Numero2180.

 

T R O P P E   R I E V O C A Z I O N I :  POVERO  IL  POPOLO  CHE  HA  BISOGNO  DI  EROI !

 

Ne ho abbastanza! Ho bisogno di sbroccare!
Da qualche tempo (su per giù da quando si è insediato questo tipo di governi degli ultimi tempi), si è instaurata, subdolamente e surrettiziamente all’esordio, poi con frequenza dilagante e urtante, la moda delle rievocazioni.
Non passa giorno che ci viene proposta dal mondo dell’informazione, a cura di solerti giornalistini, evidentemente su incarico di dirigenti a loro volta ispirati da esponenti politici, una serie interminabile ma puntuale di ricorrenze, di anniversari di nascite o di morti, di giorni del ricordo, della memoria, riesumazioni di personaggi e rievocazioni di avvenimenti passati, con una assiduità sospetta e inconsueta.
D’accordo, lo si è sempre fatto: è persino doveroso e giusto che certe ricorrenze di fatti importanti e reminiscenze di personaggi illustri della storia patria non vengano trascurate, ma è oltremodo irritante, almeno per me, l’insistenza e l’improntitudine con cui ci vengono riproposti fatti e personaggi passati, come santi laici e celebrazioni del calendario. Per inciso, sanctus è il participio passato del verbo latino sancire, che vuol dire, come in Italiano, stabilire, fissare, dichiarare, decretare, disporre, imporre, legiferare, promulgare, statuire, approvare, confermare, convalidare, ratificare, consacrare ( quanti sinonimi, e quante diverse sfumature, di una parola o di un verbo esistono nella nostra lingua! Forse troppi! ). Il calendario contiene date e ricorrenze che devono essere ricordate, rispettate e festeggiate: scandiscono lo scorrere del tempo della convivenza civile, secondo partecipazioni collettive abitudinarie e convenzionali. E contiene anche centinaia di personaggi della storia religiosa cristiana cattolica che, in un modo o in un altro, si sono distinti meritoriamente nell’ esemplificare questa appartenenza e professione di fede. Alla stregua del calendario devozionale, vogliono forse istituire un calendario laico e secolare?
Ad essere rievocati non sono poi avvenimenti di eccezionale importanza della nostra storia passata, recente o lontana, o personaggi di grande rilievo dell’arte, della politica, della scienza e quant’altro. Vengono riesumati accadimenti, solo di un certo tipo e con una certa partigianeria, anche poco significativi, ma che, giornalisticamente e, vivaddio, anche politicamente, fanno gioco. E personaggi, positivi o negativi, paradigmatici di una ben definita appartenenza. Questo, che si sta instaurando, è un clima autocelebrativo che mi piace poco. Mi chiedo dove stia la regia occulta di questa “atmosfera”: costruire un sancta sanctorum leggendario. Forse lo posso immaginare. Ma si ricordi sempre che la leggenda penetra solo laddove i valori che vuole esaltare sono accettati dalla comunità a cui li si presenta. E che rievocare ossessivamente gli esempi del passato significa solo non aver fiducia nei valori del presente né, tanto meno, in quelli del futuro. In certe stanza dei bottoni, qualche studioso di sociologia si è accorto che stanno venendo meno i principi e i valori statuali e statali, insomma, nazionali. Appellarsi a quei principi fondanti di valori “tradizionali” è giusto, ma deleterio quando questa diventa l’unica matrice di comunicazione. Ci dovrebbe sorreggere, al contempo, lo spirito critico, la cultura dell’attualità creativa e l’attivismo innovativo che vedo, purtroppo, mancare alle generazioni che si affacciano alla storia di questo paese. Altro che partiti progressisti!
Un’ultima considerazione. Un popolo, una nazione, una comunità sociale e civile che indulgono così spesso in questa pratica di tentare di insediare su qualche piedistallo degli “eroi” del passato e di “mitizzare”, con spicciola disinvoltura, fatti o personaggi anche di secondaria importanza, e perfino negativi, sono dei perdenti.
Ricordiamo insieme certi personaggi della storia di Roma, come Attilio Regolo e Muzio Scevola, che fin dalle scuole elementari, ci venivano additati come esempi di coraggio e di abnegazione, per la salvezza del bene comune. Tito Livio ci dice: “facere et pati fortia Romanum est” ossia, “L’operare e il soffrire da forte è degno di un Romano”. Ebbene, anziché essere degli eroi positivi della storia patria, essi sono il simbolo di sconfitte militari: pur di non ammettere che le sorti dei conflitti non erano state favorevoli, si sono “mitizzati” dei personaggi sacrificali e salvifici che, in realtà, sono morti e hanno fallito e perduto.
Tecnica vecchia, quella di “celebrare” la sconfitta!

Numero2151.

 

C I N C I N N A T O

 

Vediamo: vi ricordate chi era Cincinnato? Anche alle scuole elementari, fra le notizie di Storia Patria, viene menzionato questo personaggio.
Siamo verso il 450 avanti Cristo. Roma è impegnata in un duro conflitto contro gli Equi e sta soccombendo. La situazione sta precipitando a causa della cattiva conduzione della guerra. La popolazione sollecita la nomina di un condottiero, di un leader che possa, con la propria saggezza e perspicacia, specialmente di carattere pratico, portare fuori dai pericoli e metter in sicurezza la città.
Viene fatto un nome, Lucio Quinzio (appartenente alla Gens Quinctia, uno dei gruppi tribali che furono presenti alla fondazione della città, circa 300 anni prima). Costui ha un soprannome, un epiteto esornativo, un appellativo o nomignolo, chiamatelo come volete: “Cincinnato” che vuol dire “riccioluto”. Lui è persona saggia e responsabile, ben visto e considerato da tutti coloro che lo conoscono. Non è un politico o un funzionario della amministrazione della “res publica”, è semplicemente un contadino. Una delegazione di cittadini, che si reca in missione alla sua dimora per contattarlo, lo trova mentre sta arando il suo campo. Gli viene fatta la proposta di prendere il comando della città e del suo esercito per affrontare la guerra in corso. Dopo aver prestato buon servizio alla causa comune, in qualità di Console, viene in seguito richiamato per ricevere la nomina di “dictator” o “conductor” per le più incombenti minacce belliche. In tale veste mostra tutta la sua sagacia ed esperienza e, pur sottoponendo la città ad una serie di sacrifici e privazioni, riesce a vincere la guerra e a portare Roma ad un periodo di pace e prosperità. Dopo di che egli, con molta modestia e semplicità, si ritira nel suo campicello e nel suo podere e continua a fare il suo lavoro di sempre. Dopo alcuni decenni, aveva allora più di 80 anni, i cittadini romani, memori della buona riuscita della cooptazione precedente, lo richiamarono ad affrontare un’altra situazione d’emergenza. Anche allora il buon “Cincinnato” non si sottrasse all’impegno per il bene della patria e prestò le sua opera per risolvere l’impiccio.
Giuseppe Conte mi ha fatto ricordare la figura di “Cincinnato”.

Numero2090.

Un’altra curiosità storica nella Serenissima Repubblica de Venessia.

 

Le Impiraresse: Chi erano, chi sono

Impiraressa, letteralmente infilzaperle, deriva dal verbo veneziano impirar, infilzare, e indica una particolare professione – esclusivamente femminile – nella produzione di collane e monili di perle. Il lavoro della impiraressa consiste nell’infilare piccole perle di vetro, dette conterie. A Venezia il termine conterie indica le perle, ma anche specificatamente indica lo spazio di Murano dove si producevano questi manufatti. Le fasi di lavorazione di queste perle erano complesse e molteplici, generalmente eseguite da manodopera maschile, ma l’ultima fase, ovvero quella della filatura – più delicata e più adatta alla manualità femminile – erano di pertinenza esclusiva delle donne.

Il termine veneziano impiraressa esiste dunque nella sua sola accezione al femminile. Altra particolarità di questo lavoro è che si svolgeva a domicilio. Da una parte assicurando la fondamentale presenza della donna nell’ambito domestico, dall’altra esponendola a un massacrante carico di lavoro.

Alla fine dell’800, nell’isola di Murano, apre la più grande fabbrica di perle di vetro: la Società Veneziana per le Industrie delle Conterie. Questa grande realtà manifatturiera, nata dalla fusione di tante piccole ditte muranesi, produce enormi quantitativi di perle.

A Venezia, soprattutto nei sestieri di Castello e Cannaregio ma anche nell’isola della Giudecca le conterie, attraverso una estesa rete di mediatori e la disponibilità di manodopera a domicilio e a bassissimo costo trovano uno sviluppo eccezionale. Le impiraresse sono pagate a cottimo. È stato calcolato che con il loro impegno quotidiano di 8 ore, con il modesto guadagno, a malapena, riescono ad acquistare un chilo di pane. I mediatori ci speculano. È più corretto parlare però di mediatrici, perché la distribuzione delle perle alle lavoranti avviene nella totalità dei casi dalle mistre (nome veneziano per indicare le maestre), piccole imprenditrici che con le loro relazioni con i produttori riescono ad assicurare agli industriali un buon fatturato a un costo minimo. Le mistre ricevono le perle, le portano alle impiraresse, registrandone il peso e ritirano quindi i mazzi infilati che poi vengono riconsegnati per la distribuzione commerciale. Le mistre dispongono di propri laboratori o scuole, dove insegnano a bambine e ragazzine e dove spesso gestiscono anche piccole attività di casse peote, per l’erogazione, all’occasione, di piccoli prestiti o sovvenzioni.  Le mistre – esempio di semi-imprenditorialità femminile – fungono da padroncine, ovvero pagano direttamente le operaie per il lavoro fatto e sempre loro ne ricavano però un guadagno spesso superiore a quello della impiraressa stessa.

Per l’economia della città, il lavoro delle impiraresse ha avuto un ruolo decisamente rilevante. Agli inizi del ‘900 le donne che svolgevano questa attività erano più di 5000 e quindi voleva dire altrettante famiglie sostenute da queste donne che, lavorando in casa potevano anche continuare a badare alla famiglia ed ai figli. È difficile parlare di emancipazione, perché la loro libertà di lavoro mal si conciliava con altri diritti fondamentali. Le impiraresse aderiscono numerose a partire dalla fine dell’800 agli scioperi di categoria, ma sempre con scarsissimi risultati per non dire spesso ridicolizzate anche dalla stampa maschilista dell’epoca.

Caratteristica di questo lavoro è che si svolge durante la bella stagione, con le donne sedute in calle (la tipica strada veneziana); ognuna con i propri strumenti di lavoro a fare bozzolo (col significato di cerchio, pannello) e chiacchierare (o pettegolare, come insinuano alcuni maliziosi). È interessante la rappresentazione armoniosa del pittore John Singer Sargent (ora alla National Gallery di Dublino) del 1880, dove giovani donne sono dignitosamente impegnate con i loro strumenti di lavoro.

Gli strumenti di lavoro dell’impiraressa sono molto semplici: un vassoio in legno con il fondo leggermente curvo dove vengono messe le conterie, una palmetta, ovvero 40/80 aghi lunghi 18 cm tenuti in mano come un ventaglio e i fili lunghi circa 2 metri, generalmente di lino o cotone.

Come accade in molti lavori, anche il mestiere delle impiraresse si è ripartito in varie specializzazioni: ci sono le impiraresse da fin che sono  abilissime nell’infilatura delle perle più piccole che viene eseguita con più di 80 aghi sottilissimi e dalla cruna quasi invisibile; ci sono poi le impiraresse da fiori, esperte nella infilatura eseguita senza aghi, fatta direttamente su fili di ferro  che poi modellano e attorcigliano trasformandoli, quasi magicamente, in foglie e petali di varie forme, misure e colori;  infine vi sono le impiraresse addette alla produzione delle frange che hanno un ampio utilizzo negli anni Venti del ‘900: vengono infatti impegnate per arredare tende e lampadari nelle case ma anche moltissimi abiti nel classico stile charleston.

La fabbricazione delle frange in perle di vetro richiede due fasi diverse: la prima è quella della infilatura delle conterie che avviene con una specie di pettine fatto  di particolari aghi molto lunghi ma privi di cruna e con un uncino che serve ad agganciare i  fili di cotone dove verranno trasferite le conterie; la seconda fase è quella della tessitura: con dei telai manovrati a pedale vengono praticamente tessuti i vari fili di perle che risulteranno infine bloccati da una fettuccia di cotone così da formare la frangia  Questo tipo di lavorazione sta ormai scomparendo. A Venezia è rimasta solo la ditta Gioia che, nella volontà di conservare le tradizioni, ha recuperato dalla famosa ditta Costantini gli ultimi vecchi telai in legno che ancora oggi vengono utilizzati per la produzione delle frange di perle di vetro, articolo ormai di nicchia e pressoché introvabile altrove.

Intorno al lavoro delle impiraresse c’è un mondo di termini dialettali creatisi via via negli anni e che essendosi tramandati solo attraverso il linguaggio popolare, spesso sono pronunciati in modi leggermente diversi anche da sestiere a sestiere di Venezia.
Si riporta qui di seguito un piccolo glossario.

  1. .AGÀDA: il ventaglio di aghi riempito di conterie.
  2. .BURATTINI: le perle di tanti colori diversi (spesso si facevano mescolando le poche conterie che inevitabilmente restavano sulla sessola alla fine di ogni lavoro).
  3. .CREMETTE: tipo di perle dal taglio obliquo, vengono chiamate così per la somiglianza, nella forma simile ad una losanga, che ricorda un tipico dolce veneziano chiamato appunto crema.
  4. .GIARDINETTO: praticamente un mazzo variopinto ovvero composto da più marini di vari colori.
  5. .MARIN: insieme di fili di perle corrispondente a due agàde.
  6. .MAZZO: l’unione di più marini (generalmente 240 fili).
  7. .PALMETTA: il ventaglio di aghi tenuto in mano dalla impiraressa.
  8. .ORBE: le perline con il foro tappato.
  9. .SÉSSOLA: una piccola pala di legno con fondo leggermente curvo, usato per contenere le perline di vetro da infilare. È curioso sottolineare che in una città d’acqua come Venezia questo attrezzo è spesso più usato per secar la barca, togliere l’acqua dal fondo della barca.
  10. .SPÒLVARO: la sabbia che poteva restare sul fondo della sessola (la sabbia veniva usata in alcune fasi della lavorazione delle conterie: poteva restarne nei fori delle perle se queste non venivano setacciate bene).
  11. .TAMÌSO: setaccio usato sia per pulire le perle (da sabbia e crusca ) sia per dividerle per misura.

Numero2005.

 

L’ U O M O   E    L A   L I B E R T À                    La condizione umana vista con gli occhi della filosofia.

 

La tesi che vorrei illustrare, senza nessuna pretesa di persuadervi, perché in tutte le cose che dico, non ho mai preteso di persuadere nessuno, anche perché non ci riesco, è che la libertà non esiste.
Però esiste l’idea di libertà e guardate che, quando esiste, un’idea fa storia.
Per esempio, nessuno sa se Dio esiste, in fondo, nessuno l’ha mai visto. Però, dal fatto che esiste l’idea di Dio, nasce una storia, la storia di chi è persuaso che Dio esiste.
Mi raccomando, le idee non stanno a raccontare la verità. Bisogna considerarle dal punto di vista della loro efficacia storica. Se l’dea genera una storia, questa idea va presa in considerazione.

 

Umberto  Galimberti      filosofo.

Numero1994.

 

NON  TUTTI  LO  SANNO

 

Una delle mosse più importanti della cosiddetta Confraternita Babilonese fu la creazione, nel 1913, della “Riserva Federale”, la Federal Reserve, la “Banca Centrale” degli Stati Uniti.
Questo ente non è né “Federale”, né può definirsi una “Riserva”. Si tratta di un cartello di Banche private di proprietà delle 20 famiglie fondatrici, per lo più Europee, che oggi decide i tassi d’interesse per gli Stati Uniti e presta denaro inesistente (cifre su uno schermo) al Governo Statunitense, su cui, poi, i contribuenti devono pagare gli interessi.
Questo è ciò che chiamiamo il “disavanzo Americano”, cioè aria fresca.
Il Governo Federale degli Stati Uniti non possiede una sola azione della “Riserva Federale” e i cittadini Americani non possono acquistarle. I profitti superano i 150 miliardi di dollari all’anno e la “Riserva Federale” non ha mai pubblicato una volta, nel corso della sua storia, la revisione del suo bilancio.
Queste entrate sono assicurate perché:

1   La Confraternita controlla il Governo Statunitense (il cui secondo nome è Virginia Company) che continua a prendere “denaro” in prestito dalla “Riserva Federale”;
2   Controlla anche il Servizio Tributi Interni (IRS = Internal Revenue Service), l’organizzazione terroristica illegale e privata che riscuote le tasse;
3   Controlla i “media” per far sì che la popolazione non venga mai a sapere quanto detto ai punti 1 e 2.

La Confraternita desiderava da tempo una “Banca Centrale” privata in America per coronare il proprio controllo sull’economia. Quando il Frammassone più in vista, George Washington, divenne il primo Presidente, nominò un uomo di paglia della Confraternita di nome Alexander Hamilton come Ministro del Tesoro.
Hamilton fondò la Banca degli Stati Uniti, una Banca Centrale privata che iniziò a prestare denaro al Governo degli Stati Uniti, assicurandosene, così, fin dall’inizio , il controllo.
Se guardate cosa è successo quando la Nobiltà Nera ha introdotto la Banca d’Inghilterra, vi accorgerete che lo scenario è esattamente lo stesso.
La Banca degli Stati Uniti provocò così tanta miseria, bancarotte e ribellioni, che venne chiusa, ma fu presto rimpiazzata dalla “Riserva Federale”.

Quando la legge che istituiva la Riserva Federale stava per essere presentata al Congresso, i banchieri, che l’avevano scritta, la criticarono duramente e pubblicamente. I banchieri erano già molto impopolari e volevano dare l’impressione che la legge fosse svantaggiosa per loro, aumentando il consenso popolare in favore della sua approvazione. Questo tipo di manipolazione è ricorrente e non bisogna mai tener conto di quello che uno dice pubblicamente, ma chiedersi sempre “A chi giova questa cosa?” e “A chi giova che io creda a quello che mi viene detto?”.
La legge fu approvata proprio prima del Natale 1913, quando molti deputati erano già a casa, in vacanza con le loro famiglie. Ora i banchieri potevano controllare i tassi d’interesse e realizzare una fortuna prestando al Governo denaro inesistente e caricandolo di interessi.
Per completare il ciclo, tuttavia, dovevano assicurarsi entrate costanti che finanziassero il Governo e, nel 1913, introdussero così un’Imposta Federale sul Reddito. Per farlo, dovettero introdurre un emendamento, il 16°, alla Costituzione Americana, che richiedeva il consenso di almeno 36 Stati. Solo due Stati lo concessero, ma Filander Knox, il Segretario di Stato, annunciò semplicemente che la maggioranza richiesta era stata raggiunta e la legge venne approvata. A tutt’oggi, la riscossione forzata dell’Imposta Federale sul Reddito è illegale e, tuttavia, il Servizio Tributi Interni continua ad esigere il pagamento di questa tassa in tutti gli Stati Uniti.

Qualcuno potrebbe dire che, definirla un’operazione terroristica è esagerato, ma per terrorizzare qualcuno non c’è bisogno di usare un fucile o una bomba. Può farlo anche minacciando di privarlo dei sui mezzi di sussistenza e di espropriargli la casa per il mancato pagamento di una tassa che è illegale.
Il Servizio Tributi Interni che riscuote le tasse negli Stati Uniti è anch’esso un’azienda privata, sebbene la gente creda che faccia parte del Governo.

 

David Icke          Il segreto più nascosto.

 

A parziale integrazione di quanto sopra, riporto il Numero699:

Nel 1963, il Presidente J.F. Kennedy firmò l’atto n° 1110, con il quale toglieva alla FEDERAL RESERVE il diritto esclusivo di emettere denaro e dava al Ministero del Tesoro la facoltà di stampare moneta. Fu un colpo decisivo allo strapotere della FED, che è una Banca privata, e del Sistema Bancario.

Era il 4 Giugno 1963.

Meno di 6 mesi dopo, il Presidente Kennedy fu assassinato a Dallas.

 

 

Numero1993.

 

C U R I O S E   C O I N C I D E N Z E   S T O R I C H E.

 

Se vi interessano le corrispondenze, nell’ambito della scienza, dei nomi e dei numeri, pensate alle stupefacenti coincidenze tra l’assassinio di John Fitzerald Kennedy e quello di Abraham Lincoln.
Lincoln venne eletto al Congresso nel 1846 e Kennedy nel 1946.
Lincoln fu eletto Presidente nel 1860, Kennedy nel 1960.
L’assassino di Lincoln, John Wilkes Booth, nacque nel 1839 e Lee Harvey Oswald, il presunto assassino di Kennedy, nacque nel 1939.
Entrambi i loro successori si chiamavano Johnson. Andrew Johnson, che succedette a Lincoln, era nato nel 1808, mentre Lyndon Johnson, che succedette a Kennedy, era nato nel 1908.
La segretaria di Lincoln si chiamava Kennedy, mentre la segretaria di Kennedy si chiamava Lincoln.
Entrambi i Presidenti furono assassinati di venerdì, davanti alle loro mogli, ed entrambi furono uccisi con un colpo alla testa.

Numero1968.

MAGISTRI  COMACINI

CHI erano e che conoscenze possedevano questi Specialisti dell’Arte Edile, i Maestri Comacini?

La loro presenza è attestata fin dal tempo dei Longobardi (vengono menzionati in due Editti:di re ROTARI del 22/11/643 e in quello di re LIUTPRANDO del 713), per non dire che già al tempo dell’Imperatore Traiano, ne troviamo menzione. In una lettera di Plinio Cecilio indirizzata all’imperatore stesso, troviamo che viene lodato un ‘maestro comacino’ per la costruzione di una “Amenissima villa suburbana sul Lago di Como“. Potrebbero, quindi, originare addirittura dai Collegia Romani, avere un’eredità millenaria.

E’ importante capire se queste ‘maestranze’ possano aver “legato”insieme i culti precedenti al Cristianesimo, ne abbiano ereditato alcuni ‘modelli’spirituali oltre che iconografici (quello è abbastanza evidente!) la flora, la fauna, le spirali, le figure geometriche, e abbiano continuato nei secoli, adeguandosi ai nuovi committenti. Consideriamo che,  tra i Romani, vi doveva essere un miscuglio di genti proveniente da vari distretti, oltre che italiani anche orientali e nordici, popoli che avevano una particolare venerazione per il serpente e per gli intrecci.

Roma aveva “Corporazioni” (i “Collegia Romani”) proprie, in cui l’arte antica si insegnava a porte chiuse, si propagava nella ‘schola’ e nel ‘Laborerium’. L’uso dei Collegia si estese a molti territori conquistati da Roma, tra cui c’è la zona di origine dei Maestri Comacini, che furono i depositari di quell’antica Arte, uniti da quel senso di solidarietà e fraternità che li farà giustamente appellare Maestri e Fratelli Comacini. Furono chiamati anche ‘Fabbri Muratori’ e sembra che questa associazione muratoria possa essere stata il prototipo e l’inizio dei cantieri degli scalpellini nel Medioevo e gli antenati dei Liberi Muratori della Loggia Massonica“.Naturalmente non vi sono documenti certi che lo attestino ma questa supposizione può essere da stimolo per ulteriori ricerche.Il fatto che si spostassero dove venissero richiesti, e per il fatto che siamo di fronte ad una corporazione che si tramandava di generazione in generazione l’Arte edificatoria nei secoli, aumenta la probabilità che fossero venuti a contatto con svariati stili e culti… Sotto la protezione dei Re Longobardi i Maestri Comacini divennero i custodi dell’arte edilizia romana.

Del resto, sappiamo che la corporazione dei Magistri Comacini fu attestata in Italia –dalle Alpi al centro-e Oltralpe in paesi come la Svezia, Dalmazia, Siria, Spagna, Russia…

Essi operarono in Europa seguendo costantemente o adeguandosi ai nuovi stili emergenti, sempre però portando con loro il proprio estro professionale che li rendeva inconfondibili. E, sicuramente, assistettero alla fusione delle forme Romaniche con quelle Gotiche, che contribuirono ad abbellire al passo coi tempi che mutavano, di generazione in generazione.

I Longobardi, provenendo dalla Pannonia, portavano con sé culti pagani orientaleggianti, e anche quando si convertirono , restarono sempre ‘barbari cristianizzati’ legati al culto ancestrale del serpente. E’noto, infatti, come nella loro arte favorirono intrecciamenti ed annodamenti, il ‘nodo longobardo‘ ed i Comacini dovettero sempre occuparsene, sia in senso pagano che in senso cristiano (il serpente tentatore nella “Genesi”,per esempio). Le cattedrali Romaniche e gotiche pullulano di colonne ritorte,spinate e di decorazioni a spirale, forme vegetali intrecciate, figure geometriche e simbolismi paganeggianti.

Quando i loro committenti divennero i funzionari del clero cristiano, l’Arte Comacina continuò a produrre in senso ‘cristiano’ o ‘pagano’? Non è dato sapere dalle fonti ufficiali. Liberamente essi percorrevano quella cristianità senza confini in cui fiorirono monasteri, basiliche, cattedrali…Nel XII-XIII secolo, continuarono ad essere ‘liberi muratori’ in ‘liberi mestieri’,anche quando i re feudali avevano assunto gli aderenti alle “professioni “in pianta stabile. In tale contesto, essi si posero sotto la tutela protettiva della Chiesa e degli Ordini Monastico-Cavallereschi che specialmente  dopo il Mille dilagavano in Europa e oltre,attivissimi sulle vie dei pellegrinaggi.  Inoltre godevano di permessi speciali per circolare liberamente in Europa, erano esentati dalle tasse e non avevano vincoli. Anche quando erano forse mal tollerati per questioni di fede, erano altamente apprezzati e- si può ritenere – insostituibili.

Essi si riunivano in umili ‘baracche’ attigue al cantiere (chiamate ‘logge’ e che sono spesso raffigurate nelle miniature medievali, appoggiate al muro del cantiere) e qui tagliapietre, scultori, scalpellini, si riunivano per ascoltare le parole del Maestro e le sue direttive, raccogliendo soprattutto quello che lasciava ‘trasparire’ ed è probabilmente qui che l’apprendista( il nuovo ‘operaio’) giurava di rispettare i segreti del mestiere, i suoi obblighi e le regole, apprendeva le parole e i segni per riconoscersi tra muratori, segni convenzionali e parole segrete che gli permettevano di farsi ‘riconoscere’ da una loggia all’altra durante i suoi viaggi di lavoratore ‘migrante’.Tutto questo, e il fatto che avessero degli Statuti divisi in Articoli (destinati ai Maestri) e in Punti (destinati agli allievi) ha fatto pensare che essi costituissero il ponte di passaggio tra la massoneria operativa e quella speculativa,che ne avrebbe ereditato la Tradizione spirituale e simbolica, portandola fino ai giorni nostri.

Il 24 giugno 1717,con un’Assemblea,veniva proclamata la Gran Loggia di Londra che segnava il declino dei costruttori,dei Maestri nomadi e il trionfo dei borghesi sedentari,dei nobili oziosi. La Massoneria, quella vecchia fratellanza di mestiere,diveniva ‘speculativa’ : non sarebbero più stati necessari gli strumenti autentici usati nelle polveri dei cantieri delle cattedrali ma piani astratti, strumenti simbolici e “con il solo cemento del pensiero, la squadra dell’anima, il compasso della mente, non intendevano più innalzare edifici, ma ‘costruire’un uomo nuovo, l’uomo ‘perfetto’. L’origine della Massoneria è un campo di indagine pluridirezionale. Dal punto di vista storico, è campo di ricerca, laddove per l’adepto,invece, è un terreno pieno di simbologie che per i profani sono poco comprensibili, addirittura bizzarre e confuse.

E’interessante notare che quando siamo in presenza di costruttori che portano la denominazione della città di provenienza(da Campione,da Bissone,da Arogno,ecc) siamo in presenza di Maestranze Comacine e di persone le quali non provenivano esclusivamente dalla sola città di Como o dall’Isola Comacina, oppure lavoranti ‘cum machinis’(con macchine,forse particolari,che non è escluso possedessero veramente),come molti vogliono genericamente definirli.Mi trovo concorde con quanto afferma il MERZARIO, nella sua opera sui Maestri Comacini del 1893 e cioè che queste abili famiglie di costruttori, scalpellini, lapicidi e cavapietre provenissero da un ampio territorio che si estende a Nord oltre Bellinzona, a sud fin quasi a Milano, a est fino al lago di Idro e ad ovest fino al lago d’Orta.Ciò non esclude affatto che lavorassero con ‘macchine’ o strumentazioni particolari, per l’epoca. Per ignoranza o superficialità, li ritroviamo frequentemente quali anonimi ‘artisti lombardi’(ove questo,a suo tempo, non sottacesse ad un significato spregiativo, tra l’altro).A volte furono denominati anche ‘casari’ o ‘tedeschi’.La confusione è stata per secoli trionfante…

Il Merzario aggiunge che l’applicazione dei precetti di Vitruvio, sebbene con talune caratteristiche innovazioni,fu sempre imitata dalla scuola Lombarda; i libri di Vitruvio erano andati perduti e furono ritrovati molto  più tardi a Montecassino; i precetti venivano tramandati e insegnati oralmente e tradizionalmente da que’ Maestri.

Numero1950.

 

UNA  CURIOSITÀ  DELLA  SERENISSIMA

San Marco non abita più a Venezia.

Una vetrata di SS.Giovanni e PaoloSulla figura dell’evangelista Marco si sviluppò l’intera civiltà di Venezia – lo sanno tutti – tanto da esserne bandiera, Santo patrono, anima … e vanto.  Pochi sanno che le spoglie di Marco furono trafugate da Alessandria d’Egitto (in mano ai musulmani) racchiuse in una pelle di maiale. (N.d.R. Vi chiederete perché. Perché i mussulmani non possono toccare, secondo la legge coranica, il maiale, considerato animale immondo).  Ancor meno sono quelli che sanno il resto della storia: venne accolto in pompa magna, tutto il mondo ne venne a conoscenza… ma venne sepolto in un punto segreto della basilica a scanso di rapimenti.   Le spoglie vennero “ritrovate” solo molto tempo dopo, rinchiuse in un pilastro.  Solo alcuni veneziani sanno che le sue spoglie non si trovano più in città. Sono state riportate in Egitto (Il Cairo) nella basilica a lui intitolata dalla comunità cristiana Copta, che lì nacque per sua mano.

PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS ???

Numero1949.

 

UN’ ALTRA  CURIOSITÀ  DELLA  SERENISSIMA

Da dove viene l’espressione : “Paga Pantalone”?

 

Chi non conosce la maschera di Pantalone? Sembra che il nome del vecchiaccio avaro e scorbutico derivi dalla figura di un commerciante ebreo.  Gli ebrei veneziani infatti potevano assumere personale da imbarcare nelle galere commerciali, ed i loro “uffici” lungo la via erano contrassegnati da una bandiera col leone di S.Marco piantata a terra.  Proprio da “pianta leone” il nome nacque, anche se qualcuno dice derivi dai pantaloni che egli indossava (…un po’fiacca, vero?).

Secondo altre ipotesi l’illustrissimo Signor Pantalon de’ Bisognosi era la caricatura piuttosto veritiera del commerciante veneziano, ed il “pianta leone” potrebbe, in tal caso, essere riferito ai veneziani in generale, spesso dediti a piantare bandiere sui territori conquistati…  Sapevate che il buggeratissimo Pantalone diede il suo nome ad un giornale, anche se per soli tre numeri ?

 

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Abbiamo, così, scoperto insieme da dove viene l’espressione “PAGA  PANTALONE”.

Numero1943.

 

CURIOSITÀ  STORICHE  D’ ATTUALITÀ

 

Il necroforo (dal greco antico nekró(s)=”morto” + phor(eüs)=”portatore”), anche detto popolarmente becchino o, più volgarmente, beccamorto, a Roma vespillone, è una persona la cui professione è la sepoltura o la cremazione.

 

I monatti, ossia coloro che, che nei periodi di epidemia, erano incaricati di raccogliere e trasportare nei lazzaretti i malati e i cadaveri, a Venezia erano chiamati Pizzigamorti. 

Pizzigamorti o Pizzicamorti erano i becchini veneziani, ossia coloro che erano deputati a vestire e seppellire i morti. La parola becchino o beccamorto deriva dal verbo “beccare”, che significa prendere, e quindi il becchino sarebbe colui che raccoglie i morti. Si consideri anche la maschera con il lungo becco ricurvo, riempito di spezie e unguenti contro la pestilenza, che essi indossavano. La parola potrebbe però anche derivare dal fatto che si afferravano “coll’uncino i morti nei tempi di contagio”; altra spiegazione sarebbe collegata al fatto che venivano anche chiamati in modo dispregiativo “corvi … quasi campassero delle carni de’ morti”, nel senso che vivevano e guadagnavano sulla morte altrui.

Pizzicamorti veneziani erano vestiti con un lungo mantello marrone, simile a quello dei frati e con un berretto del medesimo colore.  Durante le pestilenze, non era però questo l’abito utilizzato dai pizzicamorti, che indossavano casacche di grossa tela e guanti, entrambi coperti di catrame, per evitare qualsiasi contatto con i contagiati, e portavano dei campanelli di ottone per avvertire del loro arrivo. Durante la peste del 1485, indossavano una stola con una croce rossa davanti e dietro come i medici.

“Nel 1485 fuvvi un attacco di peste . S’osservò che la Città da molto tempo non potevasi liberare. I Preti, che andavano a confessare i malati avevano certe vesti , che solevano usare a tal bisogno . Queste per ordine pubblico furono loro tolte e bruciate . Fu pure ordinato, che niuno vendesse tele o abiti vecchi, che i Preti i quali visitavano ammorbati , portassero una stola biava , e così pure i Medici , e quelli che maneggiavano morti o appestati , una Croce rossa di dietro e dinanzi per essere conosciuti” .

Il  Magistrato della Sanità faticava naturalmente a trovare persone disposte a fare il mestiere del becchino nei periodi in cui imperversava la pestilenza. I Pizzigamorti, di solito sottopagati, chiedevano notevoli aumenti di stipendio durante le epidemie. Non essendo comunque essi in numero sufficiente, il governo era costretto ad assoldare dei detenuti, promettendo loro una buona retribuzione. Per lo stesso motivo, le infermiere dei lazzaretti erano quasi tutte prostitute.

Si trattava, in ogni modo, di personale poco affidabile, che rubava dalle case vuote, spogliava dei vestiti e di ogni avere i morti, per poi rivendere la merce rubata e probabilmente infetta. I Pizzicamorti vennero anche accusati di aver intenzionalmente diffuso l’infezione, per poter essere assunti con stipendi più vantaggiosi e guadagnare con il contrabbando. Pur essendo necessari per la salvaguardia della salute pubblica, i Pizzicamorti erano odiati dalla popolazione: nessun altra figura della sanità pubblica aveva contatti così stretti con la peste come loro, e per questo erano considerati pericolosi; al tempo stesso, si sapeva che rubavano ai morti e venivano perciò considerati privi di qualsiasi compassione umana, al pari delle bestie. I Pizzigamorti non erano comunque gli unici a trarre vantaggio dal dramma del contagio; esiste una vasta documentazione archivistica che prova che anche barcaioli e guardie dei lazzaretti  furono condannate per reati di questo genere.

Da un breve opuscolo del notaio veneziano Rocco Benedetti, veniamo a sapere che, durante la peste del 1575, intere famiglie venivano condotte all’aperto e costrette a spogliarsi in pubblico, così che i dottori potessero verificare che non erano infette. I Pizzicamorti giravano per la città e penetravano nelle case di quelli che vivevano da soli e di cui non si avevano più notizie da giorni, abbattendo le porte o entrando dalle finestre; trovavano i residenti morti nei loro letti o per terra, li trasportavano fuori e li caricavano sulle barche, che si muovevano continuamente avanti e indietro dai lazzaretti . Dato che parte del contagio era causato dal fatto che molte persone infette si ostinavano a voler rimanere nelle proprie case, fu decretato per pubblico Editto che:

“per l’avenire, gli feriti senza remissione alcuno si mandassero subito al Lazzaretto vecchio, e gli sani, che in quella casa che si trovassero al Lazzaretto novo, e quelli che non vi volessero o facessero resistentia d’andarvi, se gli gettavano giù la porta dal capo della sanità, e fossero da pizzamorti tratti per forza fuora di casa, e condotti via […] acciò che non si potesse fare contrabandi furono fatte inquisitioni per li sestieri, che andassero inquirendo e formando processo delle case infette, oltra di ciò sentendosi ogni giorno molti ricchiami e querele contra pizzicamorti dell’insolentia e robbarie, che essi facevano per la Città, fu dato a diversi il debito castigo del laccio, e tra gl’altri, alli 3 de Noveb. furono in pleno populo tra le due colonne di S. Marco appesi 4 insieme con una bella giovine d’età de 22 anni per haver dato a loro ricetto la notte in casa, e commodità d’ascondere gli furti”.

 

Caricatura del medico della peste, in Paul Fürst, Die Karikatur und Satire in der E. Hollander, Medizin mediko-kunsthistorische Studie, 1921

                                                                 Caricatura del medico della peste

Lo Stato, durante la terribile epidemia del 1575, dimostrò, in ogni modo, capacità di gestione, fornendo anche le giuste dotazioni ai pizzicamorti per la loro sicurezza.

In una città morta, in cui migliaia di persone abbassano i cestelli dalle finestre per chiedere la carità («fattasi tutta la città questuante», annota tristemente il Fuoli) il governo dà prova della consueta saggezza e sangue freddo: i lazzaretti sono mantenuti efficienti, i rifornimenti di viveri sono assicurati anche nei momenti più difficili, i pizzicamorti, grazie alla dotazione delle casacche di tela incatramata e dei guanti, abbondano, insomma nell’anormalità di una catastrofe senza precedenti si coglie la presenza di un ordinato e razionale intervento dell’apparato dello stato.

Numero1938.

 

CURIOSITA  STORICHE

Cos’erano le CARAMPANE?

Mi pare intrigante ed istruttivo riportare una verità storica non molto conosciuta, se non per vago “sentito dire”, che riguarda abitudini di vita reale di non tanti secoli fa e non molto distanti da qui. A Venezia.

Trascrivo le notizie, raccogliendo e vagliando dal WEB (Wikipedia e altro).

Dalla ricerca sugli “usi e costumi” eterosessuali, si sconfina, inevitabilmente, nel campo omosessuale, per completare il quadro.

 

Venezia nel XIV secolo era all’apice della propria fortuna commerciale e delle arti che vi si svolgevano in un coacervo di navi in arrivo in porto, di merci di tutti i tipi scaricate sulle banchine, di marinai e commercianti di tutte le nazionalità che si muovevano alla ricerca di nuove e vecchie sensazioni.

Nella città giungevano ogni giorno nuovi abitanti attirati dalla facilità di guadagno, ma soprattutto perché vivere nella capitale diventava una concreta possibilità di sopravvivenza, in relazione alla scarsa disponibilità di viveri delle regioni confinanti.

In questa città sempre più caotica dove si concentravano commercianti di varie e lontane regioni per portare le mercanzie delle proprie terre, dove i marinai di tutte le navi si trovavano a terra chi perché appena sbarcato, chi per imbarcarsi per un nuovo viaggio, era naturale che si concentrasse pure un numero notevole di cortigiane che si concedevano a pagamento.

Il Senato della Repubblica di Venezia ha sempre cercato di arginare il diffondersi delle case da meretricio, imponendo, fin dal 1360, che le prostitute si ubicassero nelle vicinanze del grande mercato di Rialto, nel posto definito delle “Carampane”.

Non troppo lontano da Sant’Aponal c’è tutta una zona detta de le Carampane, corruzione (o fusione o crasi) di Ca’ (casa) Rampani, dal nome di una famiglia nobile che aveva lì la casa patrizia. Poco lontano da qui, nel 1360, fu istituito il Castelletto, un gruppo di case dove la Serenissima impose alle prostitute di radunarsi e di esercitare il mestiere. Il Castelletto era chiamato così perché custodito da sei guardiani, e governato con ordini adatti a una fortezza.

A quell’epoca, le meretrici veneziane non godevano di molte libertà, tanto sociali quanto religiose. Non potevano portare gioielli, dovevano vestire in maniera da poter essere riconosciute per strada, non potevano uscire la notte, avevano anche seri vincoli rispetto all’esercizio della loro “professione”. A dispetto delle disposizioni, comunque, molte prostitute si stabilirono in diverse zone della città, ma specialmente alle Carampane. Una specie di “quartiere a luci rosse”, nel tempo, visto che la Dominante – allo scopo di distogliere gli uomini dal “vizio” della sodomia – prescrisse che le meretrici potessero stare davanti alle porte o alle finestre, scoperte in maniera lasciva e illuminate, di sera, da delle lucerne. In pratica, l’antesignano degli odierni peep-show (esibizione erotica visibile attraverso uno spioncino, o, anche, il locale dove questo avviene). 

Non a caso, in questa zona del Sestiere, esistono anche ponte e fondamenta de le Tette, che prendono il nome dall’interessante consuetudine. A tale proposito più tardi, il 27 marzo 1511, le meretrici presentarono una istanza nientemeno che al Patriarca Antonio Contarini, affinché venisse in loro aiuto non potendo esse più vivere: “niun va li lhoro”. Nessuno va con loro, a causa dei cosiddetti peccati “contro natura”. Qualche anno prima, alcune avevano provato ad invogliare i clienti con una acconciatura particolare, detta “al fungo” (consistente nel raccogliere i capelli sulla fronte in modo da formare un ciuffo), che le faceva sembrare più simili a ragazzi. Una novità che non piacque al Consiglio dei Dieci, che la proibì con una legge il 14 marzo 1470.

Carampane ieri e oggi

Tra le curiosità, fino a pochissimi anni fa a Venezia con carampane si intendevano donne di malcostume, o – sempre spregiativamente – vecchie cui si volesse dare delle ruffiane. Ancora oggi con tale termine si fa riferimento – più genericamente – a donne che, ben oltre la mezza età, si danno arie da ragazze, nel trucco, nell’abbigliamento o negli atteggiamenti.

 

Questo delle “Carampane” era proprio una specie di quartiere a luci rosse, dal quale le prostitute non sarebbero potute uscire per non diffondere, con il loro fare lascivo, un cattivo esempio per le cittadine per bene. Nella zona della Carampane c’è il famoso Ponte delle Tette e l’adiacente fondamenta omonima dove appunto le donne potevano mostrare la propria mercanzia anche sedute sul davanzale delle finestre decisamente poco vestite.

Gli edifici loro adibiti diventarono insufficienti per il numero cospicuo delle donne che vi abitavano, quindi si diffusero in città in diversi luoghi, alle Carampane, a San Salvador, e specialmente a San Samuele.

Erano però molto numerosi in città, proprio per la presenza di molti uomini non accompagnati dalle famiglie, gli stupri o addirittura i rapimenti di ragazze, come viene ricordato dalla famosa festa veneziana che attualmente viene rivissuta in prossimità del Carnevale di Venezia, la Festa delle Marie. I Magistrati veneziani erano abbastanza accondiscendenti con le puttane di mestiere e solo in caso di particolari atti gravi, intervenivano contro le signore di strada, spesso solo con sanzioni pecuniarie o corporali. Lo erano molto meno con gli stupratori tanto che “se alcun desverzenerà per forza alcuna zovene, over haverà violentemente da far con Donna maritata, o con femmina corrotta…., tutti doi li occhi perda”.

Venivano pure puniti gli sfruttatori del meretricio, tanto che i papponi subivano sanzioni corporali, ammende e pure la reclusione. Non venivano assolutamente tollerati gli omosessuali e coloro che si prestavano ad atti di sodomia; la punizione, per coloro che fossero risultati colpevoli dei reati loro ascritti, era la decapitazione in Piazza San Marco tra le colonne del Marco e del Todaro ed il loro corpo veniva successivamente bruciato.

Nel ‘500 Venezia manteneva una floridezza che le altre città del mondo non potevano permettersi. Il numero degli abitanti prima della peste del 1575 superava le 175 mila unità, che diventano cospicue se confrontate alle 55 mila di Roma del 1526.

 

OMOSESSUALITA’  A  VENEZIA.

 

La parola omosessualità e stata creata fondendo il termine greco omoios, che vuol dire “simile”, e il termine latino sexus, che vuol dire “sesso”, e si riferisce ad “una disposizione all’esperienza sessuale, affettiva o di romantica attrazione verso le persone dello stesso sesso”.

 

Per l’uomo la penetrazione rettale è il modo più efficace per stimolare la radice del suo membro e la prostata, zona altamente erogena. Qualcuno raggiunge l’orgasmo solo così, mentre altri lo raggiungono affiancando contemporaneamente la masturbazione. L’omosessualità si riscontra in molte specie animali. La diffusione dell’omosessualità nella specie umana è difficile da determinare accuratamente, benché in molte antiche culture le relazioni omosessuali fossero altamente diffuse.

La storia dell’omosessualità

è anche una storia degli atteggiamenti sociali possibili verso un comportamento percepito come “deviante”. L’atteggiamento sociale verso i comportamenti omosessuali ha conosciuto momenti di relativa tolleranza, durante i quali la società ammetteva un certo grado di discussione ed esibizione pubblica del tema, anche attraverso l’arte e le produzioni culturali (come è avvenuto per esempio nell’Atene classica, nella Toscana del Rinascimento, o a Berlino e a Parigi nell’anteguerra), alternandoli però a momenti di repressione durissima.
Con la nascita del movimento gay, si può finalmente guardare a questo mondo come a una “comunità’” strutturata secondo valori e rituali propri.

Ma come era vista in passato la omosessualità ?

In antichità , il maschio era educato per essere padrone e dominatore nel rapporto erotico e di coppia, e tale esigeva di essere anche nel rapporto omosessuale.  Nella Roma antica, sodomizzare uno schiavo era legale, ed era il segno di potenza del  padrone.

Quando si parla di omosessualità in quest’epoca si parla infatti, quasi  automaticamente, di un rapporto fra un adulto e un ragazzo d’eta’ compresa tra i quattordici e diciott’anni (si ricordi che la pubertà, all’epoca, arrivava più tardi).
Uno dei motivi, che era accettato tacitamente anche da parte dei genitori , era ” di essere iniziato alla sessualità, seppure in un modo sentito come “surrogato” e non certo soddisfacente”. Il secondo motivo , anche questo abbastanza importante, era il denaro (determinante in una società povera come quella ). I soldi che un ragazzo poteva aggiungere al bilancio familiare prostituendosi non erano malvisti da tutte le famiglie e non tutti i genitori avevano voglia di chiedersi da dove venissero. Infine, il terzo motivo era quello di attirare l’attenzione di un adulto (altro aspetto importante quando la condizione di giovane non era invidiata e “centrale” come nella cultura attuale).
Era buon uso che un nobile accettasse di prendere in casa un “figlio” per garzone.  in cambio avrebbe potuto portarselo a letto senza problemi. Nascono, cosi, i cosiddetti “boccia da cullo”.

Non doveva essere facile per i sodomiti vivere sereni e senza sensi di colpa. In un mondo dominato dalla Chiesa il peccato era punito non solo da Dio, ma anche dagli uomini.
La Serenissima Repubblica emette leggi, che puniscono aspramente i comportamenti “contro la natura”umana cioè la omosessualità. Gli omosessuali venivano impiccati nelle due colonne della piazzetta di S. Marco e poi bruciati fin che fossero ridotti in cenere. Un colpo davvero grosso misero in scena nel 1407 i magistrati della Repubblica di Venezia: trentacinque sodomiti (non si sa, per la mancanza di documenti, se ad uno ad uno o tutti assieme) furono scoperti e processati. L’avvenimento, al di là delle gravi complicazioni politiche che causo’ (quattordici imputati erano nobili) diventa per noi di grande interesse, perché costituisce una delle prime tracce di una rete di frequentazioni fra sodomiti nelle città italiane del medio evo.

 Gli arresti in massa continuano a costellare per secoli le carte processuali veneziane. Ne troviamo, ad esempio, un altro già nel 1422: diciannove le persone coinvolte, fra cui tre barbieri e parecchi minorenni;  poi nel 1464 vengono incriminate quattordici persone (fra cui cinque nobili), molte delle quali pero fuggono prima della cattura. Nel 1474 abbiamo ancora sei sodomiti (due dei quali nobili) coimputati. La vicenda assume le tinte di un thriller quando l’accusatore viene misteriosamente assassinato. Ma di questa presenza strutturata ci parlano anche le leggi stesse di Venezia . Una di esse, nel 1450, menziona i portici vicini a Rialto e quello della chiesa di S. Martino come luoghi d’incontro di sodomiti. Inoltre i supervisori dell’Arsenale (presso cui si trova la chiesa di S. Martino, ) decidono che “a spese del nostro Tesoro, sia fatto chiudere con grosse assi il predetto portico di san Martino, facendo fare quattro porte ai quattro lati delle colonne, che stiano aperte e chiuse secondo gli orari delle porte della chiesa” . Cinque anni dopo questo decreto, nel 1455, viene deciso di pattugliare certe zone di Venezia, per impedire ai sodomiti di usarle come luoghi di incontro.

Nel 1488 un editto impone di chiudere con assi di legno anche il portico della chiesa di Santa Maria Mater Domini, per i motivi per cui si era già chiuso quello di S. Martino”. Un’ulteriore lista di luoghi da sorvegliare viene stilata in un decreto del 1496, che elenca “magazzini, bastie, scuole, tutti i portici, le case degli scaleteri, taverne, postriboli, case delle prostitute; coloro che (le pattuglie) avranno trovato nei luoghi sospetti,  li dovranno arrestare”.
Alcuni decreti del Consiglio dei X, promulgati nel medesimo secolo, annunciano che, per estirpare «abhominabile vitium sodomiae» (l’abominevole vizio della sodomia), si erano eletti due nobili per contrada. Ogni venerdì si doveva raccogliere il collegio dei deputati ad inquisire sopra i sodomiti. I medici e i barbieri, chiamati a curare qualche uomo o anche qualche femmina, avevano tre giorni per denunciare all’amministrazione le loro”confidenze amorose”. “Gli membri delle pattuglie saranno tenuti a interrogare e investigare se qualcuno gestisca luoghi pubblici o case che vengono chiamate “bastie” (taverne), nelle quali solitamente vengono commessi molti atti illeciti e disonesti, oppure se esistano frequentazioni di eta’ non conveniente, vale a dire adulti che conversano insieme a ragazzi”.
Un nuovo decreto, questa volta per sottoporre a sorveglianza anche gli scaleteri (pasticceri), “poiché siamo stati avvertiti del fatto che nella casa di molti scaleteri di questa nostra città molti giovani, ed altri di diverse età e condizioni, si ritrovano di giorno e di notte, e qui giocano e tengono taverna, e commettono molti atti disonesti. Ci sono stati famosi processi contro omosessuali o per violenza “contro natura”, come quelli contro un tale Francesco Cercato, che fu impiccato per sodomia tra le colonne della Piazzetta San Marco nel 1480, e tale Francesco Fabrizio, prete e poeta, che fu decapitato e bruciato nel 1545 per il “vizio inenarrabile”. La controriforma, cioè la risposta alla riforma di Martin Lutero (stabilita dal concilio di Trento 1570) aveva come scopo quello di “improntare una morale più severa e di spirito cristiano”. Il problema principale di Venezia , un paese di crocevia di gente che andava e veniva per tutto il Mediterraneo, la sodomia (la pratica più diffusa in Venezia) fu condannata nel concilio di Trento. In seguito a questa riforma il Senato deliberò che, in certi posti della città, fosse concesso alle Meretrici di mettere in mostra le proprie virtù per “attirare un pubblico di uomini sempre più numeroso e mantenere così ben saldi gli usi di una cultura eterosessuale”. La zona delle “Carampane”, vicino a Rialto, era una delle aree di Venezia nella quale le prostitute di Venezia erano obbligate a concentrarsi fin dal XV secolo per disposizione delle leggi sull’ordine pubblico.

Nel 1509 a Venezia vi erano 11.654 cortigiane censite (su una popolazione di 150.000 abitanti…),

Nonostante questo, l’omosessualità continuava a persistere, e soprattutto si presentava nei confronti dei giovani, potendo comportare difficoltà di socializzazione e gravi conseguenze per l’individuo, tra le quali il suicidio. Per non parlare di problematicità demografiche.

La Serenissima disapprovava l’omosessualità molto di più della prostituzione, tanto che una legge del 1482 stabiliva che chi veniva riconosciuto colpevole del peccato  di sodomia doveva essere giustiziato e poi bruciato in mezzo alle colonne della piazzetta di San Marco. Un ‘ ordinanza stabilì che le prostitute  che lavoravano nella zona di San Cassiano  (PONTE DELLE TETTE )  dovessero affacciarsi alle finestre  o stare sulle porte a seno nudo per incoraggiare i clienti e soprattutto per esortare i numerosi omosessuali del tempo all’eterosessualità. Le leggi che riguardano l’omosessualita’  erano  severissime : abominandum vitium…eradicetur de civitate ( abominevole vizio….sia sradicato dalla nostra città)  tuonavano i DIECI che obbligavano i medici a denunciare chi, maschio o femmina , si  facesse curare per essere “in parte posteriore confractum” (lacerato nella parte posteriore).

La Serenissima incoraggiava l’esibizionismo delle prostitute per combattere l’omosessualità alquanto diffusa a Venezia tra il XV e il XVI secolo, fino a diventare un problema di stato. Le influenze di sodomia conseguenti al sempre crescente arrivo di mercanti proveniente dal Medio Oriente, al vivace miscuglio di popoli e, con essi, delle rispettive abitudini culturali, provocò una sorta di campagna della Repubblica mirata alla conservazione degli usi e costumi propri di una cultura eterosessuale.
Il mestiere più antico del mondo era, quindi, non solo tollerato, ma quasi, addirittura, favorito.

N.d.R. : Ma, per doverosa e rigorosa integrazione, non posso esimermi dal ricordare che, sulle gloriose navi, mercantili e da guerra, della “Serenissima” esisteva, come mansione istituzionale, la figura del “mozzo da cul”.
Nei lunghi mesi di navigazione, come “facevano i marinai” (se lo chiedeva anche Lucio Dalla), a “soddisfare le proprie voglie” (questo, invece, se lo chiedeva Faber De Andrè)?
Riporto quanto segue:

Essere un “Recia” (orecchio)    (In altro dialetto: “ricchione”)

Ci si riferisce all’usanza di contrassegnare con un orecchino il “mozzo da culo”, giovane con tendenze omosessuali imbarcato come mozzo, al solo scopo di soddisfare le voglie dell’equipaggio…


Un qualsiasi oggetto è detto “da culo” quando…

…per la scarsa qualità, non risponde alla funzione alla quale è preposto, nello stesso modo in cui il “mozzo da culo” tutto era fuorché un vero mozzo…  Altri dicono significhi “di nessun valore”, con riferimento alle “pezze da culo” (quelle che venivano usate, prima della carta igienica).
A proposito di carta igienica, segnalo anche, per inciso, e per restare in tema marinaresco, questa altra chicca:

Essere un “Cáo da brodo”.

Essere definiti “Cao da brodo” non è proprio esaltante…
Ci si riferisce ad una corda (cáo, cioè cavo) che veniva fatta scendere dalla poppa della nave e lasciata perennemente immersa nell’acqua.  Il riferimento al brodo? … la parte sfilacciata immersa veniva utilizzata come carta igienica dall’equipaggio.

Alla luce di quanto sopra, non può destare meraviglia se la più bella gioventù maschile di Venezia, arruolata sulle Galeazze, sui Brigantini, sui Vascelli, sulle Fregate, sulle Galandrie, costretta a feroci astinenze sessuali, si dedicasse a praticare esborsi fisiologici, contro natura, con l’unico personaggio “disponibile” a bordo. Giovani che poi, ben si capisce, si assuefacevano facilmente a questo tipo di rapporti che, una volta a terra, come sulla nave, diventavano pratica abituale. I marinai erano moltissimi e il “malcostume” si diffondeva a macchia d’olio.
L’ipocrisia non comanda alla natura.

 

Numero1937.

 

Una curiosità : che cos’è la PITTIMA?

da WIKIPEDIA:

Pittima è il termine con cui in passato veniva definita, particolarmente nelle repubbliche marinare di Venezia e Genova, ma anche a Napoli, una persona pagata dai creditori per seguire costantemente i loro debitori. Era una sorta di esattore che aveva come compito quello di ricordare a costoro che dovevano saldare il debito contratto.

Il termine

La pittima poteva gridare a gran voce per mettere in imbarazzo il debitore, e il suo costante pedinamento era volto a sfiancarlo così che si decidesse a saldare il debito, la cui riscossione gli poteva fruttare una percentuale più o meno congrua.

La pittima vestiva di rosso, affinché tutti sapessero che il perseguitato dalla pittima era un debitore moroso. Questo aumentava l’imbarazzo dovuto al pedinamento della pittima.

In particolare nella Serenissima Repubblica di Venezia la figura della pittima era reclutata tra gli emarginati e i disagiati che fruivano di una sorta di assistenza sociale del Doge costituita da mense pubbliche e ostelli a loro riservati. Questi assistiti dovevano però rendersi disponibili a richiesta delle istituzioni per fare la pittima: il debitore pedinato non poteva nuocere a queste figure istituzionali pena la condanna. Il credito doveva essere difeso come il buon nome della maggiore repubblica commerciale dell’epoca.

Pittima è divenuto in seguito sinonimo di persona insistente che si lamenta sempre (ma anche, quindi, in termini speculativi, di percentuale).

In lingua veneta, la frase genericamente più utilizzata per definire pittima una persona è: “Ti xe proprio na pittima!” (Sei proprio uno che si lamenta di continuo per nulla), equivalente di “T’ê pròpio ‘na pìtima!“, in lingua genovese. Il termine è usato ugualmente in dialetto fiorentino e compare comunque tra le voci del dizionario italiano Garzanti, che ne dà la definizione di “una persona noiosa, che si lamenta in continuazione di piccole cose”.

Il dizionario Treccani ne dà lo stesso significato, dando l’etimologia (lat. tardo epithĕma, dal gr. ἐπίϑεμα, propr. «ciò che è posto sopra») e specificandone il significato originale di “impacco a scopo terapeutico”, da cui è derivato il significato di “persona fastidiosa”; viene suggerito il paragone con la parola “impiastro”.

Numero1934.

 

Dal MESSAGGERO  VENETO     del 27 Marzo2020

La peste da Costantinopoli al Friuli
cronache di un flagello manzoniano

 

La peste del 1630, conosciuta come “peste manzoniana” dopo che il grande scrittore la narrò nei “Promessi sposi”, uccise oltre un milione di persone nell’Italia settentrionale su una popolazione di 4 milioni. Ma Udine si salvò da quel flagello. Qui ci furono poche vittime e tra loro il medico Pompeo Caimo, nato in città nel 1568, famosissimo all’epoca tanto che a lui, autore del manuale “Modi di curare la febbre maligna”, il Comune si era rivolto per avere consigli e aiuto.

Visto il pericolo avanzante, Caimo era tornato in Friuli da Padova, dove insegnava all’università medicina teorica e anatomia, trasferendosi nella sua villa di Tissano, ma questo non gli salvò la vita. Vi morì il 30 novembre 1631 a causa proprio di febbre maligna, però senza tracce di peste.

Come fece Udine a mettersi al riparo da una delle epidemie più micidiali? È una storia interessante anche al giorno d’oggi mentre viviamo nella morsa di una paura antica. Per capire cosa accadde si deve rileggere una relazione tenuta nel 1890 dall’avvocato Antonio Measso davanti all’Accademia di scienze lettere e arti. Come tutte le città, Udine era provata allora da continui attacchi di peste e a ogni avvisaglia intesseva avvertimenti e notizie con le varie province e con Venezia, che comandava su questi territori. Appena sorgeva il problema, venivano nominati subito i Provveditori con poteri assoluti, anche di pena di morte contro inadempienti e diffusori dell’epidemia. L’allarme scattò nel 1628 quando un nuovo sprazzo di contagio partì da Costantinopoli estendendosi in Germania e Francia. E poi era cominciata la guerra per la contesa di Mantova e appena gli eserciti entravano in azione la peste si diffondeva in un baleno. Di fronte a tali presagi, Udine si attrezzò come poteva. «Temeva la peste – disse Measso –, si aspettava la guerra in casa, ma arrivò prima la carestia…». Altro flagello immenso questo, causato dalla scarsità del raccolto nel 1627 e 1628. La gente della campagna, affamata, cominciò a riversarsi in città dov’erano state organizzate scorte e dove vigeva un controllo ferreo sugli ingressi grazie alla cinta muraria e alle porte che rendevano obbligatori i varchi. Il Comune decise pure di riaprire il lazzaretto allestito a San Gottardo dal 1505. E una mattina tutti i poveri, esattamente 2.344, dopo un rito in duomo, sfilarono in processione verso il lazzaretto, dove a ognuno vennero dati una medaglietta di ammissione e un vestito. Nel frattempo si raddoppiò il servizio medico e si chiese aiuto a Pompeo Caimo che, dopo essersi laureato a Padova e una bellissima carriera, essendo stato medico personale di tre Papi, di Andrea Doria, di re e granduchi in giro per l’Europa, decise di accettare la proposta, anche perché la marea nera della peste stava invadendo Veneto e Lombardia.

Nonostante ogni intervento, il costo della carestia fu elevatissimo a Udine, dove morirono in 1.500 su 12 mila abitanti, ma la città riuscì almeno a difendersi dal successivo attacco della peste, altrimenti sarebbe stata la sua fine. Venezia si fece invece trovare impreparata davanti al contagio, causato da un ambasciatore giunto da Mantova. Un summit di 36 medici rassicurò il Doge e subito si scatenò l’inferno. La peste fu dichiarata vinta (dopo 44 mila morti in città) il 21 novembre 1631 e, come voto, si costruì la basilica di Santa Maria della Salute.

Quella fu l’ultima volta in cui Udine dovette cautelarsi da un attacco tanto implacabile. Se ne registrarono in seguito altri, ma le difese sanitarie ressero. Una testimonianza di quei giorni è il monumento funebre a Pompeo Caimo, alle Grazie. Il dottore lasciò i suoi 2200 libri alla Serenissima e, come annotò don Marchetti raccontandone la storia, sarebbero piaciuti anche a don Ferrante, lo stravagante erudito narrato da Manzoni, tutto preso da magie, astrologia e scienze occulte, che però non lo salvarono dalla peste. —

Numero1930.

 

Prima del Covid-19, almeno altre 13 pandemie hanno infierito negli ultimi 3000 anni. Tutte o quasi generate da zoonosi, il salto di specie fra gli animali, selvatici o da allevamento, e l’uomo attraverso successive mutazioni genetiche dei virus. Polli, anatre, suini, topi, pulci, bovini, dromedari, zibetti e pipistrelli hanno fatto da conduttori, soprattutto in Asia, e in modo particolare in Cina dove hanno sempre vissuto a stretto contatto con l’uomo. Ma quando penetravano in un piccolo villaggio della foresta i virus o i batteri si estinguevano presto. Nelle città del Medioevo europeo, sporche e sovrappopolate, diventarono invece potenti assassini. E dall’epoca dell’urbanizzazione di massa e della globalizzazione, con gli allevamenti intensivi alle porte delle metropoli e i sempre più vasti mercati di animali vivi dentro le megalopoli cinesi, hanno fatto stragi mondiali: 500 milioni o un miliardo di vittime in totale nel corso dei secoli, secondo calcoli approssimativi.

La lotta fra l’uomo e la natura

Ogni pandemia ha cambiato il corso della storia: accompagnando o provocando guerre, migrazioni, crolli di imperi, sistemi economici, poteri religiosi, persecuzioni ideologiche. «È come se da millenni – riflette Ernesto Galli della Loggia, professore di storia contemporanea – fosse in corso una interminabile lotta fra noi umani e il nostro luogo di provenienza, cioè la natura. Grazie al nostro cervello ci siamo distanziati o resi più liberi da lei e una pandemia, attraverso il contatto troppo vicino e pericoloso con alcuni animali, è il modo in cui la stessa natura cerca di rimpossessarsi di quello spazio. Anche noi poi abbiamo contribuito con l’inquinamento ambientale: pensiamo solo al ruolo che l’uomo ha avuto nello sterminio delle api… ma ricordiamoci anche che nessuna pandemia è stata più forte dell’uomo».

La Spagnola, la più terribile

La più spaventosa è stata la Spagnola, pandemia del 1918-1920 (dilagata in due ondate, una primaverile e una autunnale, seguita forse negli Usa da due altre ondate minori fino al 1925). Esplosa alla fine della Grande Guerra, quando le popolazioni erano più debilitate e le truppe si muovevano da un continente all’altro, e trasmessa attraverso uccelli o suini dal virus H1N1. Ha ucciso fra i 50 e 100 milioni di persone nel mondo, molto di più delle vittime della stessa Grande Guerra. Arrivò fino ai confini del globo abitato, sull’Artico. Fu chiamata così perché ne parlarono per primi i giornali spagnoli e quelli americani – forse ancora influenzati dalla censura militare – preferirono evitare l’onta sul loro Paese. Perché, pare, la pandemia arrivò negli Usa con i soldati americani di ritorno dall’Europa. Non si conoscevano cure, se non rimedi empirici contro la febbre e la mascherina facciale o l’isolamento: tutto inutile o quasi. Solo nel 1938 il virologo Thomas Francis riuscì ad isolare il virus e a provare l’esistenza di altri virus influenzali, ma la strada verso il vaccino era ancora lunga e le cause dell’estinzione della pandemia sono ancor or oggi tema di dibattito.

Le conseguenze

La Spagnola provocò un terremoto demografico e migratorio: molti lasciarono le proprie nazioni alla ricerca di Paesi «sani», che però non c’erano, e colpì soprattutto giovani e adulti sani che, nella normale vita civile producendo, vendendo e comprando merci, erano la spina dorsale del sistema economico. La pandemia provocò ovunque la crisi della domanda e dell’offerta, della produzione e del consumo: un vero choc per qualsiasi Paese anche economicamente sano (anche se la manodopera, diventata ricercata e rara, ottenne salari migliori). Il Pil dell’Europa occidentale calò del 7,5%. Tutto questo non poteva non avere effetti destabilizzanti sui sistemi politici e sociali interni. La repubblica di Weimar, grande «bolla» di vuoto politico e incertezza economica, nasce in Germania nel novembre 1918, in coincidenza con la fine della Grande Guerra e l’inizio destabilizzante della Spagnola. E il vuoto di Weimar preparerà l’arrivo di Hitler. Secondo alcuni storici la Spagnola, che coinvolse tutta l’Europa e gli Usa, è alla fine una delle concause indirette anche della Seconda Guerra Mondiale.

L’influenza asiatica e la Sars

Nell’ultimo secolo, un’altra epidemia trasmessa da uccelli (anatre selvatiche dalla Cina) è stata l’influenza asiatica del 1956, provocata da un virus sottotipo dell’H1N1. Durò due anni e fece 1 milione di vittime nel mondo, ma diluita nel tempo non ebbe grandi conseguenze sul boom economico in corso. Nel 2003 arriva la Sars (prima epidemia da coronavirus del ventunesimo secolo), molto contagiosa ma poco letale (8200 vittime nel mondo). Fu portata dalle anatre selvatiche del Guangdong (l’antica provincia cinese meridionale di Canton) e il virus fu identificato dal medico italiano Carlo Urbani, che ne rimase vittima. Ma le pandemie dei millenni precedenti fecero ben altre stragi.

La peste nei secoli

Anni 430-426 a.C.Peste ateniese, 70-100 mila vittime durante la guerra con Sparta, politicamente importante anche perché vi muore Pericle, leader dell’egemonia ateniese. Nel 2005, nel Dna estratto dai denti di uno scheletro sepolto in un cimiltero militare dell’epoca, viene isolato un batterio di febbre tifodea. E si pensa a questo, o a un antenato del virus Ebola, come origine della pandemia.
Anni dal 130 d.C in poi, Peste antonina, con 5-10 milioni vittime, forse vaiolo o morbillo portato a Roma dalle Legioni dopo la campagna contro i Parti, per alcuni storici segna l’inizio della fine politica e militare dell’Impero. Vi muore l’imperatore Lucio Vero.

Anni 541-542 e poi a ondate fino al 750: Peste Giustinianea. L’origine è il batterio Yersina Pestis dei ratti, co-fattore la paurosa densità abitativa di Costantinopoli. Sono in totale fra i 50 e 100 milioni i morti stimati in totale. Percorso storico: Giustiniano, ultimo imperatore di lingua latina, vince la campagna contro i Vandali e poi cerca di strappare l’Italia ai Goti. Ma in un porto lungo il Nilo i suoi soldati vengono a contatto con una barca proveniente dall’Etiopia e carica anche di ratti: contagio inevitabile, portato poi anche a Costantinopoli – che allora aveva 500.000 abitanti – e in Italia dai legionari che tornano in patria. È considerata da alcuni storici la causa della fine dell’impero d’Oriente.
La Peste nera

Dal 1346 al 1353 e poi a ondate successive che seguono le invasioni dell’Orda d’Oro tartaro-mongola, lungo la via della Seta arriva la Peste Nera, sempre portata dalle pulci dei ratti. All’assedio di Caffa mongoli e cristiani si lanciano a vicenda i cadaveri degli appestati. La piaga colpisce popolazioni europee già defedate dalle carestie iniziate nel 1315 dopo una serie di alluvioni. Vittime mai calcolate con precisione, dai 25 ai 100 milioni. Cambia il mondo agricolo del Medioevo, alcuni storici scrivono di «fine dell’antichità«. «Se devo morire fra poco, perché andare nei campi?» è il ragionamento che spinge molti agricoltori ad abbandonare le terre, che presto diventano deserti. Ma chi sopravvive, immunizzato e trasferito nelle città, vivrà meglio: diventerà manodopera ricercata e più pagata di prima, mentre la scarsità di braccia fa crescere ovunque l’innovazione tecnico-meccanica, come la stampa e le armi da fuoco. Con meno soldati in campo, ai re e signori occorrono più armi.
La Peste Nera porta anche i pogrom antisemiti, i peggiori fino ai tempi della Shoa, con gli ebrei accusati come untori. Nel 1348 una bolla di papa Clemente VII vieta di «ascrivere agli ebrei delitti immaginari». Ma la piaga colpisce anche il prestigio della Chiesa: quella «vita e salute» chiesta nelle sue preghiere e processioni, non arriva. E si prepara indirettamente il clima morale e ideologico per l’avvento della Riforma (1517: Lutero affigge le sue tesi a Wittenberg).

La Peste nera ha avuto anche riflessi sull’arte e letteratura e l’arte: il Decamerone, il blocco della costruzione del Duomo di Siena, la diffusione delle «danze macabre» nella pittura medievale, influenzò la pittura fiamminga con le ossessioni nei quadri di Bosch, «Il trionfo della morte» di Peter Brueghel il Vecchio. E poi il capolavoro cinematografico di Bergman: «il settimo sigillo».
1629-1630: la Peste manzoniana

Durò due anni e non si può definire pandemia perché fu circoscritta soprattutto nel nord Italia. Arriva probabilmente dal passaggio degli eserciti (lanzichenecchi) che dormivano nei fienili e si presero le pulci dei ratti. Conseguenze: più di un milione di morti, destabilizzazione sociale, carestie, campagne abbandonate, rivolte rurali, guerre sociali e civili in Italia.

Come sarà il mondo dopo il Covid- 19

Negli ultimi 100 anni, la scienza ha accertato senza più dubbi l’origine zoonotica di varie pandemie (anche fuori dalla Cina: lo scimpanzé dei Laghi, in Africa, morsicando un essere umano avrebbe trasmesso nel 1980 il virus dell’HIV-Aids, circa 36 milioni di vittime nel mondo). La ricerca insegue nuovi vaccini, ma tremila anni dopo i coronavirus e i loro «parenti» arrivano lo stesso. Come cambierà il nostro mondo con il Covid-19 è ancora da scrivere. Sappiamo solo che non sarà più lo stesso.