Numero2066.

 

SEGNALATA DA UNA CARA AMICA

 

A L C U N E   R I S P O S T E   D E L L A   F I L O S O F I A.

 

Nietzsche e Freud: la cultura come istanza repressiva.

Qual è uno dei principali compiti della cultura? Quello di trasmettere al singolo, attraverso le diverse agenzie di socializzazione come la famiglia e la scuola, un insieme di valori socialmente condivisi.

La critica Nitzscheana alla civiltà occidentale.

Friedrich Nietzsche, fin dalle sue prime opere, mette in discussione il modello culturale che si impone nel mondo occidentale da Socrate in poi, ossia un ideale di vita basato sul controllo delle passioni: vivere da uomini significa vivere secondo ragione, sopprimendo le componenti istintive dell’uomo.
Nella visione nietzscheana, Socrate tentava di offrire un ausilio all’uomo, elaborando un modo per arginare il caos dell’esistenza. Tuttavia, agendo così, non ha fatto altro che spingere l’individuo a rinunciare alla parte più vitale di sé, che Nietzsche chiama “spirito dionisiaco”, ridimensionandola drasticamente.
La cultura, in questa prospettiva, risulta essere un’istanza repressiva, poiché limita il comportamento delle persone e impedisce loro di vivere una vita autentica.
Il filosofo tedesco ritiene, quindi, necessario opporsi a questo aspetto della nostra civiltà, dicendo “sì alla vita” e rivalutando la dimensione spontanea e pulsionale dell’uomo, che è stata sacrificata.

La concezione freudiana della cultura.

L’indagine di Sigmund Freud prosegue sul percorso tracciato da Nietzsche. Il padre della psicoanalisi, analizzando il complesso rapporto tra cultura (che egli chiama civiltà) e la componente istintuale dell’uomo – l’Es, formato da pulsioni sessuali e aggressive – giunge alla conclusione che quest’ultima ne risulta repressa e soffocata. Anche quando questo condizionamento è soltanto parziale, la società detta le modalità, i tempi e i mezzi attraverso i quali è possibile, per l’uomo, ottenere delle gratificazioni. Ad esempio, la morale dominante non vieta l’attività sessuale, ma stabilisce in quali termini tale attività è socialmente consentita, come nell’ambito di una stabile relazione di coppia.
Per Freud, la cultura implica alcuni meccanismi di controllo, che hanno la finalità di portare l’individuo all’adesione a determinati modelli sociali e all’acquisizione del senso di appartenenza ad un gruppo.

Popper: la società aperta al pluralismo.

La critica di Popper a Platone.

Karl Popper, nell’opera La società aperta e i suoi nemici, rifiuta la prospettiva di una società organizzata secondo norme di comportamento rigide e vincolanti, e difende il principio liberale di una società “aperta al maggior numero possibile di idee e ideali differenti e, magari, contrastanti”. Egli rivolge la sua critica a filosofi come Platone, colpevole, a suo parere, di aver teorizzato, nella Repubblica, uno Stato totalitario che vuole organizzare, in tutto e per tutto, la vita dei singoli. Il filosofo viennese contesta lo Stato perfetto e immutabile di Platone, e si dimostra favorevole ad una società fondata su istituzioni democratiche, che abbia la possibilità di correggersi e di migliorare. Infatti, dal suo punto di vista, una società perfetta è impossibile, perché l’uomo stesso è imperfetto per natura.
Tuttavia, nella sua polemica verso Platone, Popper trascura un aspetto importante, ossia il fatto che il filosofo greco parli di uno Stato ideale, di un paradigma. Il significato di un’utopia, come quella della repubblica platonica, è di offrire un modello a cui tendere e, a ben vedere, è proprio la tensione verso una società migliore a spingere l’uomo a riconsiderare il proprio sistema di valori.

La salvaguardia della libertà dell’individuo.

Per quale motivo, quindi, dovremmo preferire una società aperta a ogni possibile cambiamento, anche negativo, rispetto ad una società stabile ed ordinata?
La risposta di Popper è che il bene più grande consiste nella salvaguardia della libertà individuale. Il problema delle società avanzate è proprio quello di evitare che lo Stato, intervenendo eccessivamente nella vita sociale, metta a repentaglio la libertà dei singoli.
Una società chiusa come quella ipotizzata da Platone è impermeabile ad ogni novità e, di conseguenza, non è in grado di tollerare i mutamenti, pena la dissoluzione del sistema.
Una società aperta, al contrario, è in grado di assorbire il cambiamento e di accogliere le istanze di chi vuole farsi promotore di una trasformazione sociale.

N.d.R. Gli argomenti sopra trattati sono di stringente attualità. In questi ultimi tempi di CORONAVIRUS ne stiamo avendo la prova nelle cronache quotidiane.

Numero2001.

 

D A   Q U I    I N I Z I A   I L    T E R Z O   M I L L E N N I O

 

N.d.R.   Dopo aver dedicato a mio figlio il Numero2000. di questa raccolta, a titolo del tutto personale, ho preparato, per inaugurare il “terzo millennio” della raccolta stessa, una pubblica edizione dei miei pensieri e sentimenti riguardo al nostro paese.

Quello che leggerete, qui di seguito, potrebbe apparire come la bozza del manifesto di un movimento o di un soggetto politico. Niente di tutto questo. No, no, e poi no. Questo è, e vuole essere, invece, solo una esternazione personale, uno sfogo autoconsolatorio, insomma, coma fa un bambino quando si succhia un dito. Mi parlo addosso, più che altro, e non ho secondi fini. Per parlare forbito, questo è un “anacolùto”, una figura retorica che vuol dire “senza seguito”.

 

STAVOLTA  SCRIVO  DI  POLITICA       (Una esercitazione di buon senso).

 

Ho sempre nutrito una certa idiosincrasia per il mondo della politica, ma, quotidianamente, come tutti, sono tampinato, bombardato dai telegiornali, dai talk show, dai dibattiti da salotto e non posso evitare di essere coinvolto nel  brusio del cicalare vuoto e fumoso di questo rituale pecoreccio.
Pur schivandole con risolutezza, ho, tuttavia, sempre seguito, da lontano, le vicende politiche di questo dopoguerra, perché è normale che ti interessi dei tuoi interessi: le scelte di campo, gli accadimenti storici, i mutamenti sociali, le ricadute economiche e gli adeguamenti alle vicende della vita richiedono una presenza conoscitiva costante e aggiornata, se non vuoi essere relegato a gestire, semplicemente da succube, l’inevitabile.
Dopo gli anni della giovinezza, quando gli interessi erano, magari, altri e diversi, dal periodo della maturità e della piena consapevolezza in poi, io mi sono identificato e collocato, anche e soprattutto attraverso il voto, nel “partito” che, da solo, senza coalizioni, è risultato sempre al primo o al secondo posto in tutte le elezioni degli ultimi 20 anni: quello dei “non votanti”. Semplicemente perché non c’è nessun partito, in Italia, nel quale io potrei riconoscermi. Né per i valori, né per i programmi, né tanto meno, per gli uomini. Lo ribadisco, nessuno.

Attualmente, stando alle statistiche delle ultime elezioni Europee del 2019, al netto di una fisiologica percentuale di “impossibilitati” al voto, per cause di salute, di assenza per lavoro ecc., il “raggruppamento”, per non chiamarlo “partito”, di coloro che non esprimono il voto o, che lo esprimono votando scheda bianca oppure scheda da annullare, è, manifestamente e incontestabilmente, il primo in Italia.

Invito tutti coloro che, leggendo questo Numero, non si saranno annoiati, a leggere anche un corollario molto interessante di quanto appena scritto, al Numero1999. Vi si parla di schede bianche e di dissenso. Segnalo anche il Numero2023 che parla di astensionismo e disamore per la politica.

Posso anche azzardarmi a dare delle indicazioni numeriche:
Alle Europee del 2019, ha votato il 56% degli Italiani.

I primi 3 partiti hanno ottenuto queste percentuali di voti:
Lega     34,3%
PD        22,7%
M5S     17,1%.

Dal 44% che non hanno espresso il voto, togliamo, per arrotondare, il 4% degli impossibilitati a votare (gli statistici dicono che è fisiologico un 3 – 5%). Pertanto, il “raggruppamento” di coloro che non hanno dato il loro voto raggiunge il 40%. A questa percentuale va aggiunto un 2 % abbondante di schede bianche e un 1% abbondante di schede annullate per precisa intenzione del votante. Ed è, di gran lunga, il primo partito.

Stando ai sondaggi pubblicati ieri, 14 Maggio 2020, le intenzioni di voto degli Italiani interpellati, sono queste:
Lega      26,6%
PD         21,0%
M5S      16,0%.
F.d. I.     14,2%
F.I.           6,7%
Altri       15,5%

E non credo che la percentuale di coloro che andrebbero a votare, alle prossime elezioni, sarebbe più alta del 56% delle ultime Europee. Comunque, se anche fosse un 60-65%, e sono generoso, non cambierebbe nulla.
In linea di massima, anche in questo caso, e senza ombra di dubbio, il primo partito sarebbe quello dei “non votanti”.

C’è qualcuno che tiene conto di questo tipo di espressione della volontà elettorale? E della sua valenza politica?
No, nessuno. “Gli assenti hanno sempre torto”: è un ritornello che ripetete da sempre, voi, Signori dei Partiti.
Ma, ne siete proprio sicuri?
Siete sicuri che l’anomalia è il 40% che non vi vuole, che non vota nessuno di voi o, invece, non siete voi, Partiti Italiani, la vera anomalia? Tutti insieme, nessuno escluso?
Tanto per dire, con riferimento al sondaggio di cui sopra, se faccio la sommatoria delle percentuali di tutti i partiti dello schieramento politico Italiano al 14 Maggio 2020 (tutti lo possono verificare), viene fuori questo dato:
Schieramento di Governo (cosiddetto delle 4 sinistre) : 43%.
Schieramento di Centro-Destra : 48,7%.
Siete sicuri che l’anomalia non siete voi?
Quello che governa l’Italia, in questo momento politico, sociale ed economico così delicato e difficile, è un Governo di minoranza, con il benestare delle opposizioni e dei Signori della Comunità Europea. Governo guidato, per di più, da un Premier nominato, cooptato ma non eletto. Zero voti.
E rappresenterebbe l’attuale volontà della maggioranza democratica Italiana?
Alla faccia della Democrazia!

Dove sta l’anomalia?
L’anomalia è che il “Partito” nel quale si riconoscono, o potrebbero riconoscersi, circa il 40% degli Italiani, non esiste!
E, vivaddio, dovrebbe esistere. Perché questo pastrocchio, che è l’attuale mondo della politica Italiana, ci sta portando alla rovina.
Come me, c’è un 40% di Italiani che non approva e non vota nessun partito fra quelli esistenti, oggi, nell’arco costituzionale. Siamo una “Maggioranza Silenziosa” di scontenti, che potrebbero e dovrebbero farsi sentire.
Ma questo non è un proclama: è una denuncia e un “grido di dolore”, quasi risorgimentale.
Purtroppo, lascerà il tempo che trova.

 

Ma, solo per assurdo, se questo “Partito Fantasma” del 40% potesse esistere, come dovrebbe essere, quali programmi, valori e principi fondanti dovrebbe rappresentare, quali caratteri potrebbero qualificarlo come nuovo e diverso dai partiti già esistenti? E, soprattutto, ci può mai essere qualcosa che abbia un carisma di novità, un connotato fortemente distintivo, un profilo coinvolgente e credibile, nel novero dei partiti politici Italiani?
Non basta, certo, essere e dichiararsi insoddisfatti di quello che hanno fatto e stanno facendo i gestori attuali della politica Italiana, per dare a milioni di persone la garanzia di essere interpreti qualificati di una diversa stagione, di una primavera dopo un buio inverno. Disegnare, a bei colori armoniosi e gradevoli, uno spettro così variegato, come quello del ventaglio di problemi civili, sociali, culturali, economici ecc. di una nazione non è facile, né si può improvvisare.
A ciò si aggiunga il momento drammatico che sta vivendo l’Italia e il futuro a tinte fosche che si sta prospettando davanti a noi. Lo dico pensando, in particolare, ai nostri figli: quale orribile eredità stiamo propinando loro, di sacrifici e rinunce! La vergogna ricada su di noi, complici, tutti, di un misfatto storico senza precedenti e senza attenuanti, da additare all’anatema e al ludibrio delle generazioni future!

Lo ripeto ancora, per puro, assurdo esercizio accademico, cosa dovrebbe incarnare e incardinare questo, non “partito”, ma “Parto di Fantasia” del 40%?
Cercherò di snocciolare ed articolare un algoritmo teorico/applicativo, il più possibile semplice ed essenziale, seguendo le 5 famose “W” della lingua Inglese:
WHY = Perché,
WHO = Chi
WHERE = Dove,
WHEN = Quando
WHAT = Cosa.

 

WHY = Perché.

Lo ripeto, questo “Oggetto Misterioso”dovrebbe esistere perché non c’è e, purtroppo, non c’è mai stato.
Ma che cosa? Un “Partito”? Non mi piace, già, la parola stessa. “Partito” richiama e rappresenta una parte. Di che?   Del popolo più litigioso al mondo, degli Italiani.
Siamo veramente il popolo più litigioso al mondo. Per chi non lo sapesse, dico per certo che, a tutt’oggi, giacciono inevase, circa sei milioni e mezzo di denunce per liti condominiali, nei Tribunali Italiani. Senza contare le altre. Abbiamo un numero di avvocati e di legali rappresentanti, che si occupano dei nostri contenziosi, che non ha uguali al mondo.
Siamo tutti di parte, partigiani o di noi stessi (siamo individualisti fino al midollo) o di piccoli, o meno piccoli, gruppi di interesse, economico, ideologico, religioso, politico e, chi più ne ha, più ne metta.
Nel corso della nostra storia, già e ancora, nelle città medioevali esistevano le consorterie, le confraternite, le corporazioni. Il tessuto connettivo cittadino era lacerato da rivalità di borgata , di arti e mestieri, di appartenenze e sudditanze ad altri gruppi, a scalare o a salire, nella lotta per un proprio spazio vitale di interessi. Il rituale folkloristico e truculento del Palio di Siena è, a ben comprendere, una perpetuazione della contesa contradaiola, una celebrazione delle conflittualità di borgata, che perdura a tutt’oggi.
La faziosità era considerato un connotato positivo. Pensate che padre Dante, nel V° canto dell’Inferno, colloca “gli ignavi”, dei quali dice che si tratta di “coloro, che visser sanza infamia e sanza lodo”.
Da qui si può capire come la “non appartenenza”, il non schierarsi (ad esempio coi Guelfi per il Papa, o coi Ghibellini per l’Imperatore) era considerato di per sé, una colpa e, perciò, un peccato.
Come non mi piace la parola peccato, così non mi “garba”, direbbero i Toscani, la parola “partito”.
Ma, non si può partire (è un involontario gioco di parole), vivaddio, da qualcosa di più alto, di più trascendente delle piccinerie di parte, dei meschini conflitti d’interesse, delle spicciole beghe di cortile?
Qual è il concetto più elevato, la categoria più imprescindibile, a cui lo spirito umano dovrebbe ispirarsi ed aspirare?
Non so voi, ma io, consapevolmente o inconsapevolmente, ho sempre “intuito” trattarsi della “Libertà”.

Questa categoria mentale, la “Libertà”, è onnicomprensiva, pregnante, coinvolgente: in qualche modo, assoluta.
Potrebbe essere alla base, oltre che del mio pensiero, anche della comunione d’intenti di tanti uomini veri e consapevoli, ma, soprattutto, autori del proprio destino.
Della parola “Libertà” esiste un TAG in questo BLOG: vi invito a cercare quello che grandi menti hanno scritto in merito: è veramente interessante.
Raccomando, in particolare i seguenti numeri:

Numero1975   a firma di Piero Calamandrei
Numero1974                   Massimo Recalcati
Numero1640                   George Bernard Shaw
Numero1511                   Platone
Numero1227                   Ludwig Boerne
Numero1226                   Tucidide
Numero757                     Georg Wilhelm Friedrick Hegel
Numero573                     Cicerone
Numero436                     Anonimo
Numero211                     Definizione di Liberismo
Numero183                     Lenin (Vladimir Ilic Ulianov)
Numero182                     Albert Camus
Numero130                     Simone Weil
Numero105                     Fernando Antonio Nigueira  Pessoa
Numero7                         Aung San Su Kyi.

Se volete leggere una mia personalissima esternazione, che, però, non è in chiave politica, leggete il Numero285.

Dopo aver scorso queste straordinarie enunciazioni sulla “Libertà”, potrebbe rimanere ben poco di sensato da aggiungere. Io provo, senza squilli di trombe e rulli di tamburi, a suggerire il mio pensiero.

Partirei dall’aforisma di Lenin che, per me, è di un sincretismo strabiliante, oltre che un geniale ossimoro storico e ideologico, ancor più perché espresso da un tale personaggio della storia.

 

La libertà è un bene così prezioso,

così prezioso, che bisogna razionarlo.

Lenin

 

Dice Lenin che, in chiave di comune sentire, la “Libertà” potrebbe essere giusta quando è “condizionata”. Non è una formula  giudiziaria ma, in chiave politica e sociale, potrebbe rappresentare, invece, le fondamenta di un sentire universale che altri, in maniera più spicciola, hanno così definito: “La mia libertà comincia dove finisce la tua. E la tua libertà comincia dove finisce la mia”.
Sulla “Libertà” e sul diritto ad essa, ci sono pochi dubbi. Sul modo di razionarla, affinché se ne possa distribuire a tutti una quantità e una qualità sufficiente e ragionevole, qui nasce il “busillis”.
Perché, a fronte di un diritto, imprescindibile ed inalienabile, la “Libertà” appunto, si devono enunciare i doveri e gli impegni per mantenerla, conservarla e, se possibile, migliorarla.
E qui, mi viene spontanea una ironica parodia delle parole di un personaggio della storia Italiana, del quale non avrei mai pensato di occuparmi, se non come irriverente “storpiatore”: “La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti: Responsabilità.”
Della “Libertà”, l’altra faccia della stessa moneta è la “Responsabilità”.
Su questa parola e sui suoi contenuti, ideali e concreti, io rivolgerei il “focus” del programma di fattibilità.
Anzi, dirò di più: darei questo nome, “Responsabilità”, alla creatura politica (ipotetica) che potrebbe identificare l’oggetto delle mie elucubrazioni. Nominando questa parola, si potrebbe sottintendere, automaticamente, il concetto correlato e conseguente, della “Libertà”. Con questa differenza: dicendo “Libertà” si pensa sempre e solo ai diritti, mentre, dicendo “Responsabilità”, si deve pensare, soprattutto, ai doveri. E non al sesso degli angeli.
Eh, già! Lo so bene che dal punto di vista propagandistico, sarebbe di non facile attechimento: uno studio pubblicitario lo sconsiglierebbe.
Se tu parli di “Libertà”, ti riempi la bocca di quanto vi è di più appetibile nell’immaginario collettivo ed individuale delle persone, ma se parli di “Responsabilità”, fai venire in mente impegni, sacrifici, rinunce, alienazione di spazio civile, sociale, economico, e via dicendo, che possono spaventare l’uditorio.
Signori, miei, cominciamo a ribaltare, già da qui, le solite ovvietà, le discrezionalità e i distinguo, accettando consapevolmente questo fardello. Perché la situazione Italiana sta per diventare insostenibile, ingestibile, irrimediabile, se non ci carichiamo sulle spalle il peso, schiacciante, dei problemi accumulati, fino ad oggi, dai nostri sprovveduti conduttori politici, tutti compresi.
Per godere ancora di un barlume di “Libertà”, noi qui, in Italia, adesso, dobbiamo, al più presto, assumere una gravosissima, inevitabile “Responsabilità”, proprio perché la bilancia è sbilanciata. Gravemente sbilanciata.

 

Muovendo da qui, parlerei, ora, del

WHO = Chi

 

Ebbene sì, lo dico subito, a scanso di equivoci: io sto pensando a voi, donne e uomini Italiani, che potreste costituire le fila di questa formazione di “Responsabili”.
Non è questo, più, il momento di alzare le spalle, di voltarsi dall’altra parte, di dire “Me ne frego!” ( a proposito di parodie, e non di apologie). La barca sta per affondare. Tocca a voi uscire allo scoperto, se volete salvare capra e cavoli, senza abbandonare la nave, sempre per continuare con le metafore.
“Se sei un uomo di “Libertà”, perché non ti ci metti pure tu? Non è il tuo un Armiamoci e partite?” mi direte.
Se fossi più giovane lo farei, ma la mia stagione è passata. Non faccio come un certo personaggio politico, che ha interpretato, cucendoselo addosso, il ruolo di condottiero della Liberal Democrazia in Italia, ma ha finito per autosqualificarsi, con un comportamento personale censurabile e sgradevole.
Ecco, è questo un caso in cui alla “Libertà” non ha corrisposto un adeguato e corrispondente tasso di “Responsabilità”. Ora, costui, bolso narciso della politica, sta ancora recitando un ruolo di comprimario, nonostante e per colpa dell’età.
Non vuole mettersi da parte, ma fa un danno all’Italia, senza che lui se ne renda conto, perché occupa un posto dove i consensi di molti Italiani avrebbero potuto collocarsi. Non lo votano più, proprio in quanto spoetizzati, schifati e delusi dai suoi personalismi autocelebrativi. E quello spazio resta vuoto.
Ecco, per cominciare a dire “chi”, sono partito da un “chi non”.
Chi volesse arruolarsi in questa “nave dei sogni”, potrebbe avere in questo personaggio un esempio in negativo.
Infatti la corrispondenza fra le due facce della moneta è spietata e stringente: chi sbandiera “Libertà” deve dimostrare, a tutti i costi, “Responsabilità”. Sempre e comunque.
Mettendo così le condizioni di arruolamento ed appartenenza, forse in tanti potrebbero barcollare nell’incertezza.
L’atavica propensione alla ricerca dei vantaggi personali, del conflitto d’interessi, del tornaconto derivante dall’impunità, confligge, in modo stridente, con i ruoli di pubblica “Responsabilità”. Chi progetta tali esecrabili comportamenti si tenga lontano da questa affiliazione: non ha titolo per essere un uomo “libero”.
Tutti gli altri uomini, di buona volontà, sono i benvenuti a bordo.

 

Ancora più brevemente, dirò qualcosa su

 

WHEN  e  WHERE = Quando  e  Dove.

 

Per dire di “Quando”, tutti lo capiscono che la risposta è: subito.
Non c’è altro tempo da perdere, se n’è perso anche troppo. La situazione dell’Italia è drammatica. La barca va raddrizzata e il timone impugnato saldamente, perché il mare è molto grosso.

Ahi, serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello.

Dante Alighieri     canto VI del Purgatorio.

Dove donna sta per “domina”, cioè signora, padrona. Così recitava Padre Dante nell’anno 1300. Vi pare che sia cambiato qualcosa? A me sì, ma in peggio.

Per parlare del “Dove”, devo ammettere che la risposta potrebbe essere scontata: in tutta Italia, senza distinzioni.
Ma ritengo doveroso anticipare la mia convinzione che la dislocazione geografica potrebbe essere discriminante, quanto a provvedimenti attuativi. L’Italia non è tutta uguale in ogni suo territorio. I rimedi generalizzati, per un egualitarismo di scuola e di presunta convenienza politica, possono avere effetti collaterali inaspettati e controproducenti.
Sarebbe auspicabile un atteggiamento, che già si potrebbe definire “liberale”, di flessibilità e buon senso, tenendo conto delle particolarità regionali, o di macroaree, senza invocare le sclerotiche rigidità del centralismo burocratico.
Il godimento dei diritti deve essere rapportato all’osservanza dei doveri: questa, secondo me, dovrebbe essere la “barra a dritta” della rotta. Ognuno capisca quello che vuol capire, ma la “Libertà” non può essere assoluta e la “Responsabilità” relativa.

 

Tocca, infine, affrontare il tema del

WHAT = Cosa.

Cosa deve essere questa “Cosa”? Quali i suoi principi ispiratori, quali i suoi contenuti, quali i programmi di cui aspira ad essere portabandiera?
Riparto dalla “Libertà”, per dire che chi si professa propugnatore di questo archetipo mentale, si è sempre considerato con le mani legate. Infatti, non appena uno si azzardi a prendere provvedimenti contro gli abusi, le trasgressioni, i reati contro la “Libertà”, viene immediatamente additato perché, lui a sua volta, sarebbe un prevaricatore della “Libertà” altrui. La “Libertà”, signori, non è anarchia, non è mancanza di norme, assenza di regole, lassismo e superficiale buonismo.
Dice Cicerone (Numero573.): Legum servi sumus, ut liberi esse possumus, che vuol dire “Siamo schiavi delle leggi, per poter essere liberi”. Una contraddizione in termini? Macché, è il paradigma del pensiero qui espresso.
La “Libertà” che intendo io deve mantenere una gelosa custodia della assoluta e serena coesistenza di tutti, applicando una strettissima vigilanza contro qualunque attentato a tale vitale condizione.
Ma i metodi che si possono e si devono adottare per la difesa della “Libertà” collettiva, questa volta e, sia chiaro, una volta per tutte, devono essere improntati alla massima intransigenza possibile, al più inequivocabile rigore, al controllo più stringente, addirittura, se necessario, ad una feroce severità. Sì, tutti gli attentatori, a vario titolo, di questo bene così prezioso, devono essere perseguiti senza remissione, devono essere bloccati, resi inoffensivi e sanzionati con metodi, che altri possono considerare di polizia o di militarizzazione e lo diranno starnazzando come le oche del Campidoglio. Lo stato di diritto, libero e felice, è un bene collettivo che va difeso a tutti i costi e con qualunque mezzo. A costo, anche, di essere illiberali. La “libertà” che difende se stessa non mai è illiberale.
Niente ricorso a sistemi dittatoriali, ma l’impegno di questa “Responsabilità” deve essere questo: forte, anzi, fortissimo con i prepotenti e indulgente, generoso e umanitario con i deboli, i bisognosi, gli emarginati. Togliere a quelli, per dare a quest’ultimi, come Robin Hood.
Chi sarebbero, allora, i prepotenti, i nemici da combattere, da tenere lontani, impedendo loro di nuocere?
Innanzitutto le Mafie, di tutte le specie, di tutte le organizzazioni e non solo. Anche la mentalità mafiosa, fatta di corruzione, di connivenze, di collusioni, di omertà, di sudditanza complice. È questo un cancro che si sta allargando con una metastasi sociale senza confini, erodendo spazio di libertà, di sicurezza, di serena convivenza. Il malaffare sta diventando il più proficuo e pericoloso investimento economico in Italia. Bisogna saperlo affrontare con la massima determinazione. E, a mali estremi, estremi rimedi, bisogna poter ricorre a misure e metodi eccezionali, senza remore, esitazioni, incertezze.
Le regioni che, atavicamente ed anche a tutt’oggi, sono state e sono pervase da questo “sistema” sociale malavitoso, con ogni singolo cittadino onesto, capace, volenteroso devono partecipare a questo riscatto e alla riconversione alla legalità delle loro terre. Lo stato, con i suoi responsabili Dirigenti, deve far sentire il fiato sul collo ai malviventi, deve far percepire la sua presenza e il suo sostegno alla popolazione, e la propria determinata presenza deve essere incessante, puntuale, efficace nel perseguire rigorosamente ogni manifestazione malavitosa.
E, come segnale e monito esemplare e risarcitorio, i mafiosi condannati e imprigionati, a spese della collettività, vengano messi al lavoro per costruire altre carceri che ospiteranno loro e i loro simili, con un regime carcerario di eccezionale severità, senza sconti, senza abbuoni di pena, senza remissione. Perché doppio è il danno procurato ai cittadini onesti che pagano le tasse: prima con le azioni mafiose, che hanno sottratto, a loro, pace e denaro, poi con il mantenimento in carcere, dove c’è un ulteriore esborso di denaro pubblico. I regimi attuali di carcerazione sono uno spreco di denaro che una nazione come l’Italia, nelle condizioni in cui si trova, non può permettersi.
È necessario instaurare la logica della prevenzione, anziché organizzare sempre costosi rimedi e riparazioni sanzionatorie.

La coda del ragionamento precedente si aggancia, inevitabilmente, alle altre forme di spreco che l’Italia, come paese civile, non può permettersi. Intendo riferirmi a tutte le forme di parassitismo.
Tanto per cominciare con un argomento forte, dico che nei connotati della “Responsabilità” ci deve essere la sua “laicità”.
L’Italia deve diventare, finalmente, uno stato laico a tutti gli effetti. Deve essere denunciato quel papocchio che va sotto il nome di Concordato. Anche a costo di modificare la Costituzione. Devono essere cancellate tutte le forme di privilegi che, fino ad oggi, hanno favorito il Clero, i Vescovi, lo Stato Vaticano. Le Istituzione Ecclesiastiche siano tenute a pagare le tasse come tutti gli altri cittadini e la loro esistenza e sopravvivenza sia a carico delle donazioni, a titolo personale e volontario, dei fedeli che vogliono mantenerle. Trovino loro le formule più convincenti per raccogliere fondi. Ora come ora, tutti i cittadini Italiani, credenti o no, osservanti o meno, devono pagare le tasse per mantenere la Casta religiosa. È questo un altro lusso che gli Italiani non possono più permettersi: sono forme di parassitismo di Casta di un altro secolo.

Altra abitudine consolidata in Italia è l ‘erogazione di vitalizi, pensioni, reversibilità di Ex Deputati, Ex Senatori, Ex Dirigenti Statali, Grand commis, Generali, Ammiragli eccetera, che se ne vanno in pensione con emolumenti spropositati. Compreso quel sottobosco di amministratori periferici di tutte le regioni. Tutti i cosiddetti “servitori dello Stato” che vanno in pensione non devono superare una ragionevole cifra, che permetta loro, di campare dignitosamente, ma che, attualmente invece, rappresenta una inspiegabile ed inaccettabile elargizione di denaro pubblico, a nessun titolo.

Ho qualcosa da dire anche sulle Forze Armate. A me pare che siano diventate, anch’esse, un pozzo senza fondo di sprechi. Rendiamoci conto che la difesa dei confini nazionali è un compito fasullo: non ce n’è bisogno.
E, prima che questa ovvietà emergesse agli occhi di tutti, i Governi e gli organi dirigenti delle Forze Armate si sono inventati un altro compito e impegno di spesa, che francamente, non è per nulla necessario, ma è, invece, estremamente oneroso. Tanto per mantenere in piedi il carrozzone del Grande Circo dello Spreco. Parlo delle missioni all’estero, di istruzione, di “Peace keeping”( mantenimento della pace), e quant’altro, che noi, nelle nostre condizioni di indebitamento, non possiamo più supportare e sopportare finanziariamente. Ci vuole un drastico ridimensionamento dell’organico dell’Esercito Italiano: deve essere ridotto al minimo indispensabile e i pensionamenti degli alti graduati devono rispettare le nuove regole e i nuovi livelli che questo povero paese deve adottare. Perché siamo pieni di debiti: non possiamo continuare a sprecare per mantenere un prestigio fantomatico. Inoltre ritengo doveroso che le Forze Armate, anziché sprecare denaro pubblico all’estero, vengano impiegate molto più spesso in interventi di esigenze civili, paesaggistiche, di manutenzione del suolo pubblico e via dicendo.
Gli esuberi, che dall’Esercito verranno eliminati, potranno essere riconvertiti in Forze dell’ordine, e fra le più qualificate. Sono ben addestrati nell’uso delle armi, sono tenuti in forma da addestramenti specifici. Potranno costituire un sistema di contrasto alle forme di criminalità più pericolose per la popolazione, specialmente per la delinquenza comune più violenta e odiosa, che tiene in apprensione le gente persino nelle proprie case.
Non ha senso esercitarsi nell’uso di armi che non serviranno mai. Tanto le guerre, oggi si fanno con ben altre armi: quelle economiche, quelle finanziarie, quelle commerciali, con gli incendi, con l’inquinamento delle acque e dell’aria, con i virus…..
I nemici sono i terroristi, gli anarchici, i fondamentalisti religiosi o ideologici. Si faccia la guerra a questi, ma la si faccia sul serio. Aggiorniamo l’Esercito alle moderne forme di guerra e guerriglia che provocano danni spaventosi alla comunità, formando degli specialisti e non teniamo in piedi un militarismo novecentesco di facciata e da….parata. Costoso e inutile.

Tocca parlare, adesso dell’immigrazione.
Con una apposita legge dello Stato, da approvare di anno in anno, venga stabilito dal Governo un numero preciso di persone straniere che possano venire e rimanere nel nostro paese per lavorare. Questo numero sarà segnalato da una Commissione che valuterà tutti i parametri compatibili con le nostre esigenze d’impiego lavorativo, e non altro, per non suscitare polemiche e rimostranze. Verrà stabilito un elenco delle professionalità di cui il nostro paese ha bisogno (forse molte, magari nessuna) e saranno accolti, nel nostro paese, solo coloro che vanno ad esaurire questa lista. Non uno di più. Alle navi che salvano i migranti in mare e agli stessi migranti, diciamo che è giusto salvare le vite in pericolo, ma questa non è una ragione sufficiente per garantire una ospitalità che un paese povero come il nostro non può permettersi. Il nostro paese sarà pure un porto sicuro, ma sapete che c’è di nuovo? C’è che è diventato un paese povero. Pertanto, dopo avere accolto un emigrante che stava per annegare, gli faremo sapere di trovarsi un’altra destinazione fuori dai confini Italiani. Anche a coloro che sono profughi di guerre nei loro paesi, perché una legge dello Stato li considera clandestini comunque. Anche noi siamo in guerra. Con i debiti, con il malgoverno, con la burocrazia, con la miseria dilagante, con le Mafie, con la mancanza di lavoro. La nostra umanità si ferma all’accoglienza in stato di necessità, non è disponibile a presenze non necessarie, perciò indesiderate. Non possiamo accogliere persone indigenti da ospitare e, contemporaneamente, lasciare emigrare giovani laureati o diplomati volenterosi, solo perché da noi non trovano lavoro. Ma secondo quale logica?
È un altro dei lussi che non ci possiamo più permettere.

L’ho appena nominata e mi tocca di parlarne, purtroppo, diffusamente. La burocrazia.
Lo avrete ormai capito, il filo conduttore di questo ipotetico “Programma” di “Responsabilità”, è la lotta agli sprechi e la serietà rigorosa. Questi sprechi, nella Pubblica Amministrazione (P.A.) Italiana di oggi, sono, da tempo, una prassi deprecabile e insostenibile.
Si sono detti e fatti molti tentativi, si sono scritti volumi e stilati programmi di riforma della P.A. ad ogni piè sospinto, ad ogni insediamento di Governo. Non c’è nulla da fare. Il cancro dell’inefficienza ha pervaso, con la sua metastasi, tutto il tessuto connettivo delle ramificazioni amministrative, raggiungendo anche isole felici di gente seria, ben motivata, capace ed efficiente.
Attraverso la ragnatela vessatoria, attraverso la pece vischiosa, attraverso i muri di gomma, attraverso i cavilli, i lacci e lacciuoli, attraverso la scarsissima applicazione, attraverso un attaccamento pervicace alla prestazione sotto il minimo livello tollerabile, attraverso le assenze dal posto di lavoro nello stesso giorno, e attraverso un assenteismo di comodo altissimo nell’arco di un anno, sta in piedi, dal dopoguerra fino ad oggi, un elefantiaco carrozzone, un mostro di incapacità a risolvere i problemi degli Italiani che lavorano e vivono da cittadini.
I tempi di lavoro e il “problem solving” (capacità di risolvere i problemi) degli Italiani, imprenditori, professionisti, lavoratori in proprio, e anche dei singoli cittadini alle prese con le normali attività quotidiane, sono molto più pressanti, urgenti e stressanti di quelli di questa categoria che, senza ombra di dubbio, si può considerare la più parassitaria di tutte. Lavora, quasi esclusivamente, per mantenere se stessa. È autoreferenziale.
Non valgono le innovazioni tecnologiche, l’eliminazione della circolazione dei documenti cartacei e delle archiviazioni in faldoni fatiscenti. Produrre un documento, in un ufficio pubblico, oggi potrebbe richiedere due o tre click ed una stampata. Invece, in proporzione a quando si lavorava a mano, i tempi sono addirittura aumentati. Le code in attesa si sono allungate, tutto è farraginoso, lumacoso, indisponente. L’insoddisfazione degli utenti è palese, indispettita, isterica. Non se ne può più.

Eh, bravo, sfondo porte aperte; faccio anch’io come i Ministri, che si limitano ad elencare le cose che non vanno, dimenticandosi che loro sono lì, appositamente, per evitare che ciò accada.
Sì, signori Ministri, il vostro compito non è snocciolare le statistiche di ciò che è accaduto fino ad oggi, dovete darvi da fare affinché gli errori non si facciano più.
Voi non dovete limitarvi ad elencare i problemi, voi dovete risolverli.

La P.A. non può cambiare mai, se non si dà una scossa violenta all’interno, ad abitudini inveterate, a comportamenti dilatori, a mentalità del tipo “fin che la pende, la rende”, anziché del tipo “fare presto e bene”.
Bisogna introdurre i tempi e i metodi delle aziende produttive, commerciali e dei servizi che sono sul mercato, stimolate, pressate continuamente dalla concorrenza, consapevoli che se la loro efficienza non è sempre al top, il loro destino sul mercato, anche del lavoro, ha ben poco futuro. E il licenziamento non è un optional, è sicuro.
Perché, nella P.A. non si sono mai applicate le regole della prestazione lavorativa privata? Perché le ore lavorative non sono 8, come tutti gli altri, bensì 6? Perché, nonostante il rendimento produttivo bassissimo, il trattamento economico è addirittura superiore? Perché, infine, nella P.A., i giorni di ferie sono 36 in un anno, mentre, ad esempio, nel turismo e nei pubblici esercizi, le ferie sono 26 giorni all’anno; nel settore commercio, sono 176 ore  (176 : 8 = 22 giorni) e, nel settore produttivo, sono 4 settimane + 2 giorni?
E, soprattutto, perché nella P.A. non si licenzia? Mai, o quasi mai?
Questo è un lusso, uno spreco mastodontico che non si può più sostenere. Qui stiamo veramente spendendo troppo per avere troppo poco. Pensate davvero che possiamo andare avanti così, perché così si è sempre fatto?
Il nostro paese si è impoverito a vista d’occhio, si è indebitato in maniera irrecuperabile, vogliamo, lo stesso, tenere in vita una macchina mangiasoldi ed inefficiente come l’attuale P.A.?
Se qualcuno vuole rodersi il fegato per la rabbia, consulti il Numero2006, dove riporto i trattamenti economici dei dipendenti di Camera e Senato. E nessuno dice e fa niente. Si difendono dicendo che sono diritti acquisiti.
Senza guardare in faccia nessuno, tutte queste regole, ancestrali e consolidate, vanno cambiate. A costo dell’impopolarità, degli scioperi, delle imprecazioni. Il licenziamento per i nullafacenti, per i furbetti del cartellino, per gli stakanovisti dell’ostruzionismo e così via, va introdotto e soprattutto applicato, per giustizia sociale e per parità costituzionale; le equiparazioni di stipendio e di orario devono essere operativi per decreto, altrimenti fra poco, le piazze saranno piene di tanti, troppi dimostranti che protesteranno contro questi privilegi di casta. A protestare saranno quei lavoratori che sono stati licenziati, perché le loro fabbriche, le loro attività sono fallite, anche per l’inefficienza della P.A.
Nella P.A. i prossimi assunti, se ce ne saranno, dovranno essere di provata capacità e buona volontà, non cooptati con raccomandazioni o con concorsi e valutazioni, che dovrebbero essere apparentemente obiettive, mentre sono manipolate per sotto o con punteggi fasulli e lauree comprate, oppure valutate scandalosamente ai fini concorsuali. Basta con le pratiche che portano personaggi impreparati, incapaci, senza voglia di lavorare, a fornire un servizio scadente, lento, ostruttivo, a decine di milioni di cittadini volenterosi di sgobbare per farsi un futuro.  Non si scherza con i programmi di vita e i sogni della gente.
La P.A. è, e deve essere, al servizio dei cittadini. E non ci devono essere cittadini in coda ad aspettare le comodità degli addetti ai lavori. Basta con questa vergogna! E mi scuso solamente con quei bravi dipendenti statali, e ce ne sono, che hanno sempre fatto al meglio il loro lavoro. Mi scuso, mi complimento con loro, ma non li ringrazio.
Perché hanno fatto il loro dovere.
Devo, però, spendere una parola riguardo all’attuale situazione politico-sociale, adoperando i termini che si riferiscono all’esistente, anche se mi ripugna farlo.
Tutte le teorie politiche e sociali sono belle e buone a dirsi e molto meno a farsi. La loro applicazione ha a che fare con gli uomini e questi non sono tutti uguali, anche se la teoria o l’ideologia lo vorrebbe. Ora, tutte le stagioni di governo di questo paese, di destra o di sinistra, per adoperare definizioni che io aborro, non sono mai riuscite a far funzionare la macchina della amministrazione statale. I Governi di sinistra, per eccessiva condiscendenza, per prostituzione elettoralistica, o per generale lassismo; i Governi di destra perché hanno suscitato le reazioni conservative, l’ostruzionismo, addirittura, il voluto peggioramento delle prestazioni, a causa di un controllo più stringente.
Non mi interessa, se rischio di sollevare, contestazioni e polemiche, ma voglio dirlo fuori dai denti, per onestà intellettuale e civile, come evidenza obiettivamente riscontrabile. Il centralismo, lo statalismo, tanto caro alle teorie di sinistra, messo in opera, con le prestazioni delle categorie di persone addette ai lavori, che ci troviamo in organico, e che vengono avvicendate da altre della stessa provenienza e specie, costituiscono una camicia di forza asfissiante per l’intero paese. Tutta l’energia imprenditoriale, la buona volontà, la fantasia di un popolo che vuole fare e darsi da fare viene frenata, ostacolata, vilipesa da questa palude stagnante, da questo vischio levantino di una casta, il cui operato non è assolutamente in linea con il desiderio, anzi, il bisogno di intraprendere del resto dell’Italia. Loro vanno a 10 km all’ora, il resto dell’Italia che lavora va a 70 Km all’ora, ma potrebbe e dovrebbe andare a 100 km all’ora, per stare al passo dell’efficienza, dei costi, della rapidità  produttiva, espansiva nei mercati, di tanti altri paesi concorrenti. L’Italia è come una Ferrari: esteticamente bella, dicono tutti che è il più bel paese al mondo, dotata di un motore potente, brillante, scattante, ma con il freno a mano tirato. Questo freno a mano è la burocrazia statale centralistica, inefficiente, per nulla produttiva, autoreferenziale e molto costosa.
Il centralismo sinistrorso, applicato e messo in pratica con l’inefficienza e lo scarsissimo rendimento di addetti ai lavori di ben nota provenienza, costituisce una miscela esplosiva distruttiva, i cui effetti si perpetuano da più di settant’anni.
Questo andazzo di cose deve finire, e al più presto.

Ma di quanti altri problemi, ancora, potrei parlare? Di cose che non vanno, in questo martoriato paese?
Voglio dire qualcosa su un argomento che mi sta molto a cuore e, proprio per questo, mi fa particolarmente male.
La scuola e la cultura, in Italia, stanno arrivando alla catastrofe.
Gli studenti Italiani, se non sono ultimi, poco ci manca nella classifica Europea della preparazione scolastica: nella comprensione di un testo è un disastro; nelle conoscenze tecnico scientifiche ancora peggio, nelle scienze matematiche è una Caporetto. Ma dove è finito il genio Italiano? I Fermi, i Marconi, i Majorana, i Segre, i Dulbecco, i Natta, i Rubbia, le Levi Montalcini; e i grandi poeti e scrittori del ‘900:  Pirandello, Montale, Quasimodo, e loro epigoni?
Ma dove sono finiti quei milioni d’Italiani che sapevano parlare, scrivere ed esprimersi correttamente? Erano la norma.
Raccontano dei dirigenti del personale di grosse aziende Italiane, che si presentano da loro, nei colloqui di assunzione, dei laureati che non sanno né leggere né scrivere, non sanno le lingue. Insomma sono sprovveduti di tutto quel bagaglio di comune cultura scolastica che, una volta, era normale per capirsi, per comunicare. Si capiva che il tuo interlocutore ti capiva. Adesso? Boh! Mi sembra che quando dici una parola strana, ti guardano con atteggiamento interrogativo, quasi inquisitorio: “Ma cosa sta dicendo?”, vorrebbero dirti. Non ci capiamo più.
Mi chiedo se è colpa nostra o loro.
Qui c’è molto da fare, ma deve passare una generazione di stenti. Devono capire i nostri giovani, che noi, ai nostri tempi, invece di andare alla “movida”, studiavamo come matti per conquistare un posto al sole. Questo, loro, non lo stanno facendo. Si accorgeranno, ben presto, che avranno perso il treno. E che non c’è nessuna laurea in “Happy Hour” e in “Aperitivo”.
Deve passare il messaggio che, chi non è preparato, chi non sa, chi non ha cultura non andrà da nessuna parte.
Oggi, chi si applica, sgomita, passa le nottate a studiare, chi vuole informarsi per formarsi, è guardato male, non è oggetto, come un tempo, di invidia, di ammirazione. Al contrario, raccoglie sberleffi e compatimento.
Ma non ci saranno aiuti per gli incapaci, per gli svogliati, per gli scansafatiche. Se un giovane non ha l’orgoglio di aspirare e accedere ad un posto di lavoro che gli permetta di vivere decorosamente, non potrà sperare nell’assistenzialismo.  E tu, Stato, come un buon padre di famiglia, non regalare a tuo figlio il pesce, regalagli la canna da pesca. Un paese povero non può darglielo. Ma dobbiamo farlo capire noi, padri e nonni. È questo il buonsenso.
E devono farlo capire anche gli insegnanti che, ahimè, sono essi stessi, impreparati e carenti di quel carisma didattico che può far innamorare un giovane della cultura. Ci sono alcuni insegnanti, ma molto pochi, che la cultura l’hanno nel sangue ed hanno anche amore per la loro missione, ma la grande maggioranza ha una preparazione largamente sotto la media: sono impreparati, inadeguati e i risultati si vedono. Sono quelli che ho esposto qui sopra.
Quindi, il target di questo comparto della sfera sociale Italiana è: riappropriarsi della cultura, complessivamente, e in particolare, di quella tecnico scientifica. Abbiamo buone eccezioni, le abbiamo sempre avute, ma non devono rimanere tali. Abbiamo bisogno di cultura diffusa anche per la sensibilità e la creatività artistica che mai ci è mancata. Un popolo colto vive meglio, ciascuno per sé e anche per gli altri. Rendiamoci la vita migliore, ma con il nostro impegno personale.

 

Qualcosa vorrei dire anche a proposito di giustizia.
Anche questo è un tasto dolente, anzi lacerante, del Servizio Pubblico Italiano. Tutti sappiamo cosa vuol dire varcare la soglia di un Tribunale, magari qualcuno non l’ha mai fatto e non ne ha idea, ma i tempi biblici dei processi sono noti a tutti e non è una situazione allegra. Anzi, vivere con il patema d’animo di un processo da subire, da celebrare, di una sentenza da emettere, con quel che avviene prima e dopo, ebbene ti segna la vita.
Ma, voglio essere chiaro su un punto: il buonismo, il perdonismo, gli sconti di pena, gli aggiustamenti, le abbreviazioni di comodo, le riduzioni di pena, i mercanteggiamenti, le prescrizioni, sono palliativi e annacquamenti di basso livello in un paese civile. Sono procedure da legulei, da azzeccagarbugli che io non condivido. Il mio non è giustizialismo, perché preferisco la giustizia e che la legge sia uguale per tutti e ben applicata. In particolare per una categoria di reati che attiene alle corruzioni, alle concussioni, ai peculati, agli abusi di potere, alle malversazioni e altre malefatte di questo tipo, perpetrate nell’esercizio della funzione pubblica, approfittando di coperture, reticenze, omertà della casta giudiziaria. Guai a loro. Mi batterei per raddoppiare le pene previste per questo genere di reati, che sono tra i più odiosi. E inasprirei, senza nessun ripensamento ed esitazione, tutte le pene previste per i reati di Mafia.
Per quanto riguardo la velocità dei processi e i tempi di applicazione della pena. una cosa mi sta, soprattutto, a cuore, oltre al tema della separazione delle carriere. Il tempo della stesura delle motivazioni, dopo la sentenza definitiva di un processo. Bisogna drasticamente contingentarli, abbreviarli sensibilmente nell’arco temporale e nel numero di pagine da scrivere. Questo è un rituale, un corollario, pur doveroso, che non deve essere lasciato alla discrezionalità di un giudice che, magari si vuole mettere in luce, cercando di “fare letteratura”, o “fare giurisprudenza” su un “caso di scuola”. Via i personalismi. Non è il caso giudiziario che deve servire a te, giudice, ma sei tu, giudice, che devi servire al caso e a quanti stanno aspettando giustizia. È di un paio di giorni fa la notizia che una decina di condannati per malavita organizzata sono stati liberati perché il giudice non aveva ancora scritto le motivazioni della sentenza, ma dopo due anni dalla chiusura del processo. E non è la prima volta. Sono sicuro che riceverei un applauso se dicessi che manderei in galera il giudice al posto dei condannati. Queste abnormità sono da eliminare al più presto.

 

Last, but not least. Ultima, ma non meno importante: la Sanità Pubblica.
Siamo ancora scioccati dagli oltre due mesi di quarantena in casa e abbiamo seguito le vicende del decorso inatteso e impressionante del Contagio da Coronavirus. Chi ci ha fatto una gran bella figura sono stati i medici e gli infermieri in particolare quelli degli ospedali del Nord. Spirito di sacrificio ed abnegazione, attaccamento al dovere e serietà professionale hanno diffuso un segnale confortante nella popolazione, che li ha chiamati “eroi”. Bene, questo sì è andato bene. Quello che non va bene è quello che resta, da adesso in poi, cioè che, come prima, per una visita ambulatoriale in ambito ospedaliero, con prenotazione obbligatoria, c’è un’eternità da aspettare. A tale andazzo di cose serve un rimedio, anche qui drastico e repentino, che ribalti il tavolo. I medici devono scegliere il proprio campo di esercizio della professione. O in ospedale o fuori, in proprio,. Non ci sono possibili compromessi o alternative. O conflitto d’interessi. Decine di milioni di cittadini vengono prima degli interessi professionali dei medici.
Inoltre vorrei puntare l’attenzione sul significato dei termini “Sanità” e “Salute”, che, spesso, vengono usati riferendosi allo stesso concetto,  si interscambiano confondendosi l’uno con l’altro. Io intendo per “Sanità” il complesso di Istituzioni che lavorano per garantire il recupero della “Salute” di un cittadino. Ma chi si occupa della salute di un cittadino?
In Italia, da sempre, siamo abituati a subire i problemi per, poi, porvi rimedio: un cittadino che si ammala deve essere curato. Per questo ci sono i medici e il grande carrozzone degli ospedali e di tutti i satelliti che vi girano intorno. Ma chi si occupa della salute dei cittadini? Non certo i medici curanti: loro curano e basta. E allora?
Ecco la mia proposta: Istituire una speciale branchia della scienza medica che si occupi seriamente di dare istruzioni formative su come gestire al meglio la propria salute. A cominciare dall’ alimentazione, per finire all’infortunistica sul lavoro e ai comportamenti di ogni giorno per quanto riguarda la prevenzione, parola pochissimo usata, dei guai della salute. Si ha un bel dire che prevenire è meglio che curare. ma nessuno lo fa. I medici se ne astengono, accuratamente. Se i cittadini si ammalano di meno, hanno pochi infortuni, conducono una vita sana e controllata, per i medici c’è molto meno lavoro, e molti meno affari ci saranno per le industrie farmaceutiche. La loro funzione, che viene considerata indispensabile, potrebbe essere messa in discussione. “A patient cured is a customer lost” dicono gli Inglesi: “Un paziente curato è un cliente perso”. Già si stanno studiando e applicando dei sistemi automatizzati di controllo, attraverso “devices” (strumenti) digitalizzati, per seguire accuratamente l’andamento della salute di ciascun individuo. E sarebbe lui a diventare il medico di se stesso. Spendiamo di più per istruire i cittadini a stare bene, piuttosto che curarli quando stanno male. Insomma, più “Salute” e meno “Sanità”. Sarebbe un risparmio enorme, oltre che una migliore qualità della vita.

 

È arrivato il momento di concludere questo “libricino dei sogni”.
Cammin facendo, sgranando il rosario delle criticità Italiane che sono un’enormità, e riconoscendo, anche, che molte altre le ho tralasciate, mi rendo conto, e credo anche voi, che la situazione del nostro paese è estremamente seria.
Quello che potrebbe apparire un sogno, una “task force” d’intervento, rischia di diventare un incubo. La gravità delle attuali condizioni dell’Italia è talmente elevata che qualunque provvedimento si possa predisporre e mettere in atto, potrebbe, addirittura, peggiorare tali condizioni, anziché giovare, come rimedio. Non userò anch’io una frase, usata e abusata, nel politichese attuale, per dire che “serve discontinuità”. Dirò ben di peggio: serve un ribaltone.
I Signori dei Partiti, ed anche l’uomo della strada, il cittadino qualunque, potrebbero intervenire disquisendo:
“Ma questo soggetto politico, che dovrebbe irrompere sullo scenario (sempre ipoteticamente) della politica Italiana, dove si collocherebbe? A destra, a sinistra, al centro?”.
Risposta: da nessuna parte. Queste categorie di dislocazione, queste targhette o etichette che avete la foia di appiccicare sempre e comunque, per catalogare, aprioristicamente, i contenuti ideologici, le simpatie e le fobie di schieramento, per identificare e prendere le misure di un gruppo politico, Signori dei Partiti, sono scadute. Non valgono più. Sono retaggio di un altro secolo, che, se non ve ne siete accorti, è passato da vent’anni.
Destra, sinistra, centro, conservazione, riformismo, laico, confessionale, resistenza, antifascismo, fascismo, giorni della memoria e del ricordo: “delete”, cancella. Tutto viene resettato, per ricominciare con altri impegni e sistemi operativi, ritagliati sullo stringente stato di necessità del momento e del futuro. La politica, da adesso in poi, non ha più un fondamento, né ideale, né ideologico, né di appartenenza; non è più rappresentanza di interessi di questa o quella parte, ma deve diventare pura e semplice “operatività” al servizio della nazione e dei cittadini. Con un programma.
Per questo, anche il profilo dei candidati alla rappresentanza degli Italiani, non deve essere più quello di esponente del territorio, delle corporazioni del mondo del lavoro, delle classi sociali, così come si intendeva una volta. Adesso le qualità di un candidato saranno vagliate secondo la capacità di operare, in settori specifici o in raggruppamenti di competenze. Non si possono certo eliminare i partiti tradizionali, ma i Signori di questi partiti comincino a riconsiderarli dalle fondamenta, secondo criteri e principi del tutto innovativi. La vecchia politica ha fatto il suo tempo. Deve lasciare il posto a menti capaci, veloci, volenterose, oneste, “Responsabili”, ansiose di raddrizzare questa barca che sta per affondare.
Sul pennone di questa barca, cominciamo ad issare una bandiera con la scritta “Responsabilità”.
Qualcuno dirà che i toni che echeggiano nelle righe di questo “manifesto”, sono eccessivamente catastrofistici, che vi aleggiano sentori di giustizialismo forcaiolo e manettaro, che sono troppo perentori, tampinanti, ossessivi. Dirà anche che promettono lacrime e sangue.
Pensatelo e ditelo pure, Signori dei Partiti, ma bisogna che qualcuno alzi la voce, anche per screditare e squalificare proprio voi, che ci avete portati sull’orlo del vortice che potrebbe inghiottirci tutti.
Chi vuole remare in direzione opposta, si arruoli in questo ideale “equipaggio”, per evitare di sprofondare nel mare in tempesta e per orientare le vele verso una nuova terra di speranza.

 

26  Maggio  2020

 

Ricordando Roberto Gervaso

 

L’Italia sta in piedi

perché non sa

da che parte cadere.

 

La politica è l’arte

di maneggiare il letame

senza sporcarsi le mani.

Numero1893.

PENSIERO

Se consideriamo la derivazione etimologica della parola “pensiero”, ci stupiremo di scoprire che la sua origine è legata a qualcosa di estremamente materiale: il”pensum” ( participio passato del verbo latino “pendere” ovvero pesare ) era la quantità di lana che le filatrici dovevano tessere nell’arco della giornata. Esso era, quindi, la materia prima grezza ( batuffolo di lana tosata ) che doveva essere elaborata per ricevere una nuova forma ( trecciolina di lana filata ). Tutto ciò è rimasto nella espressione metaforica “filo del pensiero”.
Si noti ancora che la parola sanscrita “pesas” che sta all’origine del verbo italiano “pesare”, ovvero “pendere” in latino, significa “forma”.
È il pensiero che dà forma alle cose.

Numero1812.

IL  CERVELLO  È  PIÙ  GRANDE DEL  CIELO

La coscienza

 

“La coscienza è la forma della conoscenza, l’unica forma veramente reale, intessuta nell’unico linguaggio che possediamo, quello del cervello e del suo  telaio incantato” scrive il neuroscienziato Giulio Tononi.
La coscienza costituisce una delle caratteristiche più peculiari e complesse dell’essere  umano. Addentrarsi nei suoi misteri fa un po’ paura, perché, anche se sulla coscienza sono stati scritti interi libri, poche sono le certezze che abbiamo su cosa sia, perché ci sia, da quale parte del cervello derivi.
La coscienza nasce con il cervello, sboccia quando il cervello sviluppa reti rigogliose e le consolida, e poi invecchia con esso. Quando il cervello muore, anch’essa muore. “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia” dice Roy Batty nell’indimenticabile monologo di Blade Runner.
Senza la coscienza non esisterebbe nulla. L’unico modo con il quale “sentiamo” il nostro corpo, le nostre emozioni, le persone, gli alberi, le stelle, la musica, e attraverso le nostre esperienze, i nostri pensieri e i nostri ricordi soggettivi.
Ogni giorno agiamo, amiamo e odiamo, ricordiamo il passato e immaginiamo il futuro, ma, in buona sostanza, il rapporto con il mondo, in tutte le sue manifestazioni, lo stabiliamo esclusivamente con la coscienza. E quando questa viene a mancare, scompare pure il mondo.

Ma qui sta il punto. La natura del rapporto tra il sistema nervoso e la coscienza rimane elusiva e, tuttora, al centro di accesi e interminabili dibattiti. Anche se la coscienza è ben diversa dalla materia, sicuramente della materia ha bisogno. Da un lato c’è il cervello, l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto, un’entità materiale soggetta alle leggi della fisica; dall’altro, il mondo della consapevolezza, delle immagini e dei suoni della vita, della paura, della rabbia, del desiderio e dell’amore, della noia. Questi due mondi sono in stretta relazione, come dimostra drammaticamente un’emorragia che, scompaginando la struttura del cervello, all’istante si porta via la nostra mente. A meno di non essere profondamente addormentati o in coma, siamo sempre coscienti di qualcosa: la coscienza è il fatto centrale della nostra vita. Comincia al mattino quando ci svegliamo e continua per l’intera giornata, fino a quando cadiamo in un mondo senza sogni.
Eppure la coscienza la diamo per scontata, perché ci accompagna da sempre e non richiede sforzi. Allo stesso modo pensiamo, e questo ci permette di fare le cose meravigliose che facciamo, ma non ci siamo mai dovuti interrogare sulla natura del pensiero o del suo funzionamento.

Quando si parla di coscienza, sono più le domande che ci vengono alla mente che non le certezze che abbiamo. Perché, fino ad un certo punto dell’evoluzione, le operazioni automatiche e silenti del cervello erano sufficienti per la vita, e solo più tardi è balzata prepotentemente fuori la coscienza e, con essa, il concetto di libero arbitrio? Anche se non abbiamo una chiara idea degli eventi biologici che ne hanno reso possibile il manifestarsi, la coscienza è probabilmente la più alta forma di complessità conosciuta nell’universo, e anche la più rara: è stata definita “il più profondo di tutti i misteri scientifici”. In effetti, possiamo considerare la coscienza il vero grande mistero della nostra conoscenza.
Pur così complessa, la coscienza è alquanto fragile e variabile, perché basta subire un’anestesia per farla scomparire, perché ogni volta che ci addormentiamo, ogni sera, si spegne progressivamente e, dentro di noi, l’intero universo scompare, vanno via i suoni, i colori, i pensieri ed è come se non esistessimo più neanche noi stessi. Ma basta svegliarci, perché tutto ritorni esattamente come prima, come se nulla fosse successo. Come per miracolo, così, senza sforzo, ogni mattino la coscienza si attiva da sola,
milioni di persone si riaffacciano alla vita, ridiventando consapevoli della loro esistenza.

Come da quella macchina, il cervello, che ci sembra di conoscere così bene, possa sprigionarsi l’esperienza soggettiva, il colore del cielo, la serenità di un tramonto, come dall’attivarsi di un pugno di neuroni nasca la coscienza, sembra davvero un miracolo inspiegabile. Il filosofo David Chalmers lo ha chiamato “the hard problem” (il problema difficile), perché sembra impossibile anche solo immaginarne una soluzione.
La coscienza è l’espressione massima dell’attività del nostro cervello e dà il senso alla nostra vita.
Ma che cos’è esattamente la coscienza? Su questo quesito, scienziati e filosofi dibattono da tempo, pur sapendo che essa è la cosa più difficile da definire, la caratteristica più misteriosa dell’uomo.
Su di essa possiamo dire tante cose: è la capacità di ognuno di noi di percepire  e di sperimentare il mondo che ci circonda e di sentircene parte, è la soggettività, il libero arbitrio, il centro di comando della mente, è l’esigenza profonda di capire noi stessi, è la maturazione della consapevolezza di sé, con l’insieme di tutto il bagaglio di cose accumulate nel tempo, diversa dal bambino, all’adolescente, all’uomo adulto. Alla coscienza è legata la visione morale del mondo. La coscienza è un’attività della mente e implica il pensiero; se non pensi, non sei cosciente. Ma ciò non comporta che pensiero e coscienza si identifichino, perché non sempre il pensiero è cosciente.

Il termine mente è comunemente usato per descrivere l’insieme delle funzioni cognitive del cervello, quali il pensiero, l’intuizione, la ragione, la memoria, la volontà e tante altre. Anche il termine psiche fa riferimento alla mente nel suo complesso.
Il pensiero è l’attività della mente, in un certo senso, è la mente operativa, un processo che si esplica nella formazione delle idee, dei concetti, della coscienza, dell’immaginazione, dei desideri, della critica, del giudizio e di ogni raffigurazione del mondo. Non sempre il pensiero è cosciente, potendo agire anche in modo inconscio.
Coscienza è lo stato di consapevolezza raggiunto dall’attività della mente, cioè quel momento di presenza alla mente della realtà oggettiva, di percezione di unità di ciò che è nell’intelletto.
La coscienza è il processo di continua formazione di un modello del mondo e di noi stessi nel mondo, al fine di simulare il futuro e realizzare un obiettivo, la capacità di immaginare situazioni che non esistono nel mondo reale e di elaborare un progetto per il futuro che vada oltre i bisogni dettati dall’istinto e dalla sopravvivenza. Il cervello è una macchina anticipatrice e creare il futuro è la sua funzione più importante.
Grazie alla coscienza riusciamo a sostenere un ragionamento, anche complicato, pronunciamo una frase o leggiamo la pagina di un libro. E possiamo dire parole come: penso, credo, voglio. Poiché abbiamo la capacità di parlare, è in particolare attraverso la parola che possiamo affermare di essere coscienti, raccontando tantissime cose di noi e della nostra interiorità.
La coscienza è il meccanismo di controllo e di verifica della mente, ciò che fa sì che l’azione della mente avvenga rispettando le finalità della nostra esistenza, in parte scritte nel genoma ma, soprattutto, fissate dall’ambiente culturale e  sociale che l’uomo ha costruito nel corso dei millenni. Per questo, nel linguaggio comune, coscienza indica anche una valutazione morale del proprio agire, spesso intesa come criterio supremo della moralità, e ci eleva alla trascendenza, alle bellezze astratte ed etiche.
Il meccanismo della nostra mente è complesso. Qualcuno ha detto che, se la nostra mente fosse così semplice da essere compresa, noi non saremmo abbastanza intelligenti per comprenderla.

Pur essendo la coscienza il pianificatore a lungo termine della nostra vita, in realtà essa controlla solo una piccola parte del lavorio del cervello. Buona parte delle operazioni del cervello sono condotte da tanti meccanismi a cui essa non ha accesso, perché molte cose funzionano sotto il suo livello, anche se molte hanno avuto un momento cosciente, hanno necessitato di un apprendimento e hanno un posto nella memoria.
Ma perché, quando dormiamo, la luce della coscienza si spegne e, con essa, tutto il nostro universo privato, se miliardi di neuroni continuano ad inviare impulsi nervosi come quando si è svegli? Ciò vuol dire che dal nostro cervello scaturisce o meno coscienza a seconda della modalità in cui i suoi neuroni si attivano ed interagiscono fra di loro? Ma allora, è il modo di funzionare dei neuroni o, in alternativa, lo stato di attivazione o meno di specifiche aree cerebrali a determinare se siamo coscienti oppure no? E, se è così, che cosa c’è di tanto speciale in queste aree perché possano generare la coscienza?
Secondo una brillante teoria di Giulio Tononi, la coscienza è il risultato dell’azione integrata di tante aree cerebrali. È la teoria dell’informazione integrata, secondo cui le esperienze consce derivano dall’integrazione di grandi quantità di informazioni da parte di molte aree del cervello. Più una specie vivente è capace di integrare informazioni, più il suo grado di coscienza è elevato. Ma tutte le aree cerebrali sono coinvolte nel meccanismo della coscienza? Negli ultimi decenni le neuroscienze sono letteralmente esplose, il sapere e le conoscenze sul cervello sono cresciute a dismisura e noi abbiamo capito cose che prima neanche immaginavamo.
Oggi che le tecniche di imaging cerebrale ci permettono di visualizzare in modo sistematico e affidabile il cervello in azione, lo studio delle basi biologiche della coscienza è diventata una delle sfide scientifiche più affascinanti. Purtroppo, non riusciamo ancora a riconoscere le aree del cervello che si attivano quando si esprime la coscienza, così come riusciamo invece a fare per individuare le aree motorie o quelle del linguaggio.

Certamente, per essere coscienti, non abbiamo bisogno del midollo spinale e una lesione di quest’area non modifica minimamente la nostra coscienza.
Un’altra osservazione interessante e, per certi versi, sorprendente è che una lesione che danneggi il cervelletto, per quanto estesa possa essere e, per quanto possa essere causa di menomazioni neurologiche, non compromette la ricchezza e l’intensità delle elaborazioni della coscienza. La cosa che stupisce è che il cervelletto, benché piccolo,
 contiene più di 60 miliardi di cellule nervose, un numero molto superiore a quello della corteccia cerebrale.Tuttavia, se un tumore o un ictus colpiscono il cervelletto, a venire compromessi sono il nostro equilibrio e la nostra coordinazione: la nostra andatura è maldestra e a gambe divaricate, trascinando i piedi, i movimenti oculari sono irregolari e, più che parlare, farfugliamo. Inoltre, quei movimenti regolari e precisi che, solitamente, diamo per scontati, diventano a scatti e richiedono una particolare attenzione.
Eppure, la nostra consapevolezza delle percezioni e dei ricordi cambia di poco: la nostra coscienza rimane quella di prima.
Anche una grave lesione del tronco encefalico e del talamo può causare disturbi o addirittura perdita della coscienza. Danni della neocortex
  possono modificare profondamente il nostro livello di coscienza. Questo ci dice che l’attività di quasi 30 miliardi di cellule nervose della corteccia cerebrale è rilevante, per la coscienza, a differenza dei 60 miliardi di cellule nervose del cervelletto che non lo sono. Lo sviluppo della corteccia, soprattutto di quella prefrontale, ha determinato la comparsa di funzioni che sempre hanno avuto a che fare con la conoscenza, la consapevolezza, la programmazione; ha portato ad un utilizzo sempre più complesso del cervello. Si sono moltiplicate le connessioni tra le aree e l’uomo ha cominciato a sviluppare un senso morale, a utilizzare le connessioni per sviluppare idee, creatività, progetti. Sicuramente, nell’emergere della coscienza, la corteccia prefrontale gioca un ruolo essenziale. È lì che hanno sede le funzioni intellettive superiori, come il problem solving (capacità di risolvere i problemi), il ragionamento e la presa delle decisioni. 

Con la coscienza, l’uomo ha avuto il privilegio straordinario di elevare la propria mente.
Ciò vuol dire che era, quindi, necessario che, nella sua lunga evoluzione, il cervello raggiungesse una capacità di elaborazione di dati tale da cominciare a riflettere su se stesso? Che, ad un certo punto, dell’evoluzione dell’uomo, una coscienza era necessaria? E tutto ciò è avvenuto semplicemente perché la complessità dei meccanismi della mente comportava la comparsa di una funzione più alta che esercitasse un controllo sul resto, o non piuttosto, perché era previsto da un disegno superiore?
Forse mai l’uomo arriverà a rispondere a questi quesiti, mai arriverà a trovarne il segno, là dove nascono i significati.
Personalmente, mi piace pensare che non sia soltanto la complessità anatomica e funzionale cui era arrivato il cervello umano ad aver fatto emergere la coscienza. Preferisco ritenere che la funzione più straordinaria dell’universo non sia nata per caso, come conseguenza passiva di uno sviluppo eccezionale delle facoltà mentali, ma che, invertendo i termini del problema, la complessità del nostro cervello si sia realizzata per il fine di sviluppare la coscienza, che questa fosse, quindi, già nel progetto iniziale, e che lo sviluppo delle funzioni del cervello fosse l’elemento evoluzionistico principale perché, ad un certo punto, l’uomo delle caverne si trasformasse nell’essere più evoluto dell’universo, perché da un insieme di atomi e molecole si sprigionasse la scintilla dell’anima.
Mi piace pensare che, fin dall’inizio, il progetto fosse “l’uomo cosciente”, e la coscienza era l’elemento ultimo perché l’uomo raggiungesse la conoscenza

Quando si parla di coscienza non si può non parlare di libero arbitrio.
Se la coscienza è capacità di riflettere su se stessi e sul nostro passato per progettare il futuro, essere coscienti presuppone anche la libertà di scelta in queste azioni, l’esistenza per l’uomo del libero arbitrio, il sentirsi soggetti che agiscono in base a volontà e con una molteplicità di opzioni possibili davanti.
Siamo liberi quando decidiamo internamente di agire, quando abbiamo consapevolezza delle nostre scelte, quando non c’è costrizione.
Non lo siamo più, quando qualcuno sceglie al posto nostro.
Nelle nostre azioni quotidiane, abbiamo la sensazione di poter scegliere consciamente tra linee di azione alternative, nella consapevolezza che optare per l’una o per l’altra dipenda da noi. In generale, non abbiamo la sensazione che la nostra mente agisca in balia del caso o delle circostanze, anzi la vita di ogni giorno ci appare come una sequenza di libere scelte.
Secondo molti filosofi e scienziati, questa grande libertà , in realtà, è un’illusione: il libero arbitrio, semplicemente, non esisterebbe.
È stato dimostrato che, nel perseguimento di un compito, certe regioni del cervello si attivano parecchie centinaia di frazioni di secondo prima che quella decisione diventi cosciente: circa 535 millisecondi prima di muovere un dito, prima ancora che il soggetto abbia consapevolezza di quell’azione, il cervello è già attivo. Se è così, dicono alcuni, le nostre decisioni non scaturiscono dal ragionamento. Ci limiteremmo a rispondere a segnali provenienti dall’ambiente nel fluire continuo della nostra attività cerebrale e lo faremmo in modo automatico. Per molti è la riprova che gli atti volontari e le decisioni cominciano oltre la soglia della coscienza e che per il libero arbitrio non ci sia più spazio. La coscienza sarebbe molto ridimensionata, come se dentro la nostra testa ci fosse qualcuno che ci dice cosa fare prima che ne possiamo essere consapevoli.

Ma, se così fosse, cosa resterebbe della vita morale, del concetto di responsabilità che è alla base di tutti i codici civili e penali del mondo?
Se le nostre esistenze si iscrivessero in una trama già imbastita, di che margine di movimento disporremmo? Saremmo schiavi di un percorso già stabilito?
Il pensiero non sempre giunge a livello di consapevolezza, ma molto spesso, dà risposte immediate basandole sulle tante cose ed esperienze sedimentate nella memoria e ora attive, anche senza che ne siamo coscienti. Il cervello si è evoluto in un certo modo, e non in un altro, perché questo era il miglior modo per sopravvivere. Per questo ha ritenuto che alcune informazioni non fossero essenziali per la sua sopravvivenza e le ha rese automatiche.
Ciò non significa che non siamo liberi solo perché non siamo consapevoli di tutto!
L’io cosciente rappresenta solo una piccola parte dell’attività del nostro cervello. Le nostre azioni, i nostri convincimenti, i nostri pregiudizi, sono tutti guidati da reti cerebrali alle quali non abbiamo un accesso cosciente, ma che fanno parte della nostra mente e attingono ai nostri ricordi, alle nostre esperienze e alle nostre valutazioni passate.
Come Sigmund Freud aveva già capito, buona parte della nostra vita mentale è inaccessibile alla coscienza: è l’inconscio.

Infine, e questo è il quesito che può angosciare o dare un senso alla vita, quando moriamo, la nostra coscienza, o la nostra anima, muore con noi o, semplicemente, si distacca dal corpo?
Forse, di tutti i misteri dell’universo, questo è quello che nessuno riuscirà a risolvere con i soli mezzi che la scienza ci mette a disposizione.                                                                                                                                                                       

 

Numero1534.

QUESTO  BLOG

Su questo BLOG, la maggior parte delle cose scritte non sono mie, ma scelte da me.
E gli aforismi e le citazioni, da me selezionati, rappresentano il paradigma, nudo e sincero, dei miei pensieri, del mio modo di concepire il mondo, della mia personalità.
Le cose mie, a loro volta, spesso sono stemperate, dissimulate nell’anonimato, sotto mentite spoglie.

Per questo BLOG, cerco di tenermi lontano da autocompiacimento, narcisismo, saccenteria.

Quanto allo “stile” espositivo, se di questo si può parlare, gli strumenti di lavoro privilegiati sono la leggerezza e l’autoironia.

In questo BLOG, tento di affrontare ed esprimere concetti più o meno profondi, con parole semplici. Non sempre ci riesco.

Non voglio giudicare, ma rispettare.
E permettere a tutti di scoprire ed esprimere se stessi, come faccio io, attraverso l’identificazione nei pensieri che più coinvolgono, incuriosiscono, intrigano, offendono, sorprendono, emozionano o, magari, insegnano.

Da questo BLOG, io sto imparando.

Con questo BLOG, io mi sto dipingendo, descrivendo, autocommiserando, deridendo, denudando senza pudore.

N.B. (nota bene) e  P.S. (post scriptum)
Di questo BLOG, io mi considero Direttore Irresponsabile.