Numero2278.

 

PERCHÈ  GLI  STUPIDI  SI CREDONO  INTELLIGENTI    (Effetto Dunning – Kruger)

 

L’unica vera saggezza
è sapere
di non sapere nulla.

 

Socrate

 

 

…. il problema è che
sappiamo ciò che sappiamo
e non sappiamo ciò
che non sappiamo.
Chi è perfettamente cosciente
delle proprie conoscenze,
è altrettanto cosciente che
ci sono cose che non consce.
L’errore che costui commette
è quello di dare per scontato
che le altre persone sappiano
ciò che sa lui, principalmente
perché queste mostrano così
tanta fiducia in loro stesse, che
è facile essere tratti in inganno.
Tendono, perciò, a sottovalutarsi
in relazione agli altri.

Dunning e Kruger hanno,
inoltre, notato che le persone
più incompetenti tendono
a rifiutare totalmente
ogni forma di criticismo,
e non hanno nessun
interesse a migliorarsi.
Questa è la ragione per cui
molte persone vivono la loro
intera esistenza nella mediocrità.
Avere fiducia in se stessi
è importante, ma ancora più
importante è essere auto-coscienti
e capire in cosa realmente siamo
bravi ed in cosa non lo siamo.
Solo in questo modo potremo
apportare i giusti cambiamenti
e compiere le azioni necessarie
per migliorarci.

Numero2236.

 

Segnalato da mio figlio Alexis

 

 

T H E    S O C I A L    D I L E M M A

 

Nothing vast enters

the life of mortals

without a curse.

 

Sophocles

 

Niente di vasto entra

nella vita dei mortali

senza una maledizione.

 

Sofocle.

 

Il Docufilm THE SOCIAL DILEMMA getta una luce sull’influenza che YOUTUBE, FACEBOOK,TWITTER ed altri Social Media Networks – e, per estensione, i loro algoritmi – hanno sulla vita dei loro utenti.
Il filmato critica il modo in cui gli algoritmi, progettati per predisporre gli utenti alla pubblicità, hanno condotto a gravi problemi sociali, come il sensazionalismo e la polarizzazione.
Come disse Sofocle: “Niente di vasto entra nella vita dei mortali senza una maledizione” ed ora, il conseguimento di guadagni a breve termine dei Social Media ci ha caricato addosso il “dilemma sociale” di una cultura che è impossibile da sostenere.

Numero2038.

 

P I A C E R E

 

Devo piacermi

per dare piacere.

 

Mi sono appuntato questa semplice frase, che ho sentito pronunciare, a notte inoltrata, durante una simpatica trasmissione televisiva che tratta esclusivamente di sesso e argomenti connessi, senza intenti didascalici, senza dottori o psicologi, ma che è condotta con leggerezza e senza ipocrisia, facendo parlare liberamente le persone presenti dei loro gusti, dei loro comportamenti, delle loro esperienze.
A pronunciarla era una donna che, intervistata dalla conduttrice sul tema del “piacere” e del “desiderio”, ha così, sinteticamente, espresso il proprio pensiero, che io ho percepito come illuminante, quasi folgorante. E ho tentato di prendere sonno, elucubrando e rimestando, in balia di mille considerazioni che si accavallavano nella mia mente.
Alla fine, ci ho dormito sopra, ripromettendomi di dedicare a questo argomento un numero del BLOG, per sviscerarlo meglio.

La prima considerazione che mi è balzata in testa è stato il parallelismo di questo aforisma con l’evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso” (Matteo, 22. 37-39). E anche  «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuorecon tutta l’anima tuacon tutta la forza tuacon tutta la mente tuae il tuo prossimo come te stesso» (Luca 10, 25-37) . Dopo il primo comandamento, quello di amare Dio, questo secondo è il comandamento più fondante di tutta la “morale cristiana”. Sappiamo che su di esso si è sviluppata la teoria etica  della Religione Cristiana, con la sottolineatura stringente e apodittica dell’amore per il prossimo. Non per niente, al primo posto, nell’enunciazione, viene “ama il prossimo tuo”. Tale e tanta è stata la preponderanza di questo concetto, che per duemila anni è stato messo in ombra, in secondo piano e, dico io, accuratamente, volutamente, intenzionalmente trascurato il “come te stesso”.
Ebbene, io intendo riesumare il paragone del vangelo, ribaltando i termini della questione: ama te stesso, per amare meglio gli altri.
La frase della signora intervistata, è la trasposizione esatta, sul piano della sessualità, di questo elementare enunciato. Al primo posto, in una sana ed equilibrata visione della vita, io ci metto l’amore per se stessi.
Non voglio mica fondare una Controreligione! Voglio solo riabilitare una esigenza primaria e naturale della personalità umana, che è quella di occuparsi della propria salute mentale, morale e fisica e, vivaddio, anche della propria felicità, prima di abbracciare supinamente ogni dettato altruistico, per quanto cogente possa essere: è l’istinto di sopravvivenza, ma di buona sopravvivenza.

Nella frase evangelica, quello che viene collocato al primo posto è l’amore per gli altri. Nella frase mia, che pur mantiene l’esortazione e l’ammonimento all’amore, al primo posto ho messo l’uomo, l’individuo pensante, responsabile, sensibile, empatico, pronto alla fraternità, alla collaborazione, alla generosità, alla misericordia. Ma solo dopo aver fatto proprio, compiutamente, il bagaglio di questi valori, inglobandolo nel proprio DNA esistenziale.
Sì, perché l’uomo non nasce, secondo natura, dotato di questi buoni principi.

L’amore per se stessi è una categoria naturale, insita nell’uomo. L’amore per gli altri è una dotazione culturale acquisita nel corso dell’evoluzione sociale ed esistenziale.

Per completare la nozione del radicamento di questi principi, nel tempo e nello spazio dell’umanità, invito il lettore a consultare brevemente il numero seguente (Numero2037.).

“Homo homini lupus” (l’uomo è un lupo per l’uomo) è una espressione latina che troviamo nella commedia di Plauto, L’Asinaria. 

Il concetto dell’ “homo homini lupus” è stato ripreso dal filosofo britannico Thomas Hobbes nella sua opera De Cive (Il cittadino); secondo Hobbes, la natura dell’uomo è essenzialmente egoistica e a determinare le azioni umane sono solamente l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione; egli ritiene impossibile che l’uomo si senta spinto ad avvicinare un proprio simile in virtù di un amore naturale; i legami di amicizia o di società degli uomini sono dovuti solamente al timore reciproco.
Nello stato di natura, ovvero in quello stato non regolato da alcuna legge, ogni persona, mossa dal suo più recondito istinto, cerca di danneggiare gli altri e di eliminare tutti coloro che rappresentano un ostacolo al raggiungimento dei propri scopi; in altri termini, ogni individuo vede nel proprio prossimo un nemico.
Fuori dall’ambito puramente filosofico, l’espressione latina è ancora oggi utilizzata, talvolta ironicamente, talvolta sconsolatamente, per sottolineare la malvagità, l’egoismo e la malizia dell’uomo; in questo senso ha pressoché il valore dell’altrettanto celebre detto mors tua vita mea (la tua morte è la mia vita).

Egoismo, egocentrismo, soggettivismo, individualismo, egotismo, solipsismo, narcisismo. Sono tutti termini che, con sottili sfumature a differenziare l’uno dall’altro, si riferiscono allo stesso concetto. Ma si badi bene, non hanno niente a che fare con il contenuto del mio pensiero.
L’amore per se stessi, come lo intendo io, o amor proprio, è occuparsi di sé, non trascurando gli altri, ma per meglio occuparsi degli altri.
Una personalità equilibrata ed armonica, consapevole e partecipativa non potrà mai erigere steccati, ma solo costruire ponti verso gli altri da sé. Probabilmente, nella costruzione del proprio “taglio mentale” e nella messa a fuoco della propria “Weltanschauung”, o “concezione, visione del mondo e della vita”, il compito più difficile è quello di predisporsi un filtro critico agguerrito e ben attrezzato. Per ottenere questo, è necessaria una straordinaria serie di azioni e di impegni, che non tutti trovano né possibili, né utili, né agevoli: studi, fino ad alti livelli, esperienze, le più disparate, interessi, impegnativi e formativi, frequentazioni, a volte selettive e non facili, stili di vita, talvolta costrittivi e, comunque, di elevato spessore umano e sociale.
Insomma, amare se stessi, per prepararsi alla vita, non è una cosa da ridere, anzi, è un percorso pieno di sacrifici, di difficoltà, di rinunce. Un percorso per nulla autocelebrativo, bensì autoformativo, spesso affrontato con mezzi propri ed inadeguati, combattendo battaglie dove le sconfitte sono sempre più frequenti, ma, comunque, più illuminanti delle vittorie.
Il traguardo di arrivo è una personalità matura, consapevole, preparata ad affrontare la vita, il lavoro, la famiglia, la società con una corazza temprata, con armi affilate, non con  “lo spirto guerrier ch’entro mi rugge” (Ugo Foscolo – Alla sera), ma con animo determinato e motivato, ricco della propria autostima.
Pensate che questa personalità sia ben predisposta verso gli altri, o che si manifesti e si imponga attraverso l’arroganza o la sopraffazione?
Il mio punto di vista, è quello che mi auguro di aver interpretato nella mia vita: è la prima delle due alternative appena citate. Per questo ne parlo, come esperienza personale, senza profferire sentenze o sprecare giudizi sul comportamento di altri.

D’altra parte, qualche secolo prima della frase evangelica, l’oracolo di Delfi, ripreso e sottolineato da Socrate, aveva raccomandato il “conosci te stesso”, come la chiave per aprire le porte del mondo, per interagire e misurarsi con esso. Non ho mai conosciuto, in tutto lo scibile umano, un precetto più illuminante ed esaustivo di questo.
Su quanto detto finora, segnalo e raccomando la lettura dei seguenti Numeri: 1758, 1559, 1400, 1396, 1370.

 

Tornando alla frase di partenza, mi ha stuzzicato una curiosità: ma una donna che dà piacere (sessuale) ad un uomo, dà piacere (orgasmo) anche a se stessa, perché si piace? Vuol dire perché è più disinibita, per il fatto di piacersi?
Allora, l’uomo che funzione avrebbe? E l’atto sessuale, è un darsi piacere reciprocamente, oppure è un'(auto)masturbazione attraverso il corpo del partner? Mio Dio, che guazzabuglio!
Con l’aiuto della vostra pazienza ed attenzione, tento di fare chiarezza: in realtà, non so dove questo discorso andrà a parare.
Quando una donna ha la consapevolezza di avere un bel corpo, armonioso, gradevole, curato, seducente (non solo agli occhi del partner, ma anche ai propri) è sicuramente ben disposta all’atto sessuale e predisposta a goderne lei stessa, oltre che a dare piacere sessuale al compagno. Fin qui, tutto potrebbe quadrare. E questa è la “conditio sine qua non” ( condizione imprescindibile), per instaurare un rapporto sessuale. Almeno da parte femminile.
Ribaltiamo i termini della questione. Una donna che non ha un corpo di suo gradimento, che è consapevole di non essere tanto sexy, non mi dilungo ad appurarne i motivi, ma che si concede ugualmente al proprio partner, per un’attrattiva sessuale di non precisata alchimia, vuol dire, forse, che può non essere così disinibita, come le circostanze richiederebbero? E che, pur facendo arrivare all’orgasmo il compagno, che compie decorosamente il suo dovere, senza tante fisime, può risentire di un freno inibitorio, che deriva dalla coscienza della propria condizione, e non godere appieno del rapporto, impedendosi di suo, in qualche modo, l’orgasmo?
So bene che molte donne non raggiungono mai, o quasi mai, l’orgasmo facendo l’amore col proprio compagno, e che il colpevole di questa “défaillance”, sarebbe proprio lui, il maschio egoista o inadeguato che, pensa a soddisfare le proprie voglie, senza pensare al piacere della compagna.
Ma, in presenza di un rapporto normale, come durata ed intensità, per la prestazione del maschio, può accadere che la femmina manifesti una partecipazione psicologicamente impedita da una scarsa autostima?
Dicono tutti che, nell’altro campo, quello maschile, l’eiaculazione precoce ha motivazioni sintomatiche di carattere psicologico. Perché non potrebbe essere dello stesso tipo, intendo psicologico, in campo femminile, la mancanza di orgasmo (anorgasmia)? E la causa potrebbe essere proprio la scarsa considerazione delle proprie fattezze muliebri?
Quello che, sul piano puramente fisico, la moderna medicina ha riscontrato essere una patologia autoimmune, ovvero, detto in soldoni, il corpo si fa male da solo, non potrebbe verificarsi, attraverso la somatizzazione, anche in ambito psicologico o psichiatrico? Cioè la mente cerca una espiazione, un’autopunizione, negandosi ciò che desidera, cioè la soddisfazione sessuale?

Messa così, un po’ semplicisticamente, la cosa potrebbe riassumersi in questo modo: le donne che si piacciono, che sono contente di sé, hanno molto probabilità di soddisfare sessualmente il partner e anche se stesse.
Le donne che hanno problemi di gradimento del proprio stato fisico, pur soddisfacendo il compagno, potrebbero avere grossi problemi a provare il proprio orgasmo.
L’altra faccia della medaglia, in campo maschile, potrebbe dirci che gli uomini che sono sicuri di sé, delle proprie “performances” e delle dimensioni del loro apparato sessuale, hanno, almeno, normali rapporti, soddisfacenti per se e per la compagna; mentre gli uomini che manifestano insicurezze e problematiche di varia natura, è più probabile che cadano vittime dell’eiaculazione precoce.
Fatto sta, in entrambi i casi, che l’autostima gioca un ruolo di primaria importanza in ambito sessuale.
Ed è proprio giusto e vero che l’apparato sessuale che conta e vale, di gran lunga, di più non sta in mezzo alle gambe, ma in mezzo alle orecchie.

Sono stati scritti migliaia di libri e trattati su questi temi. Darete voi ascolto ad un povero disinformato, ma disinibito, come me? Come sempre, a me interessa gettare il sassolino nello stagno.

 

 

 

 

 

Numero1996.

 

L E   D O N N E   E   LA   C H I E S A

 

Il Cristianesimo, come il Giudaismo e l’Islamismo, è stato progettato per realizzare un altro punto fondamentale del Ordine del Giorno Rettiliano: la soppressione dell’energia femminile, cioè del legame intuitivo con i livelli superiori della nostra coscienza multidimensionale. Se sopprimi la tua energia femminile, la tua intuizione, spegni la tua coscienza superiore e finisci per essere dominato dalla coscienza inferiore.
Così facendo, non puoi accedere alla tua più elevata dimensione di amore, saggezza e conoscenza, e sei in balia di informazioni “manipolate” che ti bombardano occhi ed orecchie.
È questo il motivo per cui la Confraternita Babilonese ha cercato di creare un mondo in cui l’energia maschile fosse dominante, almeno a livello superficiale. L’atteggiamento che noi definiamo da “uomo macho” è quello tipico di una persona privata dell’energia femminile e, quindi, profondamente squilibrata.
Notate che, nel Credo Niceno di Costantino, non vi è alcun riferimento alle donne. Si dice che Dio si è incarnato in Gesù “per noi uomini e per la nostra salvezza”.
Il Cristianesimo fu una roccaforte maschile fin dalle sue fondamenta, creata per sopprimere  la riequilibrante  energia femminile. I padri fondatori della Chiesa, come Quinto Tertulliano, bandirono le donne dall’ufficio sacerdotale, proibendo loro persino di parlare in chiesa.
Fu solo al Concilio di Trento, nel 1545, che la Chiesa Cattolica decise ufficialmente che anche le donne avevano un’anima, e questa decisione fu presa con un margine di soli 3 voti!
I semi di questo dogma antifemminile tipico della Chiesa Cristiana si riscontrano anche in quello specchio del Cristianesimo che è lo Zoroastrismo, la setta del profeta (mitico Dio-Sole) Zoroastro.
Questa religione nacque, ancora una volta, in Persia, in una zona oggi appartenente alla Turchia, dove sorgono le montagne del Taurus e la città di San Paolo, Tarso.
(N.d.R. Si vede che, da quelle parti, era diffusa questa mentalità).
Zoroastro mostrava un violento atteggiamento misogino e affermava che “nessuna donna può entrare in Paradiso, eccetto quelle che si sottoponevano al controllo da parte dell’uomo e che consideravano Signori i loro mariti“.
Quest’intera filosofia è quasi una ripetizione letterale del Brahamanesimo, l’orrendo credo induista introdotto in India dagli Ariani molti secoli prima.
San Paolo continuò ad attuare il suo piano ostile alle donne, in conformità con i dettami Cristiani, aprendo la strada alla tremenda persecuzione delle donne che si consumò nei quasi duemila anni successivi.
Tra le perle di San Paolo si legge:

“Mogli, sottomettetevi ai vostri mariti, poiché il marito è il capo della moglie, come Cristo è capo della Chiesa. Ora, se la Chiesa si sottomette a Cristo, allo stesso modo le mogli si devono sottomettere, in ogni cosa, al marito“.
(N.d.R.   Cristo non era il capo di nessuna Chiesa. È stato proprio Paolo di Tarso a fondare la Chiesa Cristiana, ma non aveva il mitico carisma di Cristo. Inoltre trovo il parallelismo del tutto fuori luogo, capzioso e arrogante).

E:

“Non tollero né che una moglie educhi, né che usurpi l’autorità dell’uomo, ma solo che resti in silenzio”.

Sant’ Agostino di Ippona, come la maggior parte dei personaggi della Chiesa, proveniva dall’Africa del Nord.
Da giovane nutrì insaziabili voglie sessuali, ma, all’età di 31 anni, dopo la presunta conversione al Cristianesimo, cambiò drasticamente condotta di vita e decise che il sesso era una cosa orrenda. Sapete, un po’ come fanno i fumatori quando smettono. Non permetteva a nessuna donna di entrare in casa sua se non accompagnata, e questo valeva persino per sua sorella. Ma non riuscì ad escogitare un modo alternativo di procreare, per cui fu costretto ad accettare il sesso, per evitare l’estinzione dell’umanità.
Tuttavia, insistette sul fatto che, per nessuna ragione, esso dovesse essere una fonte di piacere.
Io ci ho provato, ma non funziona.
Ma questa era l’idea della sessualità che aveva Agostino:

“I mariti amino le loro mogli, ma le amino castamente. Indugino nella carne solo nella misura in cui ciò è necessario per la procreazione dei figli. Dal momento che non è possibile generare figli in alcun altro modo, dovete abbassarvi a ciò contro la vostra volontà, poiché questo è  il castigo di Adamo”.

Queste posizioni portarono, per gradi, all’imposizione del celibato al clero da parte di Papa Gregorio VII nel 1074.
Esatto, oggi nella Chiesa Cattolica i sacerdoti sono celibi perché questo è quello che ha deciso un Papa un migliaio di anni fa, e un’infinità di bambini, violentati da uomini di Chiesa, frustrati e squilibrati, ne hanno pagato le conseguenze.
Agostino collegava il sesso al peccato originale, all’idea, cioè, che nasciamo tutti peccatori, poiché discendiamo da Adamo ed Eva. Gesù, secondo la sua teoria, fu l’unico a nascere senza peccato originale, poiché fu concepito da una vergine.

Miliardi di persone sono state controllate e manipolate in questo modo, poiché il Credo Cristiano ha insinuato la paura, il senso di colpa e la violenza nel profondo dello spirito umano.
A dire il vero, anch’io credo nel peccato originale. Alcuni dei miei “peccati” sono stati molto originali.
Se dovete proprio peccare, fatelo in modo originale, questo è ciò che vi dico.

David  Icke         Il segreto più nascosto.

 

N.d.R.    Mi piacerebbe raccogliere qualche commento da parte delle rappresentanti del gentil sesso.

Numero1812.

IL  CERVELLO  È  PIÙ  GRANDE DEL  CIELO

La coscienza

 

“La coscienza è la forma della conoscenza, l’unica forma veramente reale, intessuta nell’unico linguaggio che possediamo, quello del cervello e del suo  telaio incantato” scrive il neuroscienziato Giulio Tononi.
La coscienza costituisce una delle caratteristiche più peculiari e complesse dell’essere  umano. Addentrarsi nei suoi misteri fa un po’ paura, perché, anche se sulla coscienza sono stati scritti interi libri, poche sono le certezze che abbiamo su cosa sia, perché ci sia, da quale parte del cervello derivi.
La coscienza nasce con il cervello, sboccia quando il cervello sviluppa reti rigogliose e le consolida, e poi invecchia con esso. Quando il cervello muore, anch’essa muore. “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia” dice Roy Batty nell’indimenticabile monologo di Blade Runner.
Senza la coscienza non esisterebbe nulla. L’unico modo con il quale “sentiamo” il nostro corpo, le nostre emozioni, le persone, gli alberi, le stelle, la musica, e attraverso le nostre esperienze, i nostri pensieri e i nostri ricordi soggettivi.
Ogni giorno agiamo, amiamo e odiamo, ricordiamo il passato e immaginiamo il futuro, ma, in buona sostanza, il rapporto con il mondo, in tutte le sue manifestazioni, lo stabiliamo esclusivamente con la coscienza. E quando questa viene a mancare, scompare pure il mondo.

Ma qui sta il punto. La natura del rapporto tra il sistema nervoso e la coscienza rimane elusiva e, tuttora, al centro di accesi e interminabili dibattiti. Anche se la coscienza è ben diversa dalla materia, sicuramente della materia ha bisogno. Da un lato c’è il cervello, l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto, un’entità materiale soggetta alle leggi della fisica; dall’altro, il mondo della consapevolezza, delle immagini e dei suoni della vita, della paura, della rabbia, del desiderio e dell’amore, della noia. Questi due mondi sono in stretta relazione, come dimostra drammaticamente un’emorragia che, scompaginando la struttura del cervello, all’istante si porta via la nostra mente. A meno di non essere profondamente addormentati o in coma, siamo sempre coscienti di qualcosa: la coscienza è il fatto centrale della nostra vita. Comincia al mattino quando ci svegliamo e continua per l’intera giornata, fino a quando cadiamo in un mondo senza sogni.
Eppure la coscienza la diamo per scontata, perché ci accompagna da sempre e non richiede sforzi. Allo stesso modo pensiamo, e questo ci permette di fare le cose meravigliose che facciamo, ma non ci siamo mai dovuti interrogare sulla natura del pensiero o del suo funzionamento.

Quando si parla di coscienza, sono più le domande che ci vengono alla mente che non le certezze che abbiamo. Perché, fino ad un certo punto dell’evoluzione, le operazioni automatiche e silenti del cervello erano sufficienti per la vita, e solo più tardi è balzata prepotentemente fuori la coscienza e, con essa, il concetto di libero arbitrio? Anche se non abbiamo una chiara idea degli eventi biologici che ne hanno reso possibile il manifestarsi, la coscienza è probabilmente la più alta forma di complessità conosciuta nell’universo, e anche la più rara: è stata definita “il più profondo di tutti i misteri scientifici”. In effetti, possiamo considerare la coscienza il vero grande mistero della nostra conoscenza.
Pur così complessa, la coscienza è alquanto fragile e variabile, perché basta subire un’anestesia per farla scomparire, perché ogni volta che ci addormentiamo, ogni sera, si spegne progressivamente e, dentro di noi, l’intero universo scompare, vanno via i suoni, i colori, i pensieri ed è come se non esistessimo più neanche noi stessi. Ma basta svegliarci, perché tutto ritorni esattamente come prima, come se nulla fosse successo. Come per miracolo, così, senza sforzo, ogni mattino la coscienza si attiva da sola,
milioni di persone si riaffacciano alla vita, ridiventando consapevoli della loro esistenza.

Come da quella macchina, il cervello, che ci sembra di conoscere così bene, possa sprigionarsi l’esperienza soggettiva, il colore del cielo, la serenità di un tramonto, come dall’attivarsi di un pugno di neuroni nasca la coscienza, sembra davvero un miracolo inspiegabile. Il filosofo David Chalmers lo ha chiamato “the hard problem” (il problema difficile), perché sembra impossibile anche solo immaginarne una soluzione.
La coscienza è l’espressione massima dell’attività del nostro cervello e dà il senso alla nostra vita.
Ma che cos’è esattamente la coscienza? Su questo quesito, scienziati e filosofi dibattono da tempo, pur sapendo che essa è la cosa più difficile da definire, la caratteristica più misteriosa dell’uomo.
Su di essa possiamo dire tante cose: è la capacità di ognuno di noi di percepire  e di sperimentare il mondo che ci circonda e di sentircene parte, è la soggettività, il libero arbitrio, il centro di comando della mente, è l’esigenza profonda di capire noi stessi, è la maturazione della consapevolezza di sé, con l’insieme di tutto il bagaglio di cose accumulate nel tempo, diversa dal bambino, all’adolescente, all’uomo adulto. Alla coscienza è legata la visione morale del mondo. La coscienza è un’attività della mente e implica il pensiero; se non pensi, non sei cosciente. Ma ciò non comporta che pensiero e coscienza si identifichino, perché non sempre il pensiero è cosciente.

Il termine mente è comunemente usato per descrivere l’insieme delle funzioni cognitive del cervello, quali il pensiero, l’intuizione, la ragione, la memoria, la volontà e tante altre. Anche il termine psiche fa riferimento alla mente nel suo complesso.
Il pensiero è l’attività della mente, in un certo senso, è la mente operativa, un processo che si esplica nella formazione delle idee, dei concetti, della coscienza, dell’immaginazione, dei desideri, della critica, del giudizio e di ogni raffigurazione del mondo. Non sempre il pensiero è cosciente, potendo agire anche in modo inconscio.
Coscienza è lo stato di consapevolezza raggiunto dall’attività della mente, cioè quel momento di presenza alla mente della realtà oggettiva, di percezione di unità di ciò che è nell’intelletto.
La coscienza è il processo di continua formazione di un modello del mondo e di noi stessi nel mondo, al fine di simulare il futuro e realizzare un obiettivo, la capacità di immaginare situazioni che non esistono nel mondo reale e di elaborare un progetto per il futuro che vada oltre i bisogni dettati dall’istinto e dalla sopravvivenza. Il cervello è una macchina anticipatrice e creare il futuro è la sua funzione più importante.
Grazie alla coscienza riusciamo a sostenere un ragionamento, anche complicato, pronunciamo una frase o leggiamo la pagina di un libro. E possiamo dire parole come: penso, credo, voglio. Poiché abbiamo la capacità di parlare, è in particolare attraverso la parola che possiamo affermare di essere coscienti, raccontando tantissime cose di noi e della nostra interiorità.
La coscienza è il meccanismo di controllo e di verifica della mente, ciò che fa sì che l’azione della mente avvenga rispettando le finalità della nostra esistenza, in parte scritte nel genoma ma, soprattutto, fissate dall’ambiente culturale e  sociale che l’uomo ha costruito nel corso dei millenni. Per questo, nel linguaggio comune, coscienza indica anche una valutazione morale del proprio agire, spesso intesa come criterio supremo della moralità, e ci eleva alla trascendenza, alle bellezze astratte ed etiche.
Il meccanismo della nostra mente è complesso. Qualcuno ha detto che, se la nostra mente fosse così semplice da essere compresa, noi non saremmo abbastanza intelligenti per comprenderla.

Pur essendo la coscienza il pianificatore a lungo termine della nostra vita, in realtà essa controlla solo una piccola parte del lavorio del cervello. Buona parte delle operazioni del cervello sono condotte da tanti meccanismi a cui essa non ha accesso, perché molte cose funzionano sotto il suo livello, anche se molte hanno avuto un momento cosciente, hanno necessitato di un apprendimento e hanno un posto nella memoria.
Ma perché, quando dormiamo, la luce della coscienza si spegne e, con essa, tutto il nostro universo privato, se miliardi di neuroni continuano ad inviare impulsi nervosi come quando si è svegli? Ciò vuol dire che dal nostro cervello scaturisce o meno coscienza a seconda della modalità in cui i suoi neuroni si attivano ed interagiscono fra di loro? Ma allora, è il modo di funzionare dei neuroni o, in alternativa, lo stato di attivazione o meno di specifiche aree cerebrali a determinare se siamo coscienti oppure no? E, se è così, che cosa c’è di tanto speciale in queste aree perché possano generare la coscienza?
Secondo una brillante teoria di Giulio Tononi, la coscienza è il risultato dell’azione integrata di tante aree cerebrali. È la teoria dell’informazione integrata, secondo cui le esperienze consce derivano dall’integrazione di grandi quantità di informazioni da parte di molte aree del cervello. Più una specie vivente è capace di integrare informazioni, più il suo grado di coscienza è elevato. Ma tutte le aree cerebrali sono coinvolte nel meccanismo della coscienza? Negli ultimi decenni le neuroscienze sono letteralmente esplose, il sapere e le conoscenze sul cervello sono cresciute a dismisura e noi abbiamo capito cose che prima neanche immaginavamo.
Oggi che le tecniche di imaging cerebrale ci permettono di visualizzare in modo sistematico e affidabile il cervello in azione, lo studio delle basi biologiche della coscienza è diventata una delle sfide scientifiche più affascinanti. Purtroppo, non riusciamo ancora a riconoscere le aree del cervello che si attivano quando si esprime la coscienza, così come riusciamo invece a fare per individuare le aree motorie o quelle del linguaggio.

Certamente, per essere coscienti, non abbiamo bisogno del midollo spinale e una lesione di quest’area non modifica minimamente la nostra coscienza.
Un’altra osservazione interessante e, per certi versi, sorprendente è che una lesione che danneggi il cervelletto, per quanto estesa possa essere e, per quanto possa essere causa di menomazioni neurologiche, non compromette la ricchezza e l’intensità delle elaborazioni della coscienza. La cosa che stupisce è che il cervelletto, benché piccolo,
 contiene più di 60 miliardi di cellule nervose, un numero molto superiore a quello della corteccia cerebrale.Tuttavia, se un tumore o un ictus colpiscono il cervelletto, a venire compromessi sono il nostro equilibrio e la nostra coordinazione: la nostra andatura è maldestra e a gambe divaricate, trascinando i piedi, i movimenti oculari sono irregolari e, più che parlare, farfugliamo. Inoltre, quei movimenti regolari e precisi che, solitamente, diamo per scontati, diventano a scatti e richiedono una particolare attenzione.
Eppure, la nostra consapevolezza delle percezioni e dei ricordi cambia di poco: la nostra coscienza rimane quella di prima.
Anche una grave lesione del tronco encefalico e del talamo può causare disturbi o addirittura perdita della coscienza. Danni della neocortex
  possono modificare profondamente il nostro livello di coscienza. Questo ci dice che l’attività di quasi 30 miliardi di cellule nervose della corteccia cerebrale è rilevante, per la coscienza, a differenza dei 60 miliardi di cellule nervose del cervelletto che non lo sono. Lo sviluppo della corteccia, soprattutto di quella prefrontale, ha determinato la comparsa di funzioni che sempre hanno avuto a che fare con la conoscenza, la consapevolezza, la programmazione; ha portato ad un utilizzo sempre più complesso del cervello. Si sono moltiplicate le connessioni tra le aree e l’uomo ha cominciato a sviluppare un senso morale, a utilizzare le connessioni per sviluppare idee, creatività, progetti. Sicuramente, nell’emergere della coscienza, la corteccia prefrontale gioca un ruolo essenziale. È lì che hanno sede le funzioni intellettive superiori, come il problem solving (capacità di risolvere i problemi), il ragionamento e la presa delle decisioni. 

Con la coscienza, l’uomo ha avuto il privilegio straordinario di elevare la propria mente.
Ciò vuol dire che era, quindi, necessario che, nella sua lunga evoluzione, il cervello raggiungesse una capacità di elaborazione di dati tale da cominciare a riflettere su se stesso? Che, ad un certo punto, dell’evoluzione dell’uomo, una coscienza era necessaria? E tutto ciò è avvenuto semplicemente perché la complessità dei meccanismi della mente comportava la comparsa di una funzione più alta che esercitasse un controllo sul resto, o non piuttosto, perché era previsto da un disegno superiore?
Forse mai l’uomo arriverà a rispondere a questi quesiti, mai arriverà a trovarne il segno, là dove nascono i significati.
Personalmente, mi piace pensare che non sia soltanto la complessità anatomica e funzionale cui era arrivato il cervello umano ad aver fatto emergere la coscienza. Preferisco ritenere che la funzione più straordinaria dell’universo non sia nata per caso, come conseguenza passiva di uno sviluppo eccezionale delle facoltà mentali, ma che, invertendo i termini del problema, la complessità del nostro cervello si sia realizzata per il fine di sviluppare la coscienza, che questa fosse, quindi, già nel progetto iniziale, e che lo sviluppo delle funzioni del cervello fosse l’elemento evoluzionistico principale perché, ad un certo punto, l’uomo delle caverne si trasformasse nell’essere più evoluto dell’universo, perché da un insieme di atomi e molecole si sprigionasse la scintilla dell’anima.
Mi piace pensare che, fin dall’inizio, il progetto fosse “l’uomo cosciente”, e la coscienza era l’elemento ultimo perché l’uomo raggiungesse la conoscenza

Quando si parla di coscienza non si può non parlare di libero arbitrio.
Se la coscienza è capacità di riflettere su se stessi e sul nostro passato per progettare il futuro, essere coscienti presuppone anche la libertà di scelta in queste azioni, l’esistenza per l’uomo del libero arbitrio, il sentirsi soggetti che agiscono in base a volontà e con una molteplicità di opzioni possibili davanti.
Siamo liberi quando decidiamo internamente di agire, quando abbiamo consapevolezza delle nostre scelte, quando non c’è costrizione.
Non lo siamo più, quando qualcuno sceglie al posto nostro.
Nelle nostre azioni quotidiane, abbiamo la sensazione di poter scegliere consciamente tra linee di azione alternative, nella consapevolezza che optare per l’una o per l’altra dipenda da noi. In generale, non abbiamo la sensazione che la nostra mente agisca in balia del caso o delle circostanze, anzi la vita di ogni giorno ci appare come una sequenza di libere scelte.
Secondo molti filosofi e scienziati, questa grande libertà , in realtà, è un’illusione: il libero arbitrio, semplicemente, non esisterebbe.
È stato dimostrato che, nel perseguimento di un compito, certe regioni del cervello si attivano parecchie centinaia di frazioni di secondo prima che quella decisione diventi cosciente: circa 535 millisecondi prima di muovere un dito, prima ancora che il soggetto abbia consapevolezza di quell’azione, il cervello è già attivo. Se è così, dicono alcuni, le nostre decisioni non scaturiscono dal ragionamento. Ci limiteremmo a rispondere a segnali provenienti dall’ambiente nel fluire continuo della nostra attività cerebrale e lo faremmo in modo automatico. Per molti è la riprova che gli atti volontari e le decisioni cominciano oltre la soglia della coscienza e che per il libero arbitrio non ci sia più spazio. La coscienza sarebbe molto ridimensionata, come se dentro la nostra testa ci fosse qualcuno che ci dice cosa fare prima che ne possiamo essere consapevoli.

Ma, se così fosse, cosa resterebbe della vita morale, del concetto di responsabilità che è alla base di tutti i codici civili e penali del mondo?
Se le nostre esistenze si iscrivessero in una trama già imbastita, di che margine di movimento disporremmo? Saremmo schiavi di un percorso già stabilito?
Il pensiero non sempre giunge a livello di consapevolezza, ma molto spesso, dà risposte immediate basandole sulle tante cose ed esperienze sedimentate nella memoria e ora attive, anche senza che ne siamo coscienti. Il cervello si è evoluto in un certo modo, e non in un altro, perché questo era il miglior modo per sopravvivere. Per questo ha ritenuto che alcune informazioni non fossero essenziali per la sua sopravvivenza e le ha rese automatiche.
Ciò non significa che non siamo liberi solo perché non siamo consapevoli di tutto!
L’io cosciente rappresenta solo una piccola parte dell’attività del nostro cervello. Le nostre azioni, i nostri convincimenti, i nostri pregiudizi, sono tutti guidati da reti cerebrali alle quali non abbiamo un accesso cosciente, ma che fanno parte della nostra mente e attingono ai nostri ricordi, alle nostre esperienze e alle nostre valutazioni passate.
Come Sigmund Freud aveva già capito, buona parte della nostra vita mentale è inaccessibile alla coscienza: è l’inconscio.

Infine, e questo è il quesito che può angosciare o dare un senso alla vita, quando moriamo, la nostra coscienza, o la nostra anima, muore con noi o, semplicemente, si distacca dal corpo?
Forse, di tutti i misteri dell’universo, questo è quello che nessuno riuscirà a risolvere con i soli mezzi che la scienza ci mette a disposizione.                                                                                                                                                                       

 

Numero1752.

Certo, sono più sapiente io di quest’uomo, anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo proprio un bel niente; soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla, mentre io, se non so niente, ne sono per lo meno convinto, perciò, un tantino ne so più di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che non so, nemmeno credo di saperlo.

Socrate.