Solone, suo contemporaneo, dopo aver ascoltato, in vecchiaia, un carme della poetessa, dice che, a quel punto, desidera due sole cose, ossia impararlo a memoria e morire.
Anacreonte, anche lui poeta, di una generazione posteriore a Saffo, parla di lei con una profonda ammirazione.

Anche un poeta di oggi, il bravissimo Roberto Vecchioni, ha scritto parole e musica di una canzone che io trovo bellissima e che invito tutti ad ascoltare: “Il cielo capovolto” che ha, come sottotitolo, “L’ultimo canto di Saffo”, proprio come l’ode di Giacomo Leopardi.
Ah, dimenticavo, Vecchioni ha, con altri 3, una figlia Francesca, che ha dichiarato pubblicamente di essere lesbica.
Ecco il testo di questa poesia di un padre, moderno e sensibile, che ama e rispetta una figlia, diversa ma sua.

Che ne sarà di me e di te,
che ne sarà di noi?
L’orlo del tuo vestito,
un’unghia di un tuo dito,
l’ora che te ne vai…
che ne sarà domani, dopodomani
e poi per sempre?
Mi tremerà la mano
passandola sul seno,
cifra degli anni miei…
A chi darai la bocca, il fiato,
le piccole ferite,
gli occhi che fanno festa,
la musica che resta
e che non canterai?
E dove guarderò la notte,
seppellita nel mare?
Mi sentirò morire
dovendo immaginare
con chi sei…

Gli uomini son come il mare:
l’azzurro capovolto che riflette il cielo;
sognano di navigare,
ma non è vero.
Scrivimi da un altro amore,
e per le lacrime
che avrai negli occhi chiusi,
guardami: ti lascio un fiore
d’immaginari sorrisi.

Che ne sarà di me e di te,
che ne sarà di noi?
Vorrei essere l’ombra,
l’ombra che ti guarda
e si addormenta in te;
da piccola ho sognato un uomo
che mi portava via,
e in quest’isola stretta
lo sognai così in fretta
che era passato già!

Avrei voluto avere grandi mani,
mani da soldato:
stringerti forte
da sfiorare la morte
e poi tornare qui;
avrei voluto far l’amore
come farebbe un uomo,
ma con la tenerezza,
l’incerta timidezza
che abbiamo solo noi…

gli uomini, continua attesa,
e disperata rabbia
di copiare il cielo;
rompere qualunque cosa,
se non è loro!
Scrivimi da un altro amore:
le tue parole
sembreranno nella sera
come l’ultimo bacio
dalla tua bocca leggera.

Francesca Vecchioni racconta di come suo papà Roberto le abbia “estorto” il suo orientamento sessuale.
“Andavo già all’università, ma con lui e mamma non trovavo il coraggio” ha spiegato, ricordando l’insistenza dei genitori nel sapere di chi fosse innamorata.  “Lui chiedeva: Perché non vuoi dirmi chi è? Non sarà un drogato? Sarà mica in galera?”
“Gli dissi che era una donna e lui: Ma vaffa…. mi hai fatto spaventare! Non potevi dirlo subito?”

Numero1448.

Ayse Deniz Karacagil, giovane ragazza turca di etnia Curda, aveva 24 anni, quando morì in combattimento.
Nell’anno 2013, a 20 anni, prese parte alle proteste, spontanee ma reiterate, della gente comune di Istanbul contro la decisione di Erdogan di far radere al suolo un grande polmone verde della città, Gezi Park, per destinare l’area ad un nuovo centro commerciale. Venne arrestata, accusata di terrorismo, condannata chi dice a 98, chi dice a 103, facciamo una media di 100, ma non frustate, non giorni, non mesi, ma anni di carcere. Quando le truppe del Daesh, praticamente l’ISIS, invasero la Siria e un vasto territorio occupato anche dalle popolazioni Curde, le fu offerta la possibilità di commutare la pena, arruolandosi nell’esercito Curdo per difendere il proprio territorio. Scarcerata, si unì ai guerriglieri Curdi dell’YPG (Unità di Protezione Popolare) nella divisione femminile. Il giovane fumettista Romano Michele Rech, noto con lo pseudonimo di “Zerocalcare”, la conobbe sul fronte di guerra e ne descrisse la storia nel fumetto “Kobane calling”. La ragazza era conosciuta con il soprannome di “Cappuccio rosso”, perché aveva in testa sempre un copricapo di questo colore.

Roberto Vecchioni racconta in musica la tragica morte della ragazza, il 29 Maggio 2017, presso Raqqa. Le parole e la melodia, in una struggente commistione di pathos e di rabbia contro la guerra, sono un partecipe, emozionato ed emozionante omaggio al coraggio di una giovane ragazza, morta per un ideale, che non era solo la patria, ma anche il diritto delle donne all’affrancamento da una condizione disumana ed innaturale di sudditanza da principi religiosi, interpretati dagli uomini, e perpetrati surrettiziamente in secoli di oscurantismo.

Questo il testo della canzone:

C A P P U C C I O    R O S S O

Ti penso amore mio che sei lontano
ti penso con il mio fucile in mano,
tu forse crederai che io sia pazza
che queste non son cose da ragazza.

E invece viene un giorno nella vita
che scegli e se non scegli l’hai tradita
e non importa se si vive o muore
piangere gioia o ridere dolore.

Questa curva di sole nel tramonto di Raqqa
mi disegna nel cuore l’arco della tua bocca,
ho tagliato i capelli, ho sfidato la rabbia,
i miei giorni più belli sono lacrime e sabbia.

Noi siamo di una patria senza terra,
noi siamo Curdi naufraghi di guerra:
è l’alba e coi compagni sto partendo
e parto e coi compagni sto cantando.

Ho in me tutte le favole di un tempo,
attorno a un fuoco acceso e ora spento,
e seguo il filo di una ninna nanna,
chiedendomi se ho messo il colpo in canna

C’era un drago di fuoco che sbarrava la strada,
ma non teme nemico un eroe con la spada;
ma non ho mai capito come andava a finire
che succhiandomi il dito cominciavo a dormire.

È il 29 maggio e non ho sonno
e qui c’è proprio il drago di mio nonno.
Saprò questa volta come va a finire,
che non ho proprio tempo di dormire.

Qui sparano li sento e non li vedo
qui sparano e mi sa che mi hanno preso;
ma non temere amore non è niente,
mi brucia un po’ ma in fondo non si sente.

Metti il pane nel fuoco, versa il vino migliore,
che ritorno tra poco, è questione di ore;
spazza tutte le foglie, che l’autunno è passato,
quando l’odio si scioglie, che sia verde il mio prato.

Se qualcuno me lo trova addosso,
riporti a casa il mio cappuccio rosso

Numero1447 (prosegue col Numero1446).

Questo testo, leggermente modificato, si trova anche al Numero1444.

P R E A M B O L O

 

Era meglio se mi tappavo la bocca,

ma ho ceduto alla tentazione,

ho composto questa filastrocca

e ve la canto a guisa di canzone.

 

Si, ve la canto e anche ve la suono.

Se la chitarra piange e ho poca voce,

in anticipo, vi chiederò perdono.

Siate buoni, non mi mettete in croce.

 

La cantata ha soltanto due accordi:

il MI settima alternato con il LA.

“Il Plevan di Malborghet”,se lo ricordi,

allora sai più o meno come fa.

 

È un po’ monotono e ripetitivo,

non c’è intermezzo e poche variazioni

ma tant’è, amici, questo è il motivo,

talvolta sono queste le canzoni.

 

La melodia s’impara molto presto,

così, se qualcuno di voi vuole cantare

insieme a me, vi ho dato il testo,

sarò felice di farmi accompagnare.

 

Imbraccio la chitarra per Graziella

voi, pazientemente, state ad ascoltare.

Spero che la cantata mia sia bella,

schiarisco la voce e vado a incominciare.

Numero1446 (segue dal Numero1447).

 

LA  PENSIONE  DI  GRAZIELLA

 

Vi racconto una storiella,

una vera bagatella,

miei signori:

una semplice canzone

per narrar la conclusione

dei lavori.

 

Dei lavori di bidella

della nostra Graziella,

brava gente:

è arrivata alla pensione

e con gran soddisfazione,

finalmente.

 

E se nasce una stella,

di sicuro sarà quella

della mia amica;

della nuova condizione

si farà una ragione,

ma con fatica.

 

Ora, alla chetichella,

suonerà la campanella

per se stessa.

È finita la lezione,

così, la ricreazione

le sia concessa.

 

La lavagna lei cancella,

scrive FINE e suggella

la carriera,

che, con grande abnegazione,

ha portato a conclusione

e ne va fiera.

 

Quando apre la cartella,

ogni alunno, in comunella,

la applaude.

Le  maestre, in riunione,

votan la sua prestazione

“Magna cum laude”.

 

Le daranno la pagella,

certamente molto bella

di fine anno:

otterrà la promozione

ed avrà una votazione

che pochi hanno.

 

Tutti sanno che Graziella

non fa certo da modella

al “fancazzismo”;

di sicuro, è un’eccezione

per la grande propensione

al dinamismo.

 

Lei è stata sempre quella

che si spreme le cervella

per far le cose:

con la sua organizzazione,

le fa sempre e benone,

pur se noiose.

 

Per aver la tintarella

e per essere un po’ snella,

fa di tutto.

Ma, se ha qualche frustrazione,

cede alla tentazione,

proprio di brutto.

 

Con l’amica Gabriella

gioca a tennis e favella

per tutta l’ora.

Ma avrà la convinzione

d’imparare la lezione

giocando ancora.

 

E, se vuole una gonnella,

con la Bruna “damigella”

va alla caccia

degli sconti di stagione:

si farà una collezione

che le piaccia.

 

Il marito e mamma bella,

i suoi figli e la sorella

son felici.

Ed ha piena approvazione

e una grande acclamazione

dai suoi amici.

 

Vi annuncio la novella:

la pensione di Graziella

e siam contenti.

È finita la canzone,

a Graziella un gran bacione

e i complimenti!

 

 

 

Numero1445.

 

C O M M I A T O

 

Quello che segue, che adesso vi leggerò, l’ho letto, a conclusione della serata, ad un gruppo di amici, riunito per una cena seguita da una schitarrata e cantata senza pretese, in tono dimesso, solo per pochi intimi, riesumando le bellissime canzoni dei vecchi tempi.
In questo componimento la rima compare, ma a casaccio, senza uno schema fisso, perciò non lo definirei una poesia vera e propria, bensì una prosa poetica o una poesia prosaica. Come vi pare.
Quello che conta è che la recitazione sia fluida e scorrevole e, soprattutto, che il contenuto sia, all’ascolto, stimolante e condivisibile, intrigante e coinvolgente, pur se colorato dalla nostalgia.
Sembra che lo sia stato, in tale occasione, per chi lo ha ascoltato.
E che lo sia, tuttora e senza un tempo definito, a voi il giudizio e l’eventuale gradimento.

 

 

C O M M I A T O

 

Così, pian piano, è quasi finita

questa nostra simpatica serata

che, insieme, abbiamo passata

suonando e ascoltando canzoni:

la colonna sonora della vita,

le speranze, i sogni, le emozioni

di allora, dei nostri anni più belli:

le parole, i refrain, i ritornelli

han portato alla mente i ricordi

delle nostre lontane stagioni.

Una chitarra e quattro accordi

e la voce che vola su in alto

e il cuore che ha un soprassalto

per risentirci giovani e felici,

lontani da eccessi e bagordi,

ma soltanto da buoni amici.

Che bei tempi, lasciatemi dire,

quando tutto sembrava possibile

e il futuro appariva credibile

e potevi sognarlo davvero

e speravi, comunque, nel meglio

e il lavoro era proprio vero,

come l’amore quand’è sincero.

Siamo stati proprio fortunati.

Avevamo poco e ci sembrava tanto,

ci mancavano, forse, soltanto

le illusioni dei superpoteri,

le chimere dei mondi incantati,

e tutte quelle fantascemenze

da cui oggi siamo bersagliati,

che ottundono infantili coscienze.

Sì, pochi diritti e tanti doveri:

tale era la nostra condizione,

ma bastava una semplice canzone

ed ecco tutto diventava più bello:

non il bello di oggi, ma quello di ieri

il bello di classe, il bello elegante,

il buon gusto dei valori veri,

non la moda becera e ignorante

che, per rendere diverso tutto,

abdica al proprio equilibrio

e trasforma ogni cosa in brutto.

Non apparteniamo più e ormai

alle cose di questo tempo.

Non so voi, ma io sono stanco

di disapprovare e contestare

questo mondo che lascio dietro a me:

adesso, ragazzi miei , tocca a voi,

vivete pure come diavolo vi pare,

perché, tanto, le capirete poi

le cose che non dovreste fare.

Io tolgo il disturbo, scusate l’intrusione,

quando sarà ora, me ne voglio andare,

in punta di piedi, con educazione.

Ma se, qui, stasera siete stati bene

e vi è piaciuta la nostra compagnia

e se, fra poco, ve ne andrete via

portandovi dentro qualche cosa

che vi ha arricchiti e resi migliori,

ripetiamo ancora questi incontri,

rimettiamo insieme i nostri cuori

un po’ drogati dalla nostalgia

e ricordiamoci che la poesia

non è soltanto di chi la scrive,

ma anche di chi la sente sua,

di chi l’ascolta dentro e la vive,

come retaggio davvero universale,

nel proprio immaginario personale,

che diventa, per magia, collettivo,

per unirci in un grande abbraccio,

per snidare quel poco di eterno

che c’è dentro di noi ancora vivo

e che ci rende buoni, umani,

liberi e aperti alle cose belle

che abbiamo sempre in comune,

oltre le nostre caduche particelle.

Grazie a tutti per essere stati qui,

per aver partecipato e ascoltato,

per avere sentito e, magari, sognato.

Sempre più spesso, ma senza ipocrisia,

ci capita di pronunciare parole come:

“Ormai,…purtroppo,…che peccato!”

perché ci accorgiamo, con malinconia,

che tanto delle nostre vite è passato

e che il resto se ne sta volando via.

È stato bello, comunque, stare insieme,

perché abbiamo davvero qualcosa

che, ancora, ci accomuna tutti, così:

la musica, la poesia, i buoni sentimenti

che stasera ci hanno lasciati contenti

di aver vissuto, qui insieme, queste ore.

Grazie a tutti e … di tutto cuore.

 

Alberto Visintino      2018

 

 

 

 

Numero1444 (il seguito al Numero1443).

P R E A M B O L O

 

Era meglio se mi tappavo la bocca,

invece ho ceduto alla tentazione,

ho composto questa lunga filastrocca

e ve la canto a guisa di canzone.

 

Si, ve la canto e anche ve la suono.

Se la chitarra piange e ho poca voce,

in anticipo, vi chiederò perdono.

Siate buoni, non mi mettete in croce.

 

La cantata ha soltanto due accordi:

il MI settima alternato con il LA.

“Il Plevan di Malborghet”, te lo ricordi?

L’abbiam cantata un’estate fa.

 

È un po’ monotono e ripetitivo,

non c’è intermezzo e poche variazioni

ma tant’è, amici, questo è il motivo,

talvolta sono queste le canzoni.

 

La melodia s’impara molto presto,

così, se qualcuno di voi vuole cantare

insieme a me, vi ho dato il testo,

sarò felice di farmi accompagnare.

 

Imbraccio la chitarra e butto la stampella,

voi, pazientemente, state ad ascoltare.

Spero che la cantata mia sia bella,

schiarisco la voce e vado a incominciare.

Numero1443 (leggere prima il Numero1444).

ALL’ AMICO ALBERTO IN PENSIONE

 

Così il nostro Albertone

finalmente è in pensione

da più di un mese

e da buon anfitrione

offre questa imbandigione

a proprie spese.

 

Siamo qui in riunione

e abbiamo l’occasione

per festeggiarlo.

Ma un piccolo sermone,

che gli serva un po’ da sprone,

vogliamo farlo.

 

Parlo a nome di persone

la cui vera propensione

è l’amicizia

e ogni raccomandazione,

pur se fa provocazione,

non è malizia.

 

Questa semplice canzone

non dà certo l’emozione

di un Battisti

e non ha la presunzione

di fornir la prestazione

dei grandi artisti.

 

Sarà solo un tormentone

per destare l’attenzione

del buon Alberto

sulla nuova situazione

e per la prosecuzione,

ne sono certo,

 

verso una trasformazione

ed una rivoluzione

copernicana,

che non sia una prigione

o una pura reclusione

all’italiana.

 

 

Devi darti uno scossone,

non restare in soggezione

dell’indolenza.

Abbi una motivazione

e di una occupazione

non stare senza.

 

E se hai predilezione

per qualcosa, una passione,

tu dacci dentro.

Ne farai una religione

e la migliore opzione:

sarà il tuo centro.

 

Se tu fai il fannullone

poi ti senti un coglione,

non ti conviene.

Se vivrai da pelandrone

poi cadrai in frustrazione

e non va bene.

 

 

Presta molta attenzione

al tuo amico beverone:

non è sincero.

Vuoi la nostra approvazione?

Usa la moderazione,

ma per davvero.

 

Ma è arrivata la stagione

che avrai la sensazione

di perder colpi.

Ti farò una confessione:

io non vedo un cialtrone

che te ne incolpi.

 

Devi aver la convinzione

che non c’è più paragone

coi bei vent’anni.

E devi avere il pannolone

per salvare il pantalone

dai noti danni.

 

 

Non aver la presunzione,

come un Napoleone,

di avere tutto.

E non fare il farfallone

coi problemi di erezione,

o sarà un lutto.

 

Far la parte del leone,

come uno scapolone,

non è più il caso.

E se cadi dall’arcione

non farai un figurone

siine persuaso.

 

Devi farti una ragione

se sei ciuco e non stallone

nel fare sesso:

lo zampillo non è sciacquone,

lo scopino non è scopone

ma fa lo stesso.

 

 

Tu as dit “Ma vammi in mone,

o soi stuf di là a Verone

in autostrade.

Al à dit ancje Gastone

che mi ven il mal de none

cun che menade”.

 

Meglio il buco che il taccone

come insegna la lezione

del ritornello.

E, come in televisione,

siamo a “striscia lo striscione”

di Militello.

 

Giunto al fin della tenzone,

con un piglio da guascone,

io do l’affondo.

Mi si passi l’irrisione,

perché ho fatto il buontempone,

non lo nascondo.

 

 

All’amico Albertone

una raccomandazione,

nel finale:

ti ci troverai benone

se tu prendi la pensione

per quel che vale.

 

Fa’ che sia un’inversione,

è una grande occasione:

non va fallita.

Forse è l’unica stagione

che darà soddisfazione

alla tua vita.

 

L’amicizia ce lo impone:

darti la benedizione

per i dì futuri.

E, con una acclamazione,

ti mandiamo un bel bacione

e tanti auguri.

 

Alberto Visintino

Ristorante “AL ZUC”,              Fontanabona di Pagnacco,           10 Febbraio 2018

Numero1442.

“Se mi faccio comprare, non sono più libera e non potrò più studiare: è così che funziona una mente libera”.

Le notizie sulla vita di Ipazia di Alessandria d’Egitto sono alquanto scarse: le due principali fonti antiche sono la Storia Ecclesiastica di Socrate Scolastico, avvocato presso la Corte di Costantinopoli e contemporaneo di Ipazia, e gli scritti di Damascio, filosofo neoplatonico vissuto un secolo più tardi. A ciò si aggiunge il fatto che gli scritti di Ipazia sono andati perduti o incorporati in pubblicazioni di altri autori.
Ipazia nacque intorno al 370 dopo Cristo ad Alessandria d’Egitto e venne avviata dal padre, Teone d’Alessandria, allo studio della matematica, della geometria e della astronomia. Egli stesso, nella intestazione del III Libro del Commento al Sistema Matematico di Tolomeo scrive: “Commento di Teone di Alessandria al III Libro del Sistema Matematico di Tolomeo. Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia”.
La principale attività di Ipazia fu la divulgazione del sapere matematico, geometrico ed astronomico. Oltre a questi ambiti del sapere scientifico, si dedicò, a quanto pare diversamente dal padre, anche alla filosofia vera e propria, relativa a pensatori come Platone, Plotino (fondatore del Neoplatonismo), ed Aristotele.
Ipazia succedette al padre nell’insegnamento presso il Museo di Alessandria d’Egitto già dal 393. Nota era pure la sua bellezza, tanto che uno dei suoi allievi s’innamorò di lei, ma Ipazia non si sposò mai e, all’età di 31 anni, assunse la direzione della Scuola Neoplatonica di Alessandria.
Filostorgio, storico della Chiesa, afferma che la donna “introdusse molti alle scienze matematiche”. Sua caratteristica principale fu, infatti, la generosità con cui tramandava pubblicamente il sapere, tanto che ella divenne un’autorità e un indiscusso punto di riferimento culturale nello scenario dell’epoca.
Socrate Scolastico scrive che, per le sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale.
Ipazia era amata dal popolo perché non fu mai gelosa del proprio sapere, ma sempre disposta a condividerlo con gli altri e, al contempo, era rispettata da molte autorità cittadine.
Filosofa e scienziata, scopritrice e studiosa, Ipazia riuscì ad ottenere un forte peso politico e culturale in un’epoca in cui le donne non avevano la possibilità di distinguersi nella scienza.
La fama contemporanea circa la figura di Ipazia sembra essere dovuta alla sua tragica morte, avvenuta nel 415 dopo Cristo. Nella Vita di Isidoro, scritta 100 anni dopo i fatti narrati, Damascio scrive: “Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione ( il Cristianesimo), passò presso la casa di Ipazia e vide una gran folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, altri partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto, dai seguaci della donna, che era la casa di Ipazia la filosofa e che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo, fu così colpito dall’invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che si potesse immaginare”.
Fu così che le venne teso un agguato: un gruppo di fanatici cristiani la sorprese mentre faceva ritorno a casa e, dopo averla tirata giù dal carro, la trascinò fino ad una chiesa. Lì furono strappate ad Ipazia tutte le vesti e la donna venne letteralmente fatta a pezzi. Le varie parti smembrate del suo corpo furono portate al cosiddetto “Cinerone”, dove si dava fuoco a tutti gli scarti, e furono bruciate perché di Ipazia non rimanesse nulla.

Onore ad una delle prime martiri della libertà di pensiero.
Vergogna all’oscurantismo di tutte le religioni. Specialmente contro le donne.

 

Numero1433.

Figlio chi ti insegnerà le stelle

se da questa nave non potrai vederle?

Chi ti indicherà le luci della riva?

Figlio, quante volte non si arriva!

Chi ti insegnerà a guardare il cielo

fino a rimanere senza respiro?

A guardare un quadro per ore e ore,

fino ad avere i brividi dentro al cuore?

Che al di là del torto e la ragione,

contano soltanto le persone?

Che non basta premere un bottone

per un’emozione?

 

Figlio,figlio,figlio.        Roberto Vecchioni