Numero1911.

 

Segnalato da mio nipote Alan

 

Radhanath Swami

LA  MENTALITÀ  DIETRO  ALLE  BUONE  RELAZIONI.

 

C’è una meravigliosa analogia sull’ape e la mosca, che ci insegna una preziosa lezione per migliorare i nostri legami interpersonali e la qualità della nostra vita.
L’ape vola di fiore in fiore, estraendo solo il nettare, senza intaccare la pianta. La mentalità dell’ape è quella di cercare l’essenza di ogni fiore. Persino in un luogo coperto di immondizia imputridita, piuttosto che prestare attenzione a tutto quel sudiciume, l’ape rimane concentrata nella sua ricerca di nettare ed entusiasta, vola addirittura sopra un unico, piccolo, fiore cresciuto in mezzo a chilometri e chilometri di spazzatura.
Nelle nostre relazioni, abbiamo molto da imparare dall’ape; essa ci insegna l’arte di focalizzarsi sugli aspetti positivi ed affrontare in modo opportuno le carenze in ognuno. Ci saranno difetti ovunque e in chiunque, non mancano mai le cose di cui lamentarsi, ma, come l’ape cerca di scovare il nettare, anche nei luoghi più impensati, così  noi possiamo mirare a trovare le buone qualità in chi abbiamo intorno.

La mosca rappresenta un altro tipo di mentalità nei rapporti con gli altri. Sebbene entrambe le specie possono essere apprezzate, per il particolare istinto naturale che le distingue, possiamo comunque studiarle per apprendere importanti lezioni, per migliorare la qualità della nostra vita.
In un corpo altrimenti sano, la mosca si concentrerà nel succhiare una crosta infetta. La mosca può anche sorvolare centinaia di fiori, ma su cosa si concentra? Focalizza la sua attenzione sull’assaporare immondizia ed escrementi. Essa ignora il dolce profumo dei giardini di rose e, anche nelle situazioni migliori, e nei luoghi più puliti, la mosca rivolgerà la sua attenzione alla spazzatura.
Questo rappresenta l’ottica di non considerare le buone qualità di chi ci sta intorno, concentrandosi sulle loro mancanze. È così facile, non occorrono sforzi per trovare difetti negli altri. Criticare è una dipendenza, più le concediamo, più ne diventiamo ossessionati. Nei rapporti con gli altri è importante mantenere una comunicazione onesta e benevola, improntata sul dare valore a ciò che c’è di positivo, affrontando le cose negative in modo cortese e costruttivo, cercando di tirar fuori il meglio di entrambe le parti.
Agendo così, impariamo a riconoscere le qualità positive in noi stessi e a superare l’insana mancanza di autostima.
Mentalità da ape o mentalità da mosca, sta a te decidere.

 

 

Numero1770.

FILOSOFIA

I filosofi antichi avevano la tendenza a filosofeggiare, anche in modo paradossale, se non proprio, in modo finemente umoristico.

“L’umorismo può esistere solo là dove la gente distingue ancora il confine tra ciò che è importante e ciò che non lo è.
E questo confine, oggi, non si distingue più .           (Milan Kundera).

Preghiera di Sant’Agostino, da ragazzo, al Signore : “Fammi casto, ma non subito”.

Socrate, passando per i mercati stracolmi di merce di ogni genere, era solito esclamare: “Guarda quante cose….che non mi servono!”.

Al momento della sua condanna a morte, mentre la moglie Santippe piange, si dispera e non smette di ripetere che lo stanno uccidendo ingiustamente, Socrate se ne esce con la battuta : “Avresti preferito che mi uccidessero giustamente?”.

Alessandro Magno, chiede a Diogene, il cinico (significa. che conduce una vita da cane N.d.R.), se ha paura di lui, questi replica : “Dipende, tu sei un bene o un male?”. “Un bene, non ci sono dubbi”  risponde Alessandro.
Allora Diogene lo liquida, dicendo : “Allora, perché mai dovrei aver paura di te?”.

Un vasaio chiede a Socrate che cosa sia meglio : sposarsi o rimanere scapolo, lui risponde ; “Qualunque scelta farai, te ne pentirai!”.

Epimenide* di Creta (famoso per il paradosso “Tutti i Cretesi sono bugiardi”), andò in India e chiese a Buddha : “Sapresti dirmi qual è la domanda migliore che si possa fare e qual è la risposta migliore che si possa dare?”. Buddha gli rispose : “La domanda migliore che si possa fare è quella che mi hai appena fatto, e la risposta migliore che si possa dare è quella che ti sto dando io, ora”.

Epicuro si trova nel suo orto e, mentre impartisce una lezione a cinque suoi allievi, sta innaffiando filari di rape, carote e altre verdure che serviranno per un banchetto. In realtà, egli continua ad innaffiare le verdure, mentre la brocca è ormai vuota. Un allievo glielo fa notare e, anziché ammettere la distrazione, Epicuro ribatte  : “Se, veramente, continuassi ad innaffiare, il fatto che la brocca sia vuota non sarebbe rilevante. In realtà, non sto innaffiando, come tu hai detto, ma sto facendo soltanto il gesto di innaffiare. Insomma, sto facendo un innaffiamento “platonico”.

 

Il paradosso del mentitore: versione originale.

La prima formulazione del paradosso si trova nella Lettera a Tito di Paolo di Tarso:

Uno di loro, proprio un loro profeta, ha detto: «I Cretesi sono sempre bugiardi, brutte bestie e fannulloni». Questa testimonianza è vera.»
(Lettera a Tito)

Il “profeta” a cui allude Paolo sarebbe Epimenide di Creta (VI secolo a.C.), di cui non ci restano scritti.

Se assumiamo che l’affermazione sia vera, allora sarebbe vero che Epimenide, in quanto cretese, è un bugiardo. Ma allora la sua affermazione «i Cretesi sono sempre bugiardi» non sarebbe vera ed otterremmo una contraddizione. Se invece assumiamo che l’affermazione sia falsa, allora sarebbe vera la negazione di «i Cretesi sono sempre bugiardi», cioè sarebbe vero che alcuni cretesi dicono la verità e alcuni mentono. In questo caso non vi sarebbe alcuna contraddizione e potremmo identificare Epimenide come uno dei cretesi che mentono. Per quanto argomentato nel caso precedente, non può infatti esser vero che Epimenide dica la verità.

Numero1768.

LETTERA  SULLA  FELICITÀ

Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi eta, è bello occuparsi del benessere dell’anima. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età. Da giovani come da vecchi, è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani, quando saremo in avanti con gli anni, in nome del grato ricordo della felicità avuta in passato, e, da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire. Cerchiamo allora di conoscere le cose che fanno la felicità, perché, quando essa c’è, tutto abbiamo; altrimenti, tutto facciamo per averla.

Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato : sono fondamentali per una vita felice. Prima di tutto, considera l’essenza del divino, materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre, in essa, lo stato eterno congiunto con la felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò, non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità.

Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false.
A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più gradi sofferenze, come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale, lo considerano estraneo. Poi, abìtuati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi, rende godibile la mortalità della vita, togliendo l’ingannevole desiderio dell’immortalità.

Non esiste nulla di terribile, nella vita, per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa.. Ciò che, una volta presente, non ci turba, stoltamente atteso, ci fa impazzire. La morte, il più atroce, dunque, di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo, la morte non c’è; quando c’è lei, non ci siamo noi. Non è nulla, né per i vivi, né per i morti. Per i vivi, non c’è, i morti non ci sono più.
Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.

Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più.
La vita, per lui, non è un male, né un male il non vivere. Ma, come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce. Chi ammonisce, poi, il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per la dolcezza che c’è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è l’arte del ben vivere e del ben morire. Ancora peggio, chi va dicendo : bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto, varcare la soglia dell’Ade (Regno dei morti N.d.R.).

Se è così convinto, perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta, se è veramente il suo desiderio. Invece, se lo dice così per dire, fa meglio a cambiare argomento. Ricordiamoci, poi, che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche, del tutto, non nostro. Solo così, possiamo non aspettarci che assolutamente si avveri, né, allo stesso modo, disperare del contrario. Così pure, teniamo presente che, per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili e, fra i naturali, solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma, fra i necessari, certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.

Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia. Una volta raggiunto questo stato, ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell’animo e del corpo. Infatti, proviamo bisogno del piacere, quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando, invece, non soffriamo, non ne abbiamo bisogno.

Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. È bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni, da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi, se un piacere più grande possiamo provare, dopo averle sopportate a lungo. Ogni piacere, dunque, è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo, ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire.

Bisogna giudicare gli uni e gli altri, in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela, per noi, un male, invece, il male un bene. Consideriamo, inoltre, una gran cosa l’indipendenza dai bisogni, non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco, se ci capita di non avere molto, convinti, come siamo, che l’abbondanza si gode con più dolcezza, se meno da essa dipendiamo. In fondo, ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile.

I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati : l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di poco, non solo porta salute e ci fa privi di apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando, ad intervalli, ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e rimanere indifferenti verso gli scherzi della sorte. Quando, dunque, diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.

Perché non sono per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza di una vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti, che sono, per l’animo, causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice, senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia bella e giusta è priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.

Chi suscita più ammirazione di colui che ha un’opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali, se affliggono duramente, affliggono per poco, altrimenti, se lo fanno a lungo, vuol dire che si possono sopportare? Questo genere d’uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero : per questo può meritarsi biasimo o lode.

Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio, allora, credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità. La fortuna, per il saggio, non è una divinità, come per la massa – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi beni o mali.

Però, è meglio essere senza fortuna ma saggi, che fortunati e stolti, e nella pratica, è preferibile che un bel progetto non vada in porto, piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita, giorno e notte, tutte queste cose ed altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia.
Vivrai, invece, come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali.

Lettera a Meneceo                        Epicuro   (341 – 270  avanti Cristo)

Ἐπίκουρος, Epíkouros, “alleato” o “compagno, soccorritore”.
Fondatore della corrente filosofica ellenistica dell’ Epicureismo.
Di questa “Weltanshaung”, o visione del mondo, desidero qui riportare i principi della sua branca più importante :

l’Etica

Nell’etica Epicuro riprende concettualmente l’edonismo dei Cirenaici, ma mentre per questi il piacere è dinamicamente inteso come continua ricerca del piacere, sempre goduto effimeramente, per Epicuro è statico, assicurato cioè dalla eliminazione del dolore, avvenuta una volta per tutte, procurando così la salute dell’anima non più costretta ad un’affannosa ricerca del piacere. Un’anima che «è una sostanza corporea composta di sottili particelle» cioè di atomi molto mobili. Grazie a questa concezione egli libera l’uomo dalla paura della morte poiché quando questa si verifica il corpo, e con esso l’anima, ha già cessato di esistere e quindi cessa anche di provare sensazioni. Per questo motivo sarebbe stolto temere la morte come causa di sofferenza in quanto la morte è privazione di sensazioni.

Il male e gli dei

Inoltre egli affronta anche la questione degli dei che, secondo Epicuro, non si occupano dell’uomo in quanto vivono negli intermundia, cioè in spazi situati fra gli infiniti mondi reali, e del tutto separati da questi; essi perciò non hanno esperienza dell’uomo. Affronta quindi la questione del male rispetto agli dei e procede per gradi:

  • Gli dei non vogliono il male, ma non possono evitarlo (gli dei risulterebbero buoni ma impotenti, non è possibile).
  • Gli dei possono evitare il male, ma non vogliono (gli dei risulterebbero cattivi, non è possibile).
  • Gli dei non possono e non vogliono evitare il male (gli dei sarebbero cattivi e impotenti, non è possibile).
  • Gli dei possono e vogliono; ma poiché il male esiste allora gli dei esistono ma non si interessano dell’uomo. Questa è la conclusione che Epicuro considera vera: gli dèi sono indifferenti alle vicende umane e si chiudono nella loro perfezione.

Tali considerazioni di tipo fisico, cosmologico e teologico spingono Epicuro a considerare la felicità come coincidente con l’assenza di paure e timori che condizionano l’esistenza in modo negativo. Ritiene inoltre che il male derivi dai desideri che, se non appagati, generano insoddisfazione e quindi dolore. Questi possono essere artificiali e naturali (necessari e non necessari).

È inoltre doveroso aggiungere che il motivo per cui Epicuro afferma che gli dei si disinteressino dell’uomo è che essi, nella loro beatitudine e perfezione, non hanno bisogno di occuparsi degli uomini. Affermare che per gli dei sia necessario occuparsi di qualcosa, in questo caso degli uomini, significherebbe dare un limite al potere immenso degli dei, che, invece, non hanno bisogno di interessarsi della vita terrena.

Il «tetrafarmaco o quadruplice rimedio»

Epicuro ritiene che la filosofia debba diventare lo strumento, il mezzo, teorico e pratico, per raggiungere la felicità liberandosi da ogni passione irrequieta.

«Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e della morte e dal non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura]»

Propone quindi un “quadrifarmaco” capace di liberare l’uomo dalle sue quattro paure fondamentali:

TETRAFARMACO
Mali Terapia
1) Paura degli dei e della vita dopo la morte Gli dei sono perfetti quindi, per non contaminare la loro natura divina, non si interessano delle faccende degli uomini mortali e non impartiscono loro premi o castighi.
2) Paura della morte Quando noi ci siamo ella non c’è, quando lei c’è noi non ci siamo più.
3) Mancanza del piacere Esso è facilmente raggiungibile seguendo il calcolo epicureo dei bisogni da soddisfare, che saranno quelli fondamentali, e non quelli superflui.
4) Dolore fisico Se il male è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è mai tale da offuscare la gioia dell’animo; se è acuto, passa presto; se è acutissimo, conduce presto alla morte, la quale non è che assoluta insensibilità. Per quanto riguarda i mali dell’anima Epicuro afferma che essi sono prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, contro i quali ci sono la filosofia e la saggezza.

Il piacere

Parte fondamentale dell’etica epicurea, comunque, è l’edonismo:

«Non si è mai troppo vecchi o troppo giovani per essere felici.
Uomo o donna, ricco o povero, ognuno può essere felice.»

Epicuro ritiene che il sommo bene sia il piacere (ἡδονή, edonè). È necessario comprendere a fondo questo termine; Epicuro distingue due fondamentali tipologie di piacere:

Per piacere cinetico si intende il piacere transeunte, che dura per un istante e lascia poi l’uomo più insoddisfatto di prima. Sono piaceri cinetici quelli legati al corpo, alla soddisfazione dei sensi.

Il piacere catastematico è invece durevole, e consta della capacità di sapersi accontentare della propria vita, di godersi ogni momento come se fosse l’ultimo, senza preoccupazioni per l’avvenire. La condotta, quindi, deve essere improntata verso una grande moderazione: meno si possiede, meno si teme di perdere.

«Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri né naturali né necessari, ma nati solo da vana opinione.»

Epicuro elabora una specie di catalogazione dei bisogni che se soddisfatti procurano eudemonia (letteralmente “star insieme a un buon demone”, “serenità”):     (Un dèmone; dal greco antico δαίμων, trasl. dáimōn, «essere divino» è, nella cultura religiosa e nella filosofia greca, un essere che si pone a metà strada fra ciò che è divino e ciò che è umano, con la funzione di intermediario tra queste due dimensioni. Nel linguaggio poetico e letterario, il termine demone è usato talvolta col significato di “diavolo, demonio“.)

  • Bisogni naturali e necessari, come ad esempio bere acqua per dissetarsi: questi soddisfano interamente poiché essendo limitati possono essere completamente colmati.
  • Bisogni naturali ma non necessari: come ad esempio per dissetarsi bere vino, certo non avrò più sete ma desidererò bere vini sempre più raffinati e quindi il bisogno rimarrà in parte insoddisfatto.
  • Bisogni né naturali né necessari, come ad esempio il desiderio di gloria e di ricchezze: questi non sono naturali, non hanno limite e quindi non potranno mai essere soddisfatti.

Da qui nacque l’accusa dei padri della Chiesa cristiani che Epicuro suggerisse uno stile di vita rozzo e materiale indegno dell’uomo. In realtà Epicuro non indica quali debbano essere i bisogni naturali e necessari da soddisfare poiché è demandato alla ragione dell’uomo stabilire quali per lui siano i bisogni essenziali, naturali da soddisfare. Come è stato commentato, per Cesare, ad esempio, poteva essere ininfluente il bisogno di mangiare e bere mentre per lui era veramente naturale e necessario soddisfare il suo ineliminabile desiderio di gloria.

Epicuro paragona la vita ad un banchetto, dal quale si può essere scacciati all’improvviso. Il convitato saggio non si abbuffa, non attende le portate più raffinate, ma sa accontentarsi di quello che ha avuto ed è pronto ad andarsene appena sarà il momento, senza alcun rimorso. Il piacere catastematico è profondamente legato ai concetti di atarassia (ἀταραξία) e aponia (ἀπονία).

L’amicizia sostituta della politica

«Ogni amicizia è desiderabile di per sé anche se ha avuto il suo inizio dall’utilità.»

Importante è quindi l’amicizia, intesa come reciproca solidarietà tra coloro che cercano insieme la serena felicità.

«Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l’acquisto dell’amicizia».
«L’amicizia trascorre per la terra annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l’un con l’altro.»

L’amicizia sostituisce in un certo modo i rapporti sociali poiché Epicuro contesta l’identificazione dell’uomo con il cittadino anche se riconosce l’utilità per la società delle leggi, che vanno rispettate poiché calpestandole non si può avere la certezza dell’impunità e quindi rimarrebbe il timore di un castigo che turberebbe la serenità per sempre.

La politica è «un inutile affanno» e l’uomo dovrà invece essere contento del vivere appartato secondo la concezione epicurea del “vivere nascostamente” (“vivi nascosto”, in greco antico λάθε βιώσας, lathe biòsas).

Il disimpegno degli epicurei, che teorizzano una vita serena e ritirata, congiunto ad una interpretazione superficiale del concetto epicureo di “piacere”, ha portato nei secoli ad una visione distorta dell’epicureismo, spesso associato all’edonismo egoistico o a quello dei cirenaici, con cui nulla ha a che fare. La filosofia epicurea si distingue al contrario per una notevole carica “illuministica” e morale: insegna a rifiutare ogni superstizione o pregiudizio in una serena accettazione dei propri limiti e delle proprie potenzialità.

L’etica epicurea quindi, come l’utilitarismo, è stata anche definita consequenzialista poiché identificherebbe il bene a seconda degli effetti dei propri comportamenti. Questa interpretazione è stata contestata poiché si fonderebbe su una singola frase della Lettera a Meneceo non ripresa negli altri testi epicurei.

Epicuro non prescrisse il vegetarianismo, tuttavia, almeno secondo la testimonianza del platonico Porfirio di Tiro, egli era personalmente vegetariano e spinse i discepoli al rispetto per gli animali e ad una dieta priva di carni. Nei frammenti a noi pervenuti delle sue opere, Epicuro raccomanda più volte di cibarsi frugalmente, preferibilmente di pane, formaggio e acqua, come faceva lui stesso.

Nell’antichità, la figura di Epicuro fu considerata “sacra”. Questa sacralità del personaggio si ritrova nelle espressioni di Tito Lucrezio Caro che chiamava Epicuro «un Dio» e nel II secolo d.C. Luciano di Samosatasofista simpatizzante dell’epicureismo, si riferiva al maestro come «divino sacerdote della verità» e «liberatore di coloro che ne seguono le dottrine». Lo stesso Lucrezio, difatti, nel poema De rerum natura, scrive tre “inni ad Epicuro” (detti anche “elogi” o “trionfi di Epicuro”).

Epicuro venne screditato dalle scuole rivali, in primis dai platonici, e poi dai cristiani, a causa del suo materialismo e della teoria del piacere. Nel Medioevo la parola “epicureo” era sinonimo di “ateo, irreligioso ed eretico“, in tal senso è usato da Dante Alighieri che condanna come epicurei Cavalcante dei Cavalcanti (padre del suo collega Guido Cavalcanti), l’imperatore Federico II e Farinata degli Uberti, tutti e tre personaggi per cui prova stima umana e politica, ma che condanna dal punto di vista ideologico.

Saranno il Rinascimento umanistico, tranne le correnti neoplatoniche, e l’abate Pierre Gassendi nel XVII secolo, a rivalutare il suo pensiero. In particolare Gassendi nel Syntagma philosophiae Epicuri del 1649 (“Compendio della filosofia di Epicuro”), interpretava la filosofia epicurea in senso cristiano e se ne serviva per respingere l’astratta metafisica cartesiana. Proponendolo come maestro di vita e di morale, attingeva al suo pensiero nella polemica anti-scolastica e anti-platonica. Nelle discussioni circa la nuova visione scientifica dell’universo affermava che l’atomismo epicureo, ponendo il vuoto, fosse l’unica filosofia compatibile con la realtà scientifica che si andava allora delineando. Epicuro è stato considerato come uno dei precursori anche dall’utilitarismo.

L’epicureismo fu, poi, stimato anche da vari intellettuali dell’illuminismo, come il barone d’Holbach, e in epoca successiva da Ugo FoscoloGiacomo LeopardiPercy Bysshe ShelleyKarl MarxArthur SchopenhauerFriedrich Nietzsche.

 

Numero1752.

Certo, sono più sapiente io di quest’uomo, anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo proprio un bel niente; soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla, mentre io, se non so niente, ne sono per lo meno convinto, perciò, un tantino ne so più di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che non so, nemmeno credo di saperlo.

Socrate.

Numero1651.

 

Il Punto Interrogativo

è il simbolo del Bene.

Il Punto Esclamativo

è il simbolo del Male.

Quando, sulla strada, vi imbattete nei Punti Interrogativi, nei sacerdoti del Dubbio Positivo, allora andate sicuro che sono tutte brave persone, quasi sempre tolleranti, disponibili e democratiche. 
Quando, invece, incontrate i Punti Esclamativi, i paladini delle Grandi Certezze, i puri della Fede Incrollabile, allora mettetevi paura, perché la Fede, molto spesso, si trasforma in violenza.
E, badate bene, che io, qui, non sto parlando solo di Fede religiosa, ma anche di Fede politica e di Fede sportiva, di qualsiasi tipo di Fede, insomma.
Gli integralisti islamici, i tifosi di calcio, i brigatisti neri o rossi, appartengono tutti ad una stessa razza, quella che ritiene di essere la sola a possedere la Verità, come se poi potesse esistere davvero una Verità unica e incontrovertibile.
Il Dubbio, invece, è una divinità discreta, è un amico che bussa con gentilezza alla vostra porta. Il Dubbio espone con calma le proprie idee ed è pronto a cambiarle radicalmente non appena qualcuno gli dimostrerà che sono sbagliate.

Luciano De Crescenzo     Sono stato fortunato.

Numero1650.

 

LO  ZETICISMO

Scuola di pensiero di coloro che cercano sempre,

anche se non trovano mai.

Zetétes, in Greco antico, significa “Cercatore“.

Ma che gusto c’è a cercare e a non trovare?

“La gioia non sta sulla vetta, ma nella salita,

altrimenti gli scalatori si farebbero depositare

dagli elicotteri direttamente sul cocuzzolo

delle montagne”.

Luciano De Crescenzo     Sono stato fortunato

Numero1649.

 

 

IL  DUBBIO  POSITIVO

“Il saggio non nega e non afferma,

non si esalta e non si abbatte,

non crede né all’esistenza di Dio,

né alla sua non esistenza.

Il saggio non ha certezze,

ha solo ipotesi, più o meno probabili”.

E, allora, che fa?

“Aspetta”.

Quale protocollo segue? Come procede?

“Primo, l‘epoché o sospensione del giudizio,

secondo, l’afasia o rifiuto del parlare,

terzo, l’atarassia o assenza dell’angoscia”.

Luciano De Crescenzo        Sono stato fortunato.

Numero1406.

Ho sentito il prurito di disquisire,sul piano etimologico, antropologico e filosofico, sulla parola: “persona”.
Il concetto di “persona” è principalmente filosofico ed esprime la singolarità di un individuo della specie umana. E’ l’individuo umano in quanto oggetto di considerazione o di determinazione nell’ambito delle funzioni e dei rapporti della vita sociale.
La sua etimologia ha due tracce, che, in qualche modo, si intersecano e coincidono: la prima fa risalire il termine all’ etrusco “phersu” (maschera dell’attore, personaggio), che trova il suo corrispondente nel greco “pròsopon”, dove il prefisso “pro” dice chiaramente che si tratta di qualcosa che si mette davanti (alla faccia). Dal greco al latino: da una radice “pars” (parte), che ha sempre a che fare con il teatro, si passa alla “persona”, che ha un prefisso “per” che indica un attraversamento per diffusione (nell’aria) del suono, e un suffisso dalla radice “sonare”, che vuol dire, appunto, diffondere il suono.. Era, infatti, la “maschera” e questa aveva una  duplice funzione: quella di identificare il personaggio, con le sue fattezze, quasi sempre caricaturali, e quella di fungere da amplificatore o da microfono. Nelle cavee teatrali di un tempo il problema dell’acustica era molto importante. Gli attori aumentavano il volume della voce, con il rimbombo entro la maschera o “persona” che era più grande del volto. A me piace pensare che una persona sia una maschera. Con il mio solito disincanto. ritengo che tutti, chi più, chi meno, chi peggio, chi meglio, stiamo recitando una parte nella vita, che può essere commedia, tragedia o, talvolta tragicommedia. Siamo “personaggi” del grande dramma dell’esistenza e ognuno recita la sua parte, a seconda delle sue capacità di attore. Nella presente fase della nostra civiltà, trovo che la persona sta assumendo sempre più le sembianze e il ruolo del suo significato etimologico: “maschera”. Dietro ad essa, ci nascondiamo adoperando il mondo virtuale e i “social” per “spersonalizzarci” e recitare non la parte di ciò che siamo, ma la parte di ciò che vorremmo essere. E non saremo mai.

Numero1402.

Che cos’è la filosofia?

E’ la messa in questione del senso comune. E’ vedere se le cose che si dicono, se le opinioni diffuse, se la mentalità media sono giustificate nelle loro affermazioni, oppure no. Socrate si definisce il “dotto ignorante” e, alla domanda: “Qual è il tuo compito, se non sai niente, se non sei sapiente?”, risponde: “I sacerdoti e i sapienti dispongono della verità, non i filosofi. Tenetela presente questa differenza: il sacerdote può insegnarvi una verità, la sua, il sapiente può insegnarvi un’altra verità, già confezionata. Il filosofo, no. Il mio compito è come quello dei vasai che, con la nocca del dito, provano se il vaso è di vero bronzo, oppure di altro materiale scadente. Vale a dire: io verifico se le vostre opinioni stanno in piedi da sole, per le loro argomentazioni, se sono prive di contraddizioni o se, invece, sono un “sentito dire”, oppure sono una adesione ad una fede, oppure l’adesione ad una autorità”.  Tutto ciò non interessa  alla filosofia. La filosofia nasce quando voi sapete argomentare quello che dite, a prescindere dalla fede, a prescindere dall’autorità,a prescindere dall’opinione diffusa, a prescindere dalla seduzione degli affetti. La filosofia significa pensare con la propria testa e argomentare le vostre cose e, nei confronti del senso comune, che non è il “buonsenso”, assumere un atteggiamento critico. Critico vuol dire: quel che si dice ha un fondamento, oppure vale solo perché lo dicono tutti? E questo è particolarmente significativo in un’età, come la nostra, dove le opinioni si formano attraverso la televisione, attraverso” internet” e i “social” e si assumono semplicemente perché sono diffuse e non perché sono argomentate. Siccome nell’adolescenza incomincia questo atteggiamento critico, è in questa età che si pone la domanda filosofica. Poi, magari, la si abbandona, si rientra nel gregge. Ma nell’adolescenza non siete ancora pecore, siete soggetti pensanti perché inquieti, perché turbati, perché non ci state più nella visione precedente del mondo e non avete ancora costruito quella nuova. E’ l’età dell’incertezza: è la più feconda. Gli insegnanti dovrebbero aver cura di questa incertezza e di questa fecondità.

Umberto Galimberti.