Numero2766.

 

da QUORA

 

R I C C H I   E   P O V E R I

 

In primo luogo, bisogna capire che ricchezza non significa avere un conto bancario con un sacco di soldi. La ricchezza è prima di tutto la capacità di creare ricchezza. Esempio: prendiamo qualcuno che vince denaro alla lotteria o al gioco d’azzardo. Anche entrando in possesso di 100 milioni non è un uomo ricco, è un uomo povero con un sacco di soldi. Ecco perché il 90% dei milionari della lotteria sono di nuovo poveri dopo 5 anni.

Ci sono anche persone ricche che non hanno soldi.

Esempio: la maggior parte degli imprenditori sono già sulla via della ricchezza, anche se non hanno soldi, perché stanno sviluppando la loro intelligenza finanziaria e questa è la ricchezza. In che modo i ricchi e i poveri sono diversi? Se vedi un giovane che decide di laurearsi, imparare cose nuove, cercare di migliorare continuamente, sappi che è un uomo ricco. Se vedi un giovane che pensa che il problema sia lo stato, e crede che i ricchi siano tutti ladri e li criticano costantemente, sappi che è un povero.
Non renderai forti i deboli, indebolendo i forti.

La maggior parte dei criminali sono poveri.

I ricchi sono convinti di aver bisogno solo di informazione e formazione per decollare, i poveri credono che gli altri dovrebbero dare loro soldi per decollare.  Mi dispiace per quello che sto per dire, ma la maggior parte dei criminali sono poveri. Quando sono di fronte al denaro, perdono la testa, ecco perché rubano, aggrediscono e così via.

Per loro, questa è una grazia, perché non sanno come loro stessi potrebbero fare soldi. Un giorno, una guardia di banca trovò una borsa piena di soldi, prese la borsa e la consegnò al direttore della banca. La gente chiamava questo signore un idiota, ma in realtà quel signore era solo un uomo ricco che non aveva soldi. 1 anno dopo, la banca gli offrì una posizione di receptionist, 3 anni dopo era responsabile dei clienti e 10 anni dopo, gestiva la direzione regionale di quella banca. Ora gestisce centinaia di dipendenti e i suoi bonus annuali sono al di là del valore che potrebbe aver rubato.

La ricchezza è prima di tutto uno stato d’animo, amico mio.

Numero2759.

 

Ricordate che la saggezza stoica

è un percorso di crescita

personale e di autoconsapevolezza.

Non siamo perfetti

ma possiamo sempre migliorare.

Siate perseveranti,

coltivate la calma interiore,

agite prontamente,

esercitate il vostro autocontrollo,

cercate l’eccellenza

e affrontate l’ansia con saggezza.

Sono questi i pilastri

per una vita significativa e virtuosa.

Possiamo trovare la felicità

accettando ciò che non possiamo controllare

e agendo saggiamente

su ciò che possiamo cambiare.

Numero2756.

 

RIFLESSIONE  SUI  RIFLESSIVI

 

Nella lingua italiana un verbo riflessivo è un verbo che, nella propria coniugazione, è sempre accompagnato da un pronome riflessivo (mi, ti ci, si, vi) ,viene di solito usato quando il complemento oggetto di una frase ne è anche soggetto. Permette di far ricadere l’azione sul soggetto.

Dal punto di vista semantico, spesso i verbi riflessivi hanno la caratteristica di far coincidere l’agente e il paziente (in italiano, il soggetto e il complemento oggetto). In questo senso i linguisti usano anche i termini auto benefattivo e medio.

Categorie di verbi riflessivi

  • Riflessivo proprio

Nelle frasi con un verbo riflessivo proprio il soggetto dell’azione corrisponde al complemento oggetto. Questa categoria può essere considerata l’unica e vera categoria di verbi riflessivi.

Es. Mario si pettina (=Mario pettina se stesso)

Es. Sara si lava (=Sara lava se stessa)

  • Riflessivo apparente

Nei verbi riflessivi apparenti, la particella riflessiva rappresenta il complemento di termine, essendo già presente un complemento oggetto.

Es. Luigi si asciuga i capelli (=Luigi asciuga i capelli a se stesso)

Es. Luisa si pettina i capelli (=Luisa pettina i capelli a se stessa)

  • Riflessivo reciproco

Nei verbi riflessivi reciproci ci sono due soggetti che compiono l’azione descritta (predicato) a vicenda.

Es. Sara e Mario si sposano (= Mario sposa Sara e Sara sposa Mario)

Es. Elena e Laura si scrivono (= Elena scrive a Laura e Laura scrive a Elena)

  • Riflessivo pleonastico

Nei verbi riflessivi pleonastici la particella riflessiva non ha un ruolo fondamentale, infatti se questa viene tolta, il senso della frase non varia. Questa particella riflessiva ha la funzione di rafforzare il significato del verbo esprimendo piacere o soddisfazione nel compimento dell’azione espressa dal verbo.

Es. Si è mangiato una pizza (= Ha mangiato una pizza)

Es. Si è bevuto l’aranciata (= Ha bevuto l’aranciata)

Es. Mi sono comprata una gonna (= Ho comprato una gonna)

Es. Mi sono fatta un regalo per aver superato l’esame (= Ho comprato un regalo per me quale premio per il mio esame).

 

N.d.R.: Ho fatto questa premessa esplicativa per introdurre il seguente mio dubbio personale riguardo a due verbi riflessivi che sentiamo tutti i giorni: sposarsi e laurearsi.

Mi sono sposato: non vuol dire che io ho sposato me stesso. Infatti, ho sposato la donna, fidanzata o compagna, che è salita con me sull’altare o nell’ufficio del Sindaco.

SPOSO e SPOSA

ETIMOLOGIA dal latino sponsus e sponsa, participio passato del verbo spondére ‘promettere solennemente, garantire’.

Oggi, le parole sposo e sposa suonano sempre dolci, tenere: gli sposi si chiamano così solo nel giorno del matrimonio o poco dopo; essi sono sempre, per definizione, “novelli”. Il padre accompagna la sposa all’altare, lo sposo può baciare la sposa dopo la celebrazione, gli sposi sono in luna di miele nel primo mese dopo le nozze. Dopodiché, si tramutano in banali mariti e mogli. Chiamare, in seguito, il proprio coniuge “sposo” o “sposa” significa assurgere a vette di pura, irresistibile poesia.

In realtà, in latino gli sponsi erano tali prima del fatidico giorno matrimoniale (le nuptiae, da cui l’italiano nozze): erano i fidanzati, i promessi sposi (quest’uso della parola è oggi, in italiano, obsoleto o regionale). La parola sponsus, però, non era altro che il participio passato del verbo spondére, cioè “promettere solennemente, garantire”. A sua volta, poi, spondére derivava dal greco σπένδω (spéndo), che indicava anzitutto l’azione di versare un liquido, poi il fare una libagione per sancire ritualmente un accordo, e infine, semplicemente, fare un patto o un trattato. Dalla stessa radice greca derivano anche rispondere (anche nel senso di “essere responsabile per qualcosa”), corrispondere e sponsor (che in latino era il mallevadore, il garante). Anche sponsus, peraltro, con un cambio di declinazione diventava la malleveria, la garanzia. Insomma, è chiaro che qui si parla di accordi suggellati, e delle relative assicurazioni richieste e concesse. In una parola: affari, business.

A tutto questo noi italiani, quando pronunciamo la parola sposa, con quel suo dolce suono spirante vita in fiore e rosei orizzonti, non pensiamo affatto. Non così invece gli ispanofoni, probabilmente, quando pronunciano la parola esposa. Intanto, rispetto all’italiano sposa, lo spagnolo esposa non indica la fidanzata o la sposa novella (che si traducono con novia) bensì, formalmente, la moglie, la consorte. Soprattutto, però, le esposas (solo al plurale), oltre che le mogli sono anche le manette, mentre il verbo esposar non dà proprio adito a dubbi: significa “ammanettare” e nient’altro.

Piacerebbe, agli inguaribili romantici, pensare che si tratti di una circostanza casuale, di una coincidenza. Ahinoi, no: la cosa è proprio intenzionale. Lo spiritosone che ha partorito per primo quest’insolente metafora intendeva precisamente abbinare spose e manette in quanto entrambe nemiche dell’indomita libertà del maschio.

È vero che anche noi italiani non esprimiamo un concetto molto diverso con la parola scapolo, derivante dal latino excapulare, letteralmente “liberarsi dal cappio”.

Quindi, anche etimologicamente, io mi sposo sembra essere una espressione verbale impropriamente detta ed adoperata.

In realtà, chi è preposto alla funzione di sposare qualcuno dovrebbe essere il sacerdote o il sindaco, quindi gli interessati alle nozze sembra che subiscano un’azione fatta da altri da sé.
Attenzione, però! Secondo la Chiesa Cattolica, i ministri del matrimonio sono lo sposo e la sposa. Il sacerdote, pur se presente, non è ministro del sacramento delle nozze. Cosa questa non molto sottolineata e conosciuta a livello popolare. Sono gli sposi che, RECIPROCAMENTE, si impegnano nel contratto del matrimonio, mentre gli officianti dovrebbero limitare la loro sfera di competenza alla ratifica amministrativa. In questo senso, dunque, gli sposi si sposano, l’un l’altro, si prendono promettendosi la continuità della vita in comune. Io mi sposo, ancora di più, è espressione impropria.

 

Io mi sono laureato.

Cosa vuol dire laurearsi?
È il riconoscimento ufficiale del compimento di un corso di studî universitario, che in Italia dà diritto al titolo di dottore: conferire, conseguire, prendere la laurea.
Anche in questo caso, la riflessività dell’azione del verbo è piuttosto opinabile: non è il dottorando o laureando che laurea  se stesso, ma è la Commissione d’esame di Laurea che conferisce la laurea a chi ha compiuto il corso di studi, coronato dalla presentazione di una Tesi di Laurea. Quindi si dovrebbe dire più propriamente: ho conseguito la laurea. Come espressione riflessiva, io mi sono laureato sembra essere auto benefattiva e pleonastica.
La laurea (formalmente anche diploma di laurea) è un titolo di studio universitario rilasciato da un istituto di istruzione superiore, generalmente un’università, dopo aver completato l’intero ciclo di studi previsto da ogni facoltà.
La parola deriva dal latino laurea, femminile di laureus (cinto d’alloro, laurus in lingua latina). Questo aggettivo poteva inoltre essere preceduto dal sostantivo corona e, in tal caso, indicava la corona d’alloro, il lauro imperiale o poetico.
In Italia è tradizione recente porre una corona di alloro sul capo di uno studente che ha conseguito la laurea.
N.d.R.: amara considerazione! Riconosco adesso, solo dopo aver scritto la presente riflessione, che i due argomenti di cui ho trattato, cioè matrimonio e corso di studi, sono gli unici due che nella mia vita hanno avuto come risultato un “nulla di fatto”, cioè un fallimento. È stata una riflessione molto “riflessiva”.

 

 

 

 

Numero2749.

 

da  QUORA

 

L E G G E R E

 

1 – Il cervello dei lettori è diverso – Il cervello delle persone che sanno leggere rispetto a quello degli analfabeti è molto diverso. Le differenze sono: come i cervelli elaborano i segnali visivi, come comprendono il linguaggio, come formano i ricordi, come ragionano. Secondo Feggy Ostrosky-Solis, uno psicologo messicano, “l’apprendimento della lettura plasma potentemente i sistemi neuropsicologici degli adulti”. Per Maryanne Wolf, i sistemi di pianificazione, di analisi del suono e di significato sono utilizzati durante la lettura. L’attività in queste aree triplica quando stiamo leggendo. Più una persona legge, più la lettura diventa automatica, liberando spazio cognitivo per un’analisi intellettuale più profonda. Questo significa che la nostra mente decodifica lettere e parole più facilmente e rapidamente quanto più pratica abbiamo. La lettura diventa più facile con il passare del tempo!

2 – La mente che non legge è non focalizzata per natura – la nostra mente non è fatta per rimanere focalizzata e in profonda concentrazione. Tuttavia, questa capacità è allenata durante la lettura. La nostra mente, per questioni evolutive, è stata progettata per prestare attenzione a qualsiasi stimolo esterno in ogni momento. Questo ci ha permesso di non morire per gli attacchi dei predatori. Di conseguenza, abbiamo questa tendenza mentale a continuare a passare la nostra attenzione tra le migliaia di stimoli che percepiamo. Leggere allena la nostra mente a concentrarsi, a controllare cognitivamente e deliberatamente gli impulsi e le sensazioni. Il non lettore è disattento per natura, perché è così che il nostro cervello viene dalla fabbrica. Secondo Vauhan Bell, uno psicologo ricercatore, questa capacità di focalizzare l’attenzione è qualcosa che non è affatto normale nella storia dello sviluppo psicologico umano.

3. Leggere è conoscenza di sé – Avete mai notato che quando parliamo con qualcuno conosciamo sempre un po’ di più di noi stessi? Se il tuo amico ama le moto, potresti scoprire che lui o lei non ama molto le moto. La stessa cosa succede con la lettura. Quando veniamo catturati (il nome scientifico per questo stato negli studi è Experience Taking) da un personaggio con cui ci identifichiamo, impariamo molto su noi stessi. Sia le cose in comune che quelle che non faremmo mai appaiono in una lettura quando facciamo attenzione ai dettagli, alle motivazioni, alle emozioni e alle personalità dei personaggi. Usiamo tutto questo come base per riaffermare il nostro senso di identità e persino per ricostruirlo in base al personaggio.

Numero2743.

 

I N V E C C H I A R E

 

Invecchi quando smetti di combattere,

di interessarti alla vita, quando decidi

di non dedicarti più a te stesso , per migliorarti,

quando non apprendi più nulla,

quando rinunci a troppe cose,

quando non hai più motivi per rimanere giovane,

quando rimandi , quando ti guardi

indietro invece di guardare avanti.

Si invecchia a piccole dosi , è uno stillicidio.

Ma invecchia più in fretta degli altri

chi non è mai stato giovane e chi

ha avuto veramente poco dalla sua vita.

Numero2742.

da Internet

 

Michelangelo Florio Crollalanza, in arte William Shakespeare

 

La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce da varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.

La teoria dell’origine messinese del grande drammaturgo, scrive Principiato, era stata avanzata anche in sede universitaria, nel 1950, dalla cattedra di storia del diritto italiano dell’ateneo di Palermo, dal professor Enrico Besta. Molto più recentemente, Martino Iuvara da Ispica (Ragusa), pubblicò nel 2002 un volume intitolato “Shakespeare era italiano”, in cui riprese le varie tesi esposte nel tempo, arricchendole con alcuni particolari inediti frutto di sue ricerche. «In particolare – precisa Principiato – avrebbe chiarito il mistero del nome italiano del Bardo che, secondo lo studioso ispicese, era Michelangelo Florio, figlio di un medico di origine ebraica e di religione calvinista e di una nobile siciliana, Guglielma Crollalanza, da cui la traduzione inglese di William Shakespeare». La notizia fu «una ghiottoneria per tutti gli organi di stampa, non solo italiani». Lo stesso “Times”, in un articolo di Richard Owen, «uscì sulla vicenda con toni sorprendentemente accondiscendenti verso la tesi di Iuvara», secondo cui il vero Shakespeare, cioè Michelangelo Florio, nacque a Messina il 23 aprile 1564 da Giovanni Florio, medico e pastore calvinista di origine palermitana, e dalla nobile Guglielma Crollalanza.

Il piccolo Michelangelo, cioè il futuro William, si rivelò subito un bambino prodigio, dotato di grande genialità e appassionato della lettura. A 16 anni conseguì il diploma del Gimnasium in latino, greco e storia. Giovanissimo, a conferma delle sue doti, scrisse una commedia in dialetto dal titolo “Tantu trafficu ppi nenti”. «A causa delle credenze religiose del padre, Michelangelo (o Shakespeare, se preferite), non più al sicuro a causa dell’Inquisizione, venne prima mandato in Valtellina e poi a Milano, Padova, Verona, Faenza e Venezia. Ebbe anche il tempo di tornare a Messina, ma la sua permanenza nella città dello stretto durò poco», continua Principiato. A 21 anni Michelangelo iniziò il suo personale “giro del mondo”: soggiornò prima ad Atene, dove fu insegnante, poi in Danimarca, Austria, Francia e Spagna. «Tornato ancora una volta in Italia, precisamente a Treviso, s’innamorò di una giovane di nome Giulietta». Ma la storia tra i due «finì in tragedia con il rapimento, per cause religiose, e la successiva morte di quest’ultima». Sconvolto per la morte dell’amata, Michelangelo si trasferì a Venezia ma, dopo che anche il padre per le stesse ragioni fu trucidato, decise di mettersi in salvo trasferendosi a Londra. «È qui che Michelangelo Florio cambia identità e diventa il famoso William Shakespeare».

«Lasciatosi alle spalle tutte le paure e i dolori precedenti», “Shakespeare” ebbe finalmente modo di dedicarsi a scrivere per il teatro, continua Principiato. «Le rappresentazioni dei suoi testi ebbero grande consenso tra il pubblico. Ma grande merito del successo andava al dotto e letterato cugino che lo aiutò nelle traduzioni dall’italiano all’inglese e alla moglie, sposata quando il drammaturgo aveva 28 anni, e di 8 anni più grande di lui». Superate le iniziali difficoltà legate al problema della lingua, “Shakespeare” «si impadronì perfettamente dell’inglese, coniando addirittura migliaia di nuovi vocaboli e arricchendo in maniera straordinaria la propria produzione letteraria». Divenne ricco e famoso, e le sue opere molto apprezzate. Morì a Londra il 23 aprile 1616, sempre secondo lo Iuvara. Sicché, “Molto rumore per nulla” sarebbe la versione italiana di “Tantu trafficu ppi nenti”, che Michelangelo Florio di Crollalanza scrisse a Messina intorno al 1579 (manoscritto andato perduto). Ma sono davvero tante le argomentazioni sulla presunta messinesità di Shakespeare, a cominciare da “Amleto”, in cui compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guildenstern, che frequentarono l’università di Padova e che Michelangelo Florio aveva conosciuto. Nella stessa opera si trovano poi molti proverbi, pubblicati da Florio, senza pseudonimi, nel volumetto “I secondi frutti”.

L’origine italiana di Shakespeare, continua Principiato, forse può spiegare i molti luoghi, presenti nelle sue opere, che caratterizzano l’Italia e i nomi italiani: “Romeo e Giulietta”, “Otello”, “Due signori di Verona”, “Sogno di una notte di mezza estate” e “Il mercante di Venezia”, oltre a “Molto rumore per nulla”. Poi “La bisbetica domata”, che è di Padova. E ancora: “Misura per misura”, “Giulio Cesare”, “Il racconto dell’inverno” e “La tempesta”, che inizia a Milano. «Più di un terzo (ben 15) dei suoi 37 drammi sono ambientati in Italia». «Nel “Mercante di Venezia” il colore locale è stupefacente: esatte espressioni marinaresche sono poste in bocca a Salanio e Salerio, si parla del traghetto che unisce Venezia alla terraferma,  si dà l’esatta posizione di Belmont (cioè Montebello, un sobborgo di Venezia) e di Padova, e si da notizia del tragitto che deve essere percorso da Porzia e Nerissa». Proprio nel “Mercante”, il Bardo «rivela una approfondita conoscenza della legislazione veneziana del tempo, completamente diversa da quella vigente in Inghilterra e che nessun inglese del tempo conosce così bene». E c’è di più: «Il maestro Bellario, citato nel testo, adombra un personaggio realmente esistito e molto famoso nell’ambiente giuridico padovano, il professor Ottonello Discalzio». La gran parte delle opere firmate Shakespeare rivela una conoscenza diretta dei luoghi che Michelangelo Florio ha visitato durante la sua giovinezza girovaga. E “Giulietta e Romeo” appare chiaramente come una trasfigurazione artistica della storia d’amore vissuta durante la giovinezza.

Nei registri della scuola secondaria di Stratford, la “Grammar School”, non compare il nome di nessun William Shakespeare, annota Principiato. Si sa che l’artista frequentasse a Londra un “Club In”. In quel club, però, non risulta registrato fra i soci nessuno “Shakespeare”, mentre vi risulta registrato Michelangelo Florio. «E’ noto che la sciattezza della biografia di Shakespeare, raffrontata alla grande mole della sua opera teatrale, ha fatto negare a molti studiosi l’autenticità della sua esistenza, e ritenere essere egli il prestanome di personaggi più famosi». I drammi di Shakespeare, poi, «rivelano una straordinaria esperienza secolare». Aveva ad esempio una buona conoscenza della legge, e fece largo uso di termini e precedenti legali: nel 1860 John Bucknill scriveva di lui dicendo che conosceva a fondo la medicina. Lo stesso si può dire delle sue nozioni di caccia, falconeria e altri sport, come pure dell’etichetta di corte. Lo storico John Mitchell lo definisce «lo scrittore che sapeva tutto». Un uomo di lettere? Il padre di William, John, (quello inglese) era un guantaio, commerciava in lana e forse faceva il macellaio. Era proveniente da una famiglia di contadini e piccoli proprietari terrieri (yeomen) del Warwickshire: un suddito rispettato, ma illetterato.

E’ noto che “Shakespeare” conoscesse bene anche la storia romana: sapeva anche che Pompeo aveva soggiornato a Messina, nel 36 a.C. Nella Commedia “Antonio e Cleopatra”, infatti, conoscendo questi fatti storici, parla della casa di Pompeo che è a Messina e proprio lì ambienta l’atto II, scena I: “Messina. In casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Menas, in assetto di guerra”». In “Molto rumore per nulla”, commedia degli equivoci, «sono riscontrabili modi di dire e doppi sensi propri della parlata messinese», addirittura “Mìzzeca, eccellenza!” (Atto V scena I). Osserva Principiato: “crollare”, in italiano antico, significava “scrollare”, dimenare qua e là; quindi “crollalanza” è il traducente perfetto di “shakespeare”. «L’atto da cui deriva il cognome  risale alla “Germania” di Tacito: “Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt. Honoratissimum adsensus genus est armis laudare», (capitolo 11). Traduzione: “Se il parere non è piaciuto, [I germanici in assemblea] lo respingono mormorando; se invece è piaciuto [s]crollano le lance. È il modo più onorevole d’approvazione, lodare con le armi”. E la voce “crollare”, nell’autorevolissimo Tommaseo-Bellini, «dimostra indubitabilmente l’accezione antica di “crollare” che equivale al “concutio” tacitiano e all’inglese  “shake” scespiriano».

I biografi, aggiunge Principiato, ipotizzano che Shakespeare abbia maturato la sua vasta conoscenza della legge e la sua accurata familiarità con i modi, il gergo e i costumi degli avvocati dopo essere stato lui stesso, per poco tempo, il cancelliere del tribunale di Stratford. Ipotesi ben poco credibile. E poi: chi conservò i manoscritti di Shakespeare? Attorno a Stratford non ve n’era traccia. «Un religioso del XVIII secolo controllò tutte le biblioteche private nel raggio di 80 chilometri da Stratford-on-Avon senza trovare un solo volume che fosse appartenuto a Shakespeare». E i manoscritti dei drammi, aggiunge Principiato, costituiscono un problema ancora maggiore: «Non risulta che sia stato preservato nessuno degli originali. Trentasei drammi furono pubblicati nel primo in-folio del 1623, sette anni dopo la morte di Shakespeare. E’ da ritenere che tutte le opere fossero in mano ai Florio, che non potevano ufficialmente giustificarne la provenienza». Tutto questo, nonostante tenga ancora banco – ufficialmente – la vulgata della nazionalità britannica del grande artista.

L’opinione maggioritaria tra gli studiosi identifica infatti il drammaturgo con il William Shakespeare nato a Stratford-on-Avon nel 1564, trasferitosi a Londra e diventato attore e contitolare della compagnia teatrale chiamata “Lord Chamberlain’s Men”, proprietaria del Globe Theatre a Londra. Quest’uomo divise la propria vita tra Londra e Stratford, dove si ritirò nel 1613 e dove sarebbe poi morto nel 1616. Di lui possediamo la data di battesimo, il 26 aprile 1564. Oltre ad alcuni particolari sui genitori di Shakespeare, gli storici sono inoltre in possesso del certificato di matrimonio di William – datato 27 novembre 1582 – e dei certificati di battesimo dei suoi tre figli. «La visione scettica afferma invece che lo Shakespeare di Stratford fu semplicemente il prestanome di un altro drammaturgo non rivelatosi». Argomenti a sostegno di questa tesi: «Le ambiguità e le informazioni mancanti nella visione tradizionale e l’affermazione che le opere teatrali di Shakespeare richiedevano un livello culturale (compresa la conoscenza per le lingue straniere) maggiore di quello che si suppone Shakespeare avesse». In più, svariati indizi «suggeriscono che l’autore sia deceduto mentre lo Shakespeare di Stratford era ancora in vita: i dubbi sulla sua paternità espressi da suoi contemporanei».

Gli “stratfordiani” sostengono che Shakespeare avrebbe potuto frequentare la The King’s School di Stratford fino all’età di quattordici anni, dove avrebbe studiato i poeti latini e le opere teatrali di autori come Plauto e Ovidio. Ma si tratta di semplici congetture, obietta Principiato, perché «non esistono registri di ammissione o di frequenza che parlino di lui in alcuna scuola secondaria, college o università». Molti “anti-stratfordiani”, poi, si interrogano sul trattino che spesso appare nel nome, spezzandolo in due (“Shake-speare”): secondo loro indica che si tratti di uno pseudonimo. Quel trattino, ad esempio, appare sul frontespizio dei “Sonetti” del 1609. Uno studioso di Oxford come Charlton Ogburn fa notare che, fra le 32 edizioni delle opere di Shakespeare pubblicate prima del “First Folio” del 1623 in cui l’autore veniva menzionato, il nome conteneva il trattino in ben 15 casi, quasi la metà. «Ciò è molto significativo, poiché rafforza la tesi del cognome composto: scrolla = shake, lanza/lancia=speare». Altre stranezze, infine, sulla sua morte: nel 1700 Richard Davies scrisse che morì da cattolico, «frase che forse potrebbe confermare la circostanza che egli fosse in precedenza calvinista, come Michelangelo Florio, per poi convertirsi al cattolicesimo». Ma soprattutto: «Quando muore, il 23 aprile 1616, nessuna commozione né lutto nazionale si registrano in Inghilterra, quasi fosse uno straniero».

 

 

WILLIAM SHAKESPEARE

ERA ITALIANO?

di C. Sangiglio

 

1.

Non è affatto improbabile che sussista, al pari della “questione omerica” anche una “questione shakespeariana”!

Molte biografie sino ad oggi hanno visto la luce, moltissimi articoli e saggi sono stati pubblicati, diverse teorie sono state elaborate in relazione all’identità di questo poeta e drammaturgo, autore di 36 capolavori del teatro, un vero e proprio emblema e vanto della letteratura inglese.

Finalmente, però, Shakespeare, chi era costui?, come direbbe qualcuno che conosciamo.

Dopo tutto, i soli elementi noti che possediamo e riguardano un William Shakespeare, tranne che fosse il figlio di John Shakespeare e di Mary Arden, di religione cattolica, sono:

a) la data di battesimo, il 26 aprile 1564, di un “Gulielmus Johannes Shakespeare [NB. Non esiste una data di nascita, sì che, come ci risulta, a posteriori è stata “fissata” come data di nascita il 23 aprile 1564 senza che nessuno sappia chi ne è l’ispiratore o l’autore e perchè proprio il 23.4.: forse per analogia (!) con la data della sua morte – 23.4.1616 – o forse perchè il 23 aprile è la festa di San Giorgio, patrono dell’Inghilterra(!)];

b) la data del matrimonio, il 27 novembre 1582, “inter William Shaxpere et Hannam Whateley de Temple Grafton”, anche qui con la solita imprecisione in merito al nome, visto che in realtà il nome della moglie di W.S. era Anne Hathaway;

c) questo risulta appunto il nome e cognome di quest’ultima quando decedette il 6 agosto 1623: quindi in contrasto con quello del matrimonio!;

d) la data di battesimo, il 26 maggio 1583, di Susan, prima figlia di W.S.;

e) la data di battesimo, il 2 febbraio 1585, dei gemelli “Hamnet and Judeth, son and daugther to W.S.”;

f) infine, un documento del 1589 (ignoro di quale valore giuridico o/e amministrativo) nel quale William appare come erede di John e Mary Shakespeare ed alcuni altri documenti miscellanei privi di qualche valore indicativo e chiarificante.

Come è evidente, dunque, si tratta di elementi che non rivelano, non dichiarano e non spiegano assolutamente nulla su chi in effetti fosse e non fosse W.S., quale insomma la sua presenza sulla terra.

E poi esiste un dato di fatto che a me pare assai interessante, per quanto in prosieguo verrà esposto: gli stessi inglesi dicono, ammettono, che la madre di W.S. fosse cattolica.

Ma una cattolica (da sola? con una famiglia?: nessuna sa nulla) come era capitata in una così ristretta società protestante come quella che doveva esservi a Stratford nella prima metà del 1500?! In un paese dove i pochi o numerosi cittadini di altre nazionalità erano anch’essi protestanti rifugiàtisi lì per salvarsi dalla cattolica Inquisizione, una donna cattolica doveva essere come la mosca in un bicchiere di latte! Già però questo elemento della “cattolicità” della madre non appare alquanto sospetto?

Certo, con simili dati e solo con simili “tangibili” dati nessuno può e ha il diritto di asserire che si tratti di William Shakespeare, il grande trageda del XVI secolo in Europa. D’altronde anche le biografie dell'”inglese” W.S. non offrono nulla o quasi nulla di sostanziale e assolutamente accertato e accertabile per ciò che concerne chi esattamente fosse questo scrittore che “dicono” essere nato il 23.4.1564 a Stratford-upon-Avon, dove abbia vissuto, dove e se abbia studiato e cosa abbia studiato, quali siano state le, sia pure pochissime, condizioni e situazioni di vita che abbiano segnato la sua opera e le sue impareggiabili cognizioni.

La sua biografia “inglese”, tranne le molte “avventurose” circostanze, totalmente indimostrabili, episodi abbelliti o drammatizzati senza prova alcuna e congegnati solo per creare impressioni e ammirazione, viene a dirci in sostanza: “Tutto quello che conosciamo di William Shakespeare è che è nato nell’aprile 1564 a Stratford-upon-Avon, cittadina del Warwickshire, a nord-ovest di Londra, lì si è sposato all’età di 18 anni, nel novembre 1582, con Anne Hathaway, ha avuto tre figli, Susan e i gemelli Hamnet e Judhit, è andato a Londra dove ha lavorato come attore, ha scritto opere poetiche e teatrali, è tornato a Stratford, ha redatto il proprio testamento, è morto nel 1616 all’età di 52 anni e lì è stato seppellito” – tutto ciò infiorettato con molti elementi soi-disant “biografici” e varie “imbottiture” che però nessuno è in grado di verificare e identificare, creando di conseguenza una cornice entro la quale la figura del Bardo permane sommamente fluida e inafferrabile.

Ove si voglia però essere più chiari, allora occorre dire che in questa già di per sè “ombra di biografia” è come se dal 1564 al 1582 non abbia vissuto nessun Shakespeare! Egli compare poi nel 1582 quando (dicono) si sposa ed “esiste” fino al 1585, ovvero negli anni (dicono) di battesimo (non di nascita!) dei suoi (dicono) tre figli. Di seguito, nuovamente non esiste nessun Shakespeare dal 1585 al 1592, quando ricompare ormai famoso attore e scrittore teatrale! A conti fatti, quindi, nessun W.S. esiste proprio negli anni della più importante formazione scolastica e nei primi anni formativi della creazione letteraria! Molto strano, per essere una semplice coincidenza.

A questo punto non dimentichiamo il particolare di un Michelangelo Florio Crollalanza venuto a stabilirsi in Inghilterra nel 1588 e poco dopo divenuto William Shakespeare, come vedremo più sotto.

Pertanto, non conosciamo quasi nulla per molti anni della sua (dicono) esistenza e parimenti nulla sussiste che colleghi la sua vita e in particolare la sua opera con il suo luogo natale, questo Stratford che, in quei tempi, non doveva essere null’altro che un insignificante borgo della campagna inglese. Questa inesistenza di rapporti non sembra quindi assai insolita, per non dire incomprensibile? E ciò perchè nella storia dell’arte e delle lettere non esiste autore che, in un modo e nell’altro, poco o molto, non abbia collegato la propria opera, o parte di essa, al luogo di nascita, e non ne abbia parlato, in bene o in male, o semplicemente se ne sia riferito sia pure a mo’ di citazione. Presso Shakespeare invece una simile “connessione” è provatamente irriscontrabile! E la cosa più seria è che non esiste nè è stata trovata alcuna logica spiegazione di tale “originalità”!

Un riferimento indiretto, anch’esso negativo, a William Shakespeare scopriamo nel 1592 in un pamphlet di Robert Greene, importante prosatore dell’età elisabettiana, suo avversario o rivale, dal titolo A Groath’s Worth of Wit bought with a Million repentance (Una monetina di spirito comprata con un milione di pentimento), noto anche come A Groathworth of With, nel quale Greene con pesanti espressioni accusa Shakespeare di arrivismo: “Non sembra strano che voi ed io, ai quali finora tutti si sono inchinati, all’improvviso dobbiamo vederci così abbandonati? Un villano corvo, fàttosi bello con le nostre penne, con il suo cuore di tigre rivestito con la pelle di un attore, crede di essere capace di dar voce a versi sciolti come fosse il migliore di voi e nulla di più essendo che un Johannes factotum crede di essere l’unico scuoti-scena (“Shake-scene”) di tutto il paese”, dove chiaramente è indicato Shakespeare (= Shake-scene) anche per la citazione di un verso (“Cuor di tigre”) dall’Enrico VI.

2.

Accostiamoci adesso ad un’altra versione sul tema della reale esistenza del nominato William Shakespeare, anche in relazione alla sua opera.

Sin dal 1927 il giornalista Santo Paladino, a Roma, in un suo articolo al giornale L’Impero il 4 febbraio dal titolo “Il grande poeta tragico Shakespeare era forse italiano” scrive che Shakespeare era Michelangelo o Michel Agnolo Florio, figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza, quello stesso Michelangelo Florio Crollalanza, di fede calvinista, un libro del quale, dal titolo I secondi frutti, scritto verso la fine del XVI secolo, apparve in Italia, contenente proverbi della Sicilia e specialmente di Messina, molti dei quali si sono trovati più tardi nell’Amleto di Shakespeare!

La teoria dell'”italianità” di Shakespeare ritornò sulla scena il 1950 ad opera di Enrico Besta, professore di Storia del Diritto Italiano alle Università di Palermo, senza tuttavia alcun interessante seguito o esito, come pure avvenne con le proposte negli stessi anni ’50 di Carlo Villa e, alcuni anni prima, di Paolo Viganò e Luigi Bellotti, che esprimevano, in maniera un po’ paradossale, è vero, logiche perplessità sulla nazionalità di Shakespeare e assicurazioni sulla realtà del nome italiano.

Negli stessi anni ’50, esattamente nel 1955, il medesimo Paladino nel libro Un italiano autore delle opere shakespeariane confermò l’idea di un Michelangelo Florio autore delle opere attribuite a William Shakespeare, precisando che tali opere scritte in italiano, erano tradotte in inglese in collaborazione con l’attore William Shakespeare, il quale diventò così quasi prestanome o coautore.

L’8 aprile 2000 nei The Times di Londra fu pubblicato un articolo di Eichard Owen il quale, in rapporto agli studi di un college inglese e del professore italiano Martino Iuvara, riferisce che William Shakespeare deve essere nato a Messina in Sicilia, città che fu costretto ad abbandonare poi per stabilirsi in Inghilterra fuggendo alle ricerche della Sacra Inquisizione (in quell’epoca – 1530/1600 – la Sicilia si trovava sotto occupazione spagnola) che minacciava la vita dei suoi genitori, convinti calvinisti. A Stratford-upon-Avon, dove si fermò, cambiò il proprio cognome da (Michelangerlo Florio) Crollalanza nell’ inglese Shakespeare,1 mentre il nome lo derivò dal nome di un suo cugino (figlio di un fratello di sua madre da tempo stabilitosi in Inghilterra) morto prematuramente e chiamato William.

Una seconda versione considera che il nome di William altro non è che la esatta traduzione inglese del nome della madre, appunto Guglielma. È comunque così che è “nato” William Shakespeare.

L’articolo del The Times continua: “Il segreto del come e perchè William Shakespeare conoscesse così bene l’Italia e “abbia messo” tanta Italia nelle sue opere lo ha risolto un accademico siciliano: il fatto è che W.S. non è per nulla Inglese, ma Italiano. Le biografie del Bardo convengono sul fatto che sussistono moltissimi vuoti (voragini) relativamente alla sua esistenza(…) Il professor Martino Iuvara sostiene che Shakespeare era Siciliano, nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza, si rifugiò a Londra a causa della Sacra Inquisizione essendo di fede calvinista e lì tramutò il proprio nome nel perfetto corrispondente inglese”.

Peraltro, l’interpretazione di Iuvara esprime una versione assolutamente obbiettiva, di sicuro molto più circostanziata e del tutto differente da quella, non poco romanzesca, delle versioni britanniche. La Sacra Inquisizione si trovava sulle tracce del medico Giovanni Florio e di sua moglie Guglielmina Crollalanza, figlia di una famiglia nobile di Messina, entrambi calvinisti, ossia “eretici” nell’intendimento delle inquirenti autorità ecclesiastiche spagnole. Così, insieme col figlio Michelangelo o Michel Agnolo abbandonarono Messina e si stabilirono a Treviso, non lontano da Venezia, dove acquistarono (o affittarono) la Casa Otello, costruita da un nobile veneziano di nome Otello, sul conto del quale circolavano voci secondo cui egli, accecato dalla gelosia, aveva ucciso la propria consorte.

The Times: “Michelangelo studiò a Venezia, a Padova e a Mantova e viaggiò in Danimarca, Grecia, Spagna e Austria. Era amico del filosofo e monaco Giordano Bruno che nel 1600, condannato quale eretico dalla Sacra Inquisizione, morì a Roma sul rogo. G. Bruno disponeva di cospicui collegamenti con l’Inghilterra, come William Herbert, conte di Pembroke, e il conte di Southampton. Il 1588, all’età di 24 anni, Michelangelo trova rifugio in Inghilterra dopo che sicari Spagnoli avevano assassinato i suoi genitori”. In Inghilterra Michelangelo gode della protezione dei due nobili, e addirittura più tardi dedicherà al conte di Southampton due opere poetiche, Venus and Adonis e The Rape of Lucrece. Risiede nell’abitazione di un parente della madre Crollalanza il quale già da tempo aveva mutato il proprio cognome in Shakespeare. Un figlio di costui, di nome William, era morto ancora neonato.

Questa è la “versione Iuvara”. Nondimeno, non è l’unica, giacché nella stessa Inghilterra e nel medesimo anno gli studenti del Port Arthur Collegiate Institute non hanno nessuna difficoltà a discutere e in certo modo indirettamente avallare l’esistenza di un’idea che molto dista dalle ufficiali convinzioni e concezioni inglesi e che introduce un’interpretazione la quale totalmente annulla la maggiore “istituzione letteraria” inglese nella persona di William Shakespeare, forse perché la versione Iuvara, in connessione con la sostanziale inesistenza di “sostegni” inglesi assolutamente probanti, appare obbedire ad una logica assai convincente e verosimile, più prossima a verità.

Con il titolo: “Shakespeare was Italian? – To be believed or not?” il testo degli studenti si esprime come segue, in gran parte riflettendo la teoria Iuvara forse perché considera che la stessa non sia da rigettare:

“This question was asked of as students at Port Arthur Collegiate Institute as part of our English lessons.

Is Shakespeare, as a displanted Italian supposed to explain the many Italian plays, characters with Italian names, and references?

It has been suggested that he was actually born in Messina, Sicily, not too far from Simbario, Catanzaro, as Michelangelo Florio Crollalanza. His parents were not John Shakespeare and Mary Arden, but were Giovanni Florio, a doctor, and Guglielma Crollalanza, a Sicilian noble woman.

Does this perhaps begin to explain that many of the plays feature Italy and/or Italian names, such as:

Questa domanda è stata posta agli studenti del Port Arthur Collegiate Institute come parte delle nostre lezioni di inglese. Shakespeare, in quanto italiano dispiantato, dovrebbe spiegare le molte commedie italiane, personaggi con nomi e riferimenti italiani? È stato suggerito che fosse in realtà nato a Messina, in Sicilia, non troppo lontano da Simbario, Catanzaro, come Michelangelo Florio Crollalanza.I suoi genitori non erano John Shakespeare e Mary Arden, ma erano Giovanni Florio, medico, e Guglielma Crollalanza, nobildonna siciliana. Certo, questo comincia a spiegare che molte delle commedie presentano l’Italia e/o nomi italiani, come:

Romeo and Juliet (Romeo e Giulietta)

Othello (Otello)

Two Gentlemen of Verona (Due Signori di Verona)

A Midsummer Night’s Dream (Sogno di una notte di mezz’estate)

The Merchant of Venice (Il Mercante di Venezia)

Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla)

The Taming of the Shrew (La bisbetica domata)

All’s Well that Ends Well (Tutto è bene ciò che finisce bene)

Measure for Measure (Misura per misura)

Julius Caesar (Giulio Cesare)

The Winter’s Tale (Racconto d’Inverno)

The Tempest (La tempesta)

It is rather impressive that Italy and Italian names are so widespread in Shakespeare. It makes you wonder?
(È puittosto impressionante che l’Italia e i nomi italiani siano così diffusi in Shakespeare. Vi meraviglia?)

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A professor in Italy claims that Shakespeare was Italian from Messina Italy.

The Times of London, April 8th, 2000, reported that Martino Iuvara, a retired literature teacher, believes Shakespeare was actually Michelangelo Florio Crollalanza, who escaped to England during the Inquisition.

Shakespeare is supposedly the literal translation of Crollalanza.

Some details of Crollalanza’s life are eerily close to the characters and places that occupy Shakespeare’s plays and might explain the predominance of Italian names and places in many of Shakespeare’s plays.

Un professore in Italia afferma che Shakespeare era italiano di Messina, Italia. Il Times di Londra, l’8 aprile 2000, riferì che Martino Iuvara, un insegnante di lettere in pensione, crede che Shakespeare fosse in realtà Michelangelo Florio Crollalanza, fuggito in Inghilterra durante l’Inquisizione. Shakespeare è presumibilmente la traduzione letterale di Crollalanza. Alcuni dettagli della vita di Crollalanza sono stranamente vicini ai personaggi e ai luoghi che occupano le opere di Shakespeare e potrebbero spiegare la predominanza di nomi e luoghi italiani in molte delle opere di Shakespeare.

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In another write up the author, Amanda Mabillard writes the following:

“Retired Sicilian professor Martino Iuvara claims that Shakespeare was, in fact, not English at all, but Italian. His conclusion is drawn from research carried out from 1925 to 1950 by two professors at Palermo University. Iuvara imposits that Shakespeare was born in Stratford in April 1564, as is commonly believed, but actually was born in Messina as Michelangelo Florio Crollalanza. His parents were not John Shakespeare and Mary Arden, but Giovanni Florio, a doctor, and Guglielma Crollalanza, a Sicilian noblewoman. The family supposedly fled Italy during the Holy Inquisition and moved to London. It was in London that Michelangelo Florio Crollalanza decided to change his name to its English equivalent. Crollalanza apparently translates literally as “Shakespeare”. Iuvara goes on to claim that Shakespeare studied abroad and was educated by Franciscan monks who taugt him Latin. Greek and History. He also claims that while Shakespeare (or young Crollalanza) was traveling through Europe he fell in love with a 16-year-old girl named Giulietta. But sadly, family members opposed the union, and Giulietta committed suicide…”

She goes on to write, “Granted, the above similarities between Michelangelo Florio Crollalanza and Shakespeare are intriguing, but for now I remain unconvinced”.

The question was posed to us as student at Port Arthur Collegiate Institute as part of our English exam questions, and it appears the internet will hopefully bring to light some of the details surrounding the origins of these plays.”

In un altro scritto dell’autrice, Amanda Mabillard scrive quanto segue: “Il professore siciliano in pensione Martino Iuvara afferma che Shakespeare, in realtà, non era affatto inglese, ma italiano. La sua conclusione è tratta da una ricerca condotta dal 1925 al 1950 da due professori all’Università di Palermo. Iuvara ipotizza che Shakespeare sia nato a Stratford nell’aprile del 1564, come si crede comunemente, ma in realtà sia nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza. I suoi genitori non erano John Shakespeare e Mary Arden, ma Giovanni Florio, medico, e Guglielma Crollalanza, una nobildonna siciliana. La famiglia sarebbe fuggita dall’Italia durante la Santa Inquisizione e si sarebbe trasferita a Londra. Fu a Londra che Michelangelo Florio Crollalanza decise di cambiare il suo nome con l’equivalente inglese. Crollalanza si traduce letteralmente come “Shakespeare”. Iuvara continua ad affermare che Shakespeare ha studiato all’estero ed è stato educato da monaci francescani che gli hanno insegnato il latino, il greco e la storia; afferma inoltre che mentre Shakespeare (o giovane Crollalanza) viaggiava per l’Europa si innamorò di una ragazza di 16 anni di nome Giulietta. Ma purtroppo i membri della famiglia si sono opposti all’unione e Giulietta si è suicidata…” Continua scrivendo: “Certo, le somiglianze di cui sopra tra Michelangelo Florio Crollalanza e Shakespeare sono intriganti, ma per ora rimango poco convinta”.
La domanda è stata posta a noi come studenti al Port Arthur Collegiate Institute come parte delle nostre domande d’esame di inglese, e sembra che Internet possa portare alla luce alcuni dei dettagli che circondano le origini di queste commedie”.

D’ altra parte il prof. Iuvara completa il proprio pensiero con molti altri elementi conoscitivi che danno impulso a logici nessi e riscontri di una corretta riflessione. Così egli si chiede: come può il figlio di un guantaio, come la storia vuol farci credere, disporre di quelle amplissime cognizioni della letteratura classica che Shakespeare dimostrò di possedere? Come avrebbe potuto un poeta inglese di quell’epoca descrivere così fedelmente luoghi, paesaggi e persone italiane come in effetti riscontriamo, nè più nè meno, in ben 15 delle 36 opere dell’immenso Shakespeare? E perché la sua biblioteca personale non è mai stata posta a disposizione dei suoi biografi e degli studiosi?

Esistono documenti che dimostrano che Michelangelo Crollalanza era figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza ed è nato a Messina nel 1564. Ha imparato il latino, il greco antico e storia nella scuola dei Francescani. All’età di 15 anni fu costretto a partire insieme alla famiglia per andare nel Veneto, nell’Italia del nord, a causa della fede calvinista dei suoi genitori, che la Sacra Inquisizione aveva condannato al rogo perché suo padre aveva pubblicato delle accuse alla Chiesa Cattolica. Conobbe e s’innamorò di una giovane di nome Giulietta, rapita dal Governatore e poi morta suicida. Quanto alla lingua, le sue prime opere, dopo che si era stabilito in Inghilterra, venivano tradotte in inglese prima di essere presentate sulla scena del teatro di legno “The Globe” (N.d.R. : a quel tempo le compagnie teatrali viaggiavano su un carro di legno che fungeva anche da scena). Successivamente, era sua moglie inglese che si occupava delle traduzioni, mentre i suoi stessi biografi dell’epoca riscontravano in Shakespeare una pronuncia chiaramente straniera.

E il prof. Iuvara conclude: “Credo che nessuno mai in Inghilterra ha avuto il coraggio di rendere pubblica la biblioteca personale di Shakespeare. In essa potremmo conoscere la sua vera identità. Certo, capisco la reazione degli Inglesi. È come se all’improvviso qualcuno dicesse a noi, ad esempio, che Dante era in realtà spagnolo!”

La teoria del professor Iuvara fu pubblicata in Italia in volume col titolo “Shakespeare era italiano”.

A queste riflessioni che invero non sembrano essere affatto peregrine, tra il XIX e il XX secolo diverse ipotesi furono avanzate circa una identità di persona tra William Shakespeare e John o Giovanni Florio. Così, a seguito di tali esegesi sembrerebbe essersi generata una combinazione o promiscuità tra Michelangelo Florio e Giovanni Florio, nella quale ovviamente si confonde anche l’elemento temporale trattandosi di due personaggi, comunque vengano collocati, vissuti in archi di tempo chiaramente diversi.

Entro queste linee direttive, in ogni modo, verso la fine del 1800 Thomas Spencer Baynes, curatore della IX edizione della Enciclopedia Britannica evidenziò in maniera esauriente i rapporti intercorsi tra un Shakespeare e un Giovanni Florio, linguista di origine italiana.

Il testo di Baynes – val la pena di rilevare – fu del tutto eliminato a partire dalla XI edizione dell’Enciclopedia! Strano?

A parte tutto, comunque, la presenza in Inghilterra di John Florio è documentata dalle ricerche di John Harding sulle relazioni Florio-Shakespeare. A proposito, questo studioso affermava (e ne danno conferma la figlia Julie Harding e il prosatore Saul Gerevini, autore del saggio William Shakespeare, ovvero John Florio: un fiorentino alla conquista del mondo) che intorno al 1584 Florio firmava con lo pseudonimo “John Soowthern”, ossia “Giovanni che viene dal sud”, piuttosto dal sud dell’Italia!

Più tardi (1921) la statunitense Clara Longworth de Chambrum e la britannica Frances Yates (1934) si soffermarono su questa ipotizzata ma mai chiarita “coesistenza” e perfino “identità” tra un Shakespeare inglese e un Florio italiano.

L’interconnessione tra Michelangelo e Giovanni Florio viene “rivisitata” nel 2010 dal docente presso l’Università di Montreal, Lamberto Tassinari: “Semplicemente fanno finta di non vedere che John Florio è l’autore delle opere di Shakespeare! Florio ha dato a Shakespeare così numerose parole, idee e conoscenze che debitore e creditore sono diventati uno” (intervista di L. Tassinari in www.bibliosofia.net/MichaelMirolla_interviewInteressante è anche www.shakespeareandflorio.net

Lo stesso Tassinari comunque due anni prima (2008) aveva provveduto a rendere note nel migliore dei modi le sue ricerche pubblicando il libro Shakespeare? È il nome d’arte di John Florio. Vale la pena, credo, riportare alcune considerazioni espresse nel predetto volume: ” Il ‘William Shakespeare’, gestore di una compagnia teatrale e uomo d’affari poco scrupoloso, dedito persino all’usura, nato in una famiglia di semianalfabeti e a sua volta genitore di figli incolti, vissuto in un ambiente ineducato e grezzo, e autore, questa volta accertato, di un testamento sgrammaticato, sarebbe, secondo gli scettici, un puro prestanome dietro il quale si celerebbe qualcuno dalla mente superiore e dalle esperienze culturali e di vita ben altrimenti più ricche”.

3.

Un altro scrittore e studioso italiano, Oreste Palomara, proseguendo sul cammino di Martino Iuvara, formula altri elementi che integrano il puzzle della presenza del drammaturgo “italo-inglese”. Palomara esamina le posteriori costruzioni biografiche e apprende che egli era il terzo di otto figli di John Shakespeare. William Shakespeare però dappertutto in Inghilterra compare già adulto, affermato poeta e scrittore drammatico, anche se egli stesso cerca, piuttosto ingiustificatamente a ben pensarci, di accentuare un alone di mistero intorno a sé, come se volesse nascondersi dietro di esso.

Un simile comportamento veniva forse tenuto per non farsi molto probabilmente individuare dai suoi persecutori i quali, già alcuni anni prima, avevano eliminato suo padre Giovanni Florio e sua madre Guglielma Crollalanza in Italia e stavano cercando anche lui? A parte il fatto poi che non esiste da nessuna parte nessun ricordo o traccia degli altri (ben) sette fratelli: come se non fossero mai esistiti!

Il mistero diventa più denso con la presenza di alcuni altri particolari che non sembrano essere tanto insignificanti, e cioè:

a) nei registri della scuola secondaria a Stratford non esiste nessuno con il nome di Shakespeare;

b) nel 1603 il nome di Shakespeare sparisce dai registri degli attori, forse per far perdere qualsiasi traccia che potrebbe aiutare i suoi persecutori della Sacra Inquisizione;

c) sappiamo che William Shakespeare frequentava a Londra un Club In. In questo Club In non risulta nessun membro con questo nome. Esiste però scritto il nome di Michelangelo Florio.

Ora, indipendentemente da tutti gli elementi sin qui esaminati, elementi che dimostrano situazioni personali ed obbiettivi criteri di conoscenza che nessuno può disconoscere o rifiutare acriticamente, esistono altresì altri dati il riconoscimento dei quali non deve considerarsi per nulla né irrilevante né superfluo.

I drammi di Shakespeare rivelano una eccezionale esperienza mondana. Il poeta conosceva molto bene la scienza giuridica e abbondantemente ha utilizzato termini legali e le corrispondenti procedure espressive. Peraltro, nel 1860 John Bucknill scrisse che Shakespeare conosceva a fondo la scienza medica (“Medical knowledge of Shakespeare”). Parimenti egli era in possesso di estese cognizioni venatorie, di addestramento degli avvoltoi, come pure di altri sport, ma anche delle regole del cerimoniale di Corte.

Lo storico John Mitchell riconosce che Shakespeare è “lo scrittore che sapeva tutto”! Nelle sue opere, in cinque casi, parla di naufragi e il fatto che utilizzi una ben precisa terminologia nautica presuppone che abbia studiato l’arte marinara o sia stato egli stesso un esperto marinaio. Ha fors’anche partecipato alla battaglia navale nella quale fu distrutta l’ Invincible Armada spagnola nel 1588?

Tutto ciò non compare nella vita del drammaturgo attraverso le biografie. Lo stesso accade anche con le sue cospicue conoscenze nelle questioni militari e nell’idioma linguistico dei fantaccini. Gli elementi biografici inglesi che disponiamo non rivelano l’esistenza di ampie e speciali cognizioni in questo Shakespeare “inglese”, peraltro già di ignote disposizioni e successi scolastici.

Certo, nelle opere di Shakespeare non mancano altresì i riferimenti a passi biblici aventi un notevole peso specifico nei relativi racconti e trame: l'”italiano” Crollalanza-Shakespeare è molto probabile che ne abbia avuto l’insegnamento da parte della madre, istruita, nel quadro della sua fede calvinista. Al contrario, nessuna prova esiste, né mai è stata avanzata l’ipotesi che sua madre “inglese” fosse istruita e abbia potuto insegnare alcunché ai propri figli.

Quanto poi al padre “inglese” di Shakespeare, John era un guantaio, come più sopra ricordato, forse pure macellaio e cuoiaio, ovvero un cittadino onesto e rispettabile quanto si voglia, ma ignorante (analfabeta?). Il padre “italiano”, Giovanni Florio (anche lui John/Giovanni!), era invece un noto medico a Messina, mentre la madre discendeva da una nobile famiglia siciliana e di certo era istruita, come allora e sempre sono soliti essere le nobili casate.

Collegando quindi i predetti elementi, si pone la questione dell’istruzione e della cultura di Shakespeare. Viene naturale pensare che nel caso del Shakespeare “inglese”, considerata la generale istruzione (o, forse, non-istruzione?) familiare e le obbiettive condizioni e situazioni di vita sociale in un villaggio come Stratford nella prima metà del 1500, le probabilità di una importante istruzione sono quasi nulle, come d’altronde se ne ha la conferma vista la parallela relativa inesistenza anche nelle esposizioni biografiche.

Al contrario, nel caso dell'”italiano” Crollalanza e tenuto conto della cultura dei suoi genitori e dell’elevato livello familiare oltre che degli studi compiuti dal giovane Michelangelo in Italia, le grandi, incredibili cognizioni manifestate dal successivo William Shakespeare, un nome che è l’esatta traduzione letterale del corrispondente italiano, appaiono assolutamente giustificate e certificate.

In tal modo quando Michel Agnolo-Michelangelo Florio Crollalanza divenne William Shakespeare in Inghilterra si riferiva a qualcuno che già in Italia non era semplicemente istruito, ma totalmente in possesso di un’istruzione enciclopedica con profonde radici nella cultura, storia, tradizioni, realtà italiane per non dire specialmente della natìa Messina in Sicilia, come palesemente testimoniano almeno due “circostanze” connesse con l’opera dello stesso Shakespeare, ossia:

a) la commedia Molto rumore per nulla (Much Ado about Nothing) altro non è se non l’adattamento posteriore della commedia che Michelangelo Florio Crollalanza aveva scritto circa vent’anni prima, in giovanissima età, in dialetto messinese e col titolo Troppo trafficu ppi nnenti;

b) nella stessa commedia Shakespeare utilizza molti doppi sensi ed espressioni caratteristiche che solo a Messina avrebbero potuto essere udite. In questo contesto, una tipica espressione è anche la parola “mizzica”, che solo un siciliano potrebbe conoscere e dire!

c) Messina è presente anche nel Racconto d’inverno. E certo, parlando di Messina verso la metà del Cinquecento, non si fa altro che ricordare una città in quell’epoca più grande di Londra, una delle capitali del Rinascimento con un fiorente commercio e costruzioni in muratura (e non in legno), acquedotto sotterraneo, Università fondata da S. Ignazio di Loyola e una flotta di navi commerciali e “da corsa”.

D’altro canto, e più particolarmente, nell’atto terzo, scena seconda, Don Pedro dice una frase che per gli Inglesi è un rebus: “The shell be buried with her face upwords”, ossia: “Dovrebbero seppellirla con la faccia in su”. Che strano! Tutti vengono seppelliti così. Sì, però a Messina con l’espressione “ca nasca addrittu” (col naso in su) intendono indicare una persona arrogante, superba, o anche semplicemente fiera. E nel caso specifico significa appunto che Beatrice era rimasta fiera/superba anche dopo morta!

Ancora, nell’atto terzo, scena terza, si trova la frase “…next morning at the temple, and there, before the wole congregation shame her…”, cioè “domani mattina nel tempio, e lì, davanti all’intera congregazione religiosa la svergognerai…”. Qui, il particolare sta nel fatto che non di una chiesa si tratta, ma di un antico tempio greco ceduto alla Congregazione dei Sacerdoti Catechisti. Un inglese che nel XVI secolo abitava in un paese lontano 3000 chilometri come avrebbe potuto conoscere una tanto “locale” particolarità? Piuttosto improbabile.

Infine, nell’atto quarto, scena prima, Beatrice utilizza una tipica espressione del dialetto parlato a Messina: “ti manciu ‘u cori”(ti mangerò il cuore), “tradotta” in inglese in “I will eat you heart”. Ma nella comune parlata inglese ha forse un senso?

Tutto questo ed altro ancora sparso nell’opera di Shakespeare, e poi una così profonda conoscenza della scena, della lingua, dell’arte teatrale italiana, come pure la sorprendente familiarità con paesaggi e città italiane, costituisce sicuramente il più logico e maggior segno distintivo più di uno scrittore italiano che inglese!

4.

Il drammaturgo Ben(jamin) Jonson, amico di William, gli addebitava “una insufficiente conoscenza della lingua latina e ancor più di quella greca”, volendo piuttosto descrivere la sua elementare istruzione, d’altronde confermata anche dagli inesistenti dati personali e scolastici presso gli istituti di istruzione primaria e secondaria di Stratford, di Londra e altrove in Inghilterra (eventualmente), mentre è assodato che Shakespeare non ha studiato né a Cambridge né a Oxford né in altra Università inglese o straniera.

Un parere come quello di Ben Jonson non si accorda certamente con la onniscienza di uno scrittore che conosceva alla perfezione i classici Latini e Greci, la letteratura e, con molta probabilità, anche le lingue italiana, francese e spagnola.

Sappiamo che il giovane Michelangelo Florio Crollalanza aveva dimostrato sin da ragazzo speciali capacità nelle lettere (l’opera Molto rumore per nulla sembra che l’abbia scritta a 15 anni, poco prima di abbandonare Messina), ciò che in nessun modo risulta ad un ragazzo inglese chiamato William Shakespeare, del quale sono “ignoti” proprio gli anni della carriera scolastica! Il suo vocabolario era sorprendentemente ricco. Quando un poeta come John Milton, nel XVIII secolo, utilizza circa 8000 parole nelle sue opere, cosa dire di Shakespeare che, come consta, ha utilizzato circa 24000 parole(e per altri, addirittura 29000)! E non deve sfuggire il fatto che Shakespeare ha altresì “inventato” moltissime parole ed espressioni arricchendo così la lingua inglese.

Non so se colui che è riuscito a produrre tante “invenzioni verbali” è l'”inglese” Shakespeare di cui nessun accenno sussiste nei registri delle scuole che “dicono” aver frequentato oppure l'”italiano” Michelangelo Crollalanza/Shaskespeare i cui studi risultano in accertati dati di istruzione e testimonianze.

5.

A questo punto non sarebbe oziosa una integrazione argomentativa in base alla quale si suppone o si dimostra l’origine messinese di Shakespeare o, comunque, italiana.

I dati comprovanti sono i seguenti:

A. Nell’ Amleto compaiono i due studenti danesi, Rosenkrantz e Guildenstein, che furono compagni di studio di Michelangelo Florio Crollalanza all’Università di Padova;

B. Sempre nell’Amleto vengono recitati molti proverbi che anni prima Michelangelo Florio aveva pubblicato in Italia in un libro dal titolo I secondi frutti;

C. Nel Mercante di Venezia il “colore” locale viene riprodotto in maniera stupefacente: perfette espressioni marinare si trovano in bocca a Salerio e Salanio – viene fatto riferimento al battello che collega Venezia alla terraferma – compare l’esatta traduzione in inglese, Belmont, del sobborgo veneziano di Montebello;

D. Nel Romeo e Giulietta Shakespeare realizza una poetica rappresentazione della propria storia d’amore vissuta in gioventù in Italia;

E. Ancora nel Mercante di Venezia la conoscenza della legislazione veneziana è perfetta, una legislazione del tutto diversa da quella allora vigente in Inghilterra – il maestro Bellario del testo teatrale corrisponde assolutamente ad un personaggio davvero esistente e molto noto negli ambienti giuridici di Padova, il professor Ottonello Discalzio;

F. In molte opere, teatrali e poetiche, si riscontrano fonti chiaramente italiane (Boccaccio, Ariosto, Bandello, Castiglione, Giraldi Cinzio), come pure reminiscenze della Commedia dell’Arte;

G. Shakespeare possedeva ugualmente una buona conoscenza della storia romana e sapeva che Pompeo una volta (nel 36 a.C.) era rimasto a Messina. Così, nell’opera Antonio e Cleopatra si riferisce alla casa di Pompeo a Messina ed è esattamente in questa casa che si svolge la trama del secondo atto, scena prima: “Messina. nella casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Mena in assetto di guerra”;

H. Non mancano altresì rifacimenti di idee di Plauto, Seneca e Plutarco;

I. È evidente l’ispirazione italiana nelle opere Much Ado about NothingTwelfth Night e All’s Well That Ends Well. D’ altra parte Shakespeare è l’unico scrittore inglese che conosca alla perfezione tante cose dell’Italia malgrado che non esista da nessuna parte nessun indizio secondo cui egli si sia recato e sopra tutto vi abbia vissuto, poco o a lungo, imparando tutto quello che sapeva;

L. In merito alla morte di Shakespeare, Richard Davis nel 1700 ebbe a scrivere: “He died a papist”, cioè “è morto da cattolico”. È una frase assai rivelatrice, nel senso che, mentre egli era calvinista (e Michelangelo Florio Crollalanza era calvinista), prima di morire divenne e morì cattolico, un cambio di fede religiosa piuttosto molto più difficile che accadesse, per evidenti motivi di vario genere, presso un inglese che non un italiano;

M. “I biografi suppongono che Shakespeare abbia accumulato le sue enormi conoscenze e la sua accurata familiarità con le maniere, il gergo e gli usi della professione forense dopo essere stato egli stesso per un breve periodo impiegato al tribunale di Stratford. Adesso, a parte il fatto che una simile ipotesi inciampa nella assoluta inesistenza di corrispondenti elementi nei registri giudiziari della cittadina, appare anche inammissibilmente molto ingenua, giacché è come se si dicesse che un giovanotto sveglio come me, cresciuto in un villaggetto sulle sponde del Mississippi, avrebbe potuto sviluppare una perfetta conoscenza della caccia alla balena nello stretto di Behring oppure imparare gli idiomatismi espressivi dei vecchi pescatori semplicemente pescando pesci-gatto qualche domenica(…).” (Mark Twain in Is Shakespeare really dead?, 1909″);

N. D’altra parte, se ve ne fosse bisogno, il predetto storico John Mitchell citando appunto l’espressione usata da Mark Twain nel suo libro del 1909, dice, volendo con ciò molto intendere: “I dati che sono noti sulla vita di Shakespeare possono riempire una sola facciata di un foglietto per appunti”

O. Quando Shakespeare morì il 23 aprile 1616, la sua morte non provocò nessuna commozione, né fu ordinato alcun lutto nazionale o locale in Inghilterra, come logicamente ci saremmo aspettati che accadesse per un letterato inglese tanto grande e illustre. L’avvenimento passò come se il drammaturgo fosse uno straniero!;

P. La scuola o le scuole dove l'”inglese” Shakespeare dicono che abbia studiato, costituiscono oggetto di semplici indizi. Non esiste nessuna certezza e prova al riguardo;

Q. Vi sono molti studiosi che si pongono degli interrogativi in merito al trattino che spesso appare al nome di Shakespeare: Shake-speare – e non sono pochi coloro che credono che tale nome sia piuttosto uno pseudonimo, come appare sul frontespizio dei Sonetti nel 1609.

A parte però questo, un aspetto peraltro secondario della generale “questione Shakespeare”, nelle 32 edizioni delle opere di Shakespeare realizzate prima del First Folio del 1633, le 15 hanno il nome col trattino. È questa una importante indicazione, come ampiamente si ritiene, che riverbera la “versione” del cognome composto [crolla=shake, lanza(lancia)=speare] che il suo proprietario, traducendolo in inglese, ha particolarmente voluto evidenziare essendo egli straniero (un autoctono inglese non avrebbe avuto di certo nessuna ragione di dividere in due il proprio cognome per quanto stravagante potesse egli essere!);

R. Osservando i (pochi) ritratti di Shakespeare, non si può non notare che il suo volto è assai diverso da quello di un inglese medio. Sembra piuttosto essere il tipico viso di un abitante dell’Europa del sud. Già un suo contemporaneo, di nome Harwei, accennava apertamente alla sua origine italiana.

6.

Tutte le proprietà di Shakespeare sono analiticamente inventariate nelle tre pagine del suo testamento, tutte tranne i suoi libri e i suoi manoscritti. Come se non esistessero nè libri nè manoscritti! Forse che i libri li ha presi la figlia maggiore Susan? Quand’anche però fosse così, non li avrebbero poi spartiti tra di loro tutti gli eredi? Ma anche questa eventualità non sembra che sia avvenuta.

Un sacerdote, un certo James Wilmot, a quanto pare, volle nel 1785 controllare tutte le biblioteche private entro un raggio di 80 chilometri intorno a Stratford-on-Avon: non vi trovò nessun libro appartenente a Shakespeare! Ne ricavò, tra l’altro, forti dubbi sulla paternità di quest’ultimo in merito alle opere attribuitegli.

Quanto ai manoscritti, il problema è ancora più complicato e difficile. Secondo ciò che risulta dalle ricerche sinora effettuate, non esiste nessun manoscritto originale delle 36 opere di Shakespeare! Sono tutte copie. Per il resto, per quanto si conosca, molte edizioni non autorizzate di sue opere avevano avuto luogo quando egli era ancora in vita, sotto il nome di Shakespeare, senza mai che lo stesso interessato si sia opposto in via giudiziaria per impedire o vietare le edizioni clandestine. E allora nulla vieta nutrire il parere secondo cui tale mancanza di reazione potesse anche nascondere o rivelasse la volontà di apparire ed essere quindi sempre più conosciuto con il cognome di Shakespeare (o Shake-speare, come visto più sopra) al fine di “far sparire” il vero, rivelatore di presenza, cognome Crollalanza o Florio.

D’altronde, la sparizione di tutti i libri e manoscritti di Shakespeare già non molto dopo la sua morte e il parallelo, oggidì, rifiuto di rendere pubblica una biblioteca personale che sicuramente esisteva e che viene adesso con molta probabilità custodita in un luogo di competenza statale (fors’anche già da allora, dal XVII secolo), non può che apparire perlomeno strano, se non sospetto.

Al riguardo non è senza interesse sapere che il professor Martino Iuvara nel maggio del 2000 aveva inviato una lettera alla regina Elisabetta nella quale, tra l’altro, scriveva: “La provata prova dell’identità del maggior drammaturgo di tutti i tempi può trovarsi, quasi esclusivamente, nella sua biblioteca (…) la quale finora rimane nascosta a tutti (molto probabilmente per motivi nazionalistici), la quale però avrebbe dovuto, per amore verso la verità storica (ciò che dovrebbe porsi al di sopra di ogni calcolo) essere messa, con coraggio e saggezza, almeno alla disposizione degli studiosi.

E naturalmente auspicando che, durante questi quattro secoli che sono passati(1616-2000) alcuni malvagi supernazionalisti non abbiano voluto distruggere per sempre qualsiasi prova determinativa della non anglicità del grande Genio che comunque sia, inglese o meno, farà sempre parte della universale eredità culturale”.

Va da sé che non ha ricevuto nessuna risposta! Nel 2002 poi inviò la medesima lettera all’allora Primo Ministro Tony Blair. E come era da aspettarsi, neanche questa volta ci fu una risposta! Per cui nessuno può non considerare la possibilità che finalmente questa “biblioteca” nasconda pochi o molti “scheletri”.

In ogni modo tutto questo silenzio, l’evidente volontà e, perché no?, insistenza di tenere nell’oscurità una tematica le cui componenti vi sono ancora alcuni – che non devono essere pochi – che non sono pronti ad (o hanno paura di) affrontare qualunque sconvolgente sviluppo possano esse creare, mi domando fino a quando potrà o deve continuare.

Se in effetti la mancanza di buona disposizione da parte degli inglesi per un chiarimento della “questione shakespeariana” significa che ha ragione il prof. Iuvara ed esistono veramente elementi che dimostrino che Michelangelo Crollalanza è William Shakespeare oppure che la “storia” di Shakespeare tessuta da Iuvara è sicuramente vera, allora è comprensibile la posizione negativa di coloro i quali tutto hanno da perdere e nulla da guadagnare. Se invece le prove che cerca il prof. Iuvara non esistono o non esistono più perché, nel passato o recentemente, qualcuno o alcuni hanno provveduto a farli sparire eliminando in tal modo qualsiasi rischio di “nazionale, razziale disfatta letteraria” per gli inglesi e la Gran Bretagna, il rifiuto di rendere pubblica la biblioteca personale di Shakespeare (la quale, secondo quanto riferiscono gli studiosi, era composta da 340 volumi e forse vi si trovava anche una biografia vera, lasciata poi a Lord Pembroke) appare senza dubbio incomprensibile, tranne che vi siano altri lati oscuri della questione che costituiscono una specie di “segreto statale”.

In entrambi i casi l’occultamento non può che essere interpretato come precisa, irrinunciabile intenzione di “seppellire” la “questione Shakespeare” perché esiste qualche interesse molto particolare, direi inconfessabile, addirittura “drammatico”, di mantenere simile comportamento.

Rimane pertanto a mezz’aria una ragionevole domanda: sussiste, mutatis mutandis, una “questione shakespeariana” analoga alla “questione omerica”? Sembrerebbe di sì. Tra un Shakespeare “inglese” e un Shakespeare (Crollalanza) “italiano” si muovono molti altri personaggi e maschere con “diritto” di paternità sulle opere di uno “spettro” Shakespeare: Christofer Marlowe, il cardinale Wolsey, sir Walter Raleigh, Francis Bacon, Edward de Vere, 17o conte di Oxford, Roger Mannors, quinto conte di Ruthland, Robert Devereux, William Stanley, sesto conte di derby, perfino la regina Elisabetta!

Per cui non è più di tanto assurdo che gli Inglesi interessati abbiano appositamente “inventato” e “diffuso” tutti questi “candidati Shakespeare”, tutti, guarda caso, diligentemente e strettamente inglesi, al fine di “coprire”, annullare, addirittura esorcizzare la fastidiosa per la nazione inglese incombenza di un creatore non inglese di tanti straordinari capolavori.

È quello che in sostanza ha detto anche lo scrittore Jonathan Bate alcuni anni fa: “Il rilievo che le opere di Shakespeare siano state scritte da Florio è più facile da confutare che non l’attribuzione di esse ad un qualunque aristocratico (inglese). E siccome Florio non era inglese, la sua candidatura non ha mai potuto avere molto successo. Tranne naturalmente che in Italia…”

E la situazione diventa ancor più complicata quando anche la nota World Book Encyclopedia osserva che il popolo “rifiutava di credere che l’attore di Stratford-on-Avon avrebbe potuto averli scritti lui”. “Le origini contadine di Shakespeare non corrispondevano alla figura del Genio che ha scritto i drammi”, perché “solo un uomo colto, raffinato, di elevata classe sociale avrebbe avuto la capacità di comporre i drammi”.

Viene allora spontaneo ricordarsi le parole di Borges: “È strano, ma i paesi scelgono individui che non gli somigliano molto. Si pensi per esempio che l’Inghilterra ha scelto Shakespeare e che Shakespeare è, si può dire, il meno inglese degli scrittori inglesi(…) e non ci sorprenderebbe che sia stato italiano o ebreo”

Di conseguenza avviene che si debba qui affrontare una delle più difficili verità: e quanto più grande è questa verità, tanto più difficilmente viene detta e facilmente viene nascosta perché, ove uscita di bocca, il rumore provocato verrebbe ad essere, dolorosamente o gioiosamente (dipende dalle parti in causa) proprio assordante e variamente destrutturante.

Il quid dell’autore chiamato William Shakespeare non è posto in discussione solo dagli Italiani, ma anche dagli stessi Inglesi, sia pure alla luce di una diversa ottica di sostanza.

Così, mentre gli Italiani mettono in dubbio l’esistenza e la nazionalità dello scrittore, gli Inglesi non tanto mettono in dubbio la sua esistenza, malgrado le palesi, enormi lacune, quanto la paternità delle sue opere. In questa negazione, nondimeno, si dimostrano “patriotticamente” sciovinisti, visto che tutti i “candidati” alla incerta esistenza e alla paternità della sua produzione letteraria sono tutti inglesi e nessuno straniero.

Ecco quindi perché i “dubbi inglesi” per la “verità” di un autore inglese sono, per gli stessi inglesi, enormemente più “digeribili” e in sostanza anodini e senza ferite al contrario dei “dubbi italiani” che colpiscono invece il cruciale segno della nazionalità annullando tutto il prestigio e rinomanza che a tale nazionalità ne sono derivati e ne derivano ancora. Cioè una prospettiva assolutamente e in tutti i modi inaccettabile!

In ogni caso, a conferma dei sillogismi e delle prove contenute nella presente esposizione relativamente a Shakespeare, la sua vita e la sua opera, nella recentissima pubblicazione di Bill Bryson, Shakespeare. The World as Stage, 2007, le risultanze delle indagini svolte dallo scrittore convergono alle stesse conclusioni sin qui espresse, ovvero, per sommi capi:

1) “Almeno 200 anni fa lo storico George Stevens osservò che tutto quello che conosciamo di W.S. si limita ad alcuni eventi sparsi”. Di conseguenza si deduce che essi sono del tutto inutili e inutilizzabili per una giusta valutazione dell'”ipotesi Shakespeare”;

2) “Non siamo sicuri della corretta grafia del suo nome, ma, come pare, neanche egli stesso ne era sicuro perché nelle firme che di lui possediamo, il nome neanche due volte risulta scritto allo stesso modo”. Anche questa quindi un’indicazione del fatto che il Shakespeare “inglese” non doveva poi essere granché a conoscenza del suo stesso nome;

3) “Solo per pochissimi giorni della sua vita possiamo dire con certezza dove si trovasse”. La torbidezza e inesistenza del paesaggio nello Shakespeare inglese rimane immutabile e per nulla reversibile;

4) “Parecchi ricercatori ogni tanto sostengono che le opere di Shakespeare sono state scritte da qualcun altro”. E chi sarebbe? Uno dei tanti inglesi senza prove o l’unico italiano con assai plausibili elementi documentali e testimoniali?;

5) “Ancor oggi Shakespeare resta una ostinazione accademica più che un personaggio storico”.

Quest’ultima constatazione abolisce certamente qualsiasi conclusione e qualsiasi rappresentazione che i biografi inglesi avrebbero potuto inventare per rendere in carne ed ossa un loro compatriota che da ogni parte “sfugge” e piuttosto provoca l’invincibile sentimento di essere una vera e propria invenzione. E piuttosto altresì si tratta di un ben congegnato intrigo teso alla “creazione” quasi dal nulla di un super-scrittore inglese, un super-drammaturgo il quale in realtà o non è mai vissuto o nasconde la propria insufficienza dietro a qualcuno la cui esistenza sarebbe estremamente spregevole alla riputazione, orgoglio e arroganza etnica inglese.

E ovviamente allora, in ultima analisi, nulla esclude – per quanto ciò appaia irreale: ma quante volte la realtà supera la più sfrenata immaginazione?! – l’esistenza di una gigantesca diacronica macchinazione (imbroglio/impostura) delle istituzioni inglesi, statali e non, ai fini della conservazione della fama di una così eccezionale produzione letteraria (inglese) che, altrimenti, se dovesse essere smentita, potrebbe fondatamente provocare incalcolabili contraccolpi non solo nella società britannica, ma nella stessa sostanza dell’entità britannica, tanto esaltata dal possedere uno Shakespeare da non esitare a definirlo Our English Homer!(Henry Stratford Caldecott).

Alla fin fine, dunque, checché se ne dica, la più obbiettiva constatazione non può che fissare il seguente stato di cose:

a) la figura di W.S. che conosciamo è sempre, e direi irrimediabilmente, avvolta in un alone di assoluta incertezza e ambiguità. Val bene riferirsi qui, questa volta in relazione allo stesso Shakespeare, alla famosa esclamazione di Amleto: To be or not to be: that is the question!;

b) per parte italiana le ipotesi avanzate presentano molti aspetti positivi di verosimiglianza che potrebbero anche giungere fino alla soluzione di verità;

c) per parte inglese la collocazione del personaggio chiamato William Shakespeare è posta su illazioni non provate e su flagranti assenze di fondamentali dati personali, che tutti ammettono e nessuno può escludere;

d) sì che, concludendo, fino a quando non verranno alla luce (se mai esistono per venire alla luce) elementi di perfetto valore probativo a conferma della “realtà inglese” del personaggio W.S., le attuali risultanze biografiche dello stesso, che perfino non pochi autori inglesi e non solo ritengono fallaci e inattendibili, in nessun modo possono far testo prolungando presso la collettività letteraria internazionale l’illusorietà di uno scrittore completamente privo di convincenti contorni identificativi.

Ci si trova davanti alla vera assurdità di un complesso di 36 capolavori della letteratura il cui autore nessuno, ma nessuno può provare che sia davvero mai esistito. Parafrasando, potremmo dire: “(Trenta)sei opere in cerca di autore”!

Di conseguenza, gli esiti delle indagini teoriche e pratiche avanzate dagli studiosi italiani a favore della nazionalità italiana di William Shakespeare rimangono i soli validi a tutti gli effetti e possono sollevare i veli del dubbio che sinora hanno coperto il relativo “caso”. E allora credo io, non solo, ma tutti penso siano dello stesso parere, che le cose vadano dette con il loro vero nome.

E certamente non concordo con le conclusioni assolutamente pilatesche e irragionevoli di Giuseppe Provenzale, riportate in sunto nel quotidiano messinese online Tempo Stretto del 5.11.2012, quando nega (No!) che, quanto riferito a Shakespeare/Florio basti “per avvicinare i due personaggi e dimostrarne l’origine messinese” adducendo motivazioni davvero puerili e indegne di una città storica come Messina.

In realtà, di conclusioni se ne possono trarre persino troppe – per chi voglia trarne, però! – tenuto conto, com’è doveroso, della perfetta inconsistenza delle argomentazioni biografiche inglesi e del loro assordante silenzio probatorio!

PERCIO’, PER TUTTO QUANTO SIN QUI ARGOMENTATO ED ESPOSTO

È ora che la smettano gli inglesi di mercanteggiare con le culture altrui, farsi belli con i prodotti delle civiltà altrui. È parimenti ora di farla finita con questa civiltà britannica che si dà arie abbellendosi con i beni rubati a civiltà veramente eccelse (v. tutte le opere d’arte egizie; v. i famosi marmi del Partenone; v. le decine di migliaia di papiri di Ossirinco indebitamente tenuti nascosti; v. i capolavori assiri e mesopotamici; v. le opere d’arte cinesi e orientali; v. gli altri tesori messicani, islamici, romani, ecc., tutti rubati o presi con la forza o “comprati” con la frode o senza possibilità di replica dei legittimi possessori).

Quanto al “caso” trattato in queste pagine, se questi stessi inglesi posseggono le inconfutabili prove che Shakespeare è inglese, le esibiscano, le pongano all’esame dei competenti studiosi. E giustizia sarà fatta (non certamente “all’inglese”).

Ma se non hanno nulla di valido, la smettano di nascondersi dietro a fantasticherie, menzogne, dubbi, contraffazioni, illusioni, ruberie e sopra tutto puerili, stolte e insulse ironie. E se quello che posseggono (e finora nascondono) comprova che questo celeberrimo Shakespeare non è per nulla inglese o è un falso inglese a danno di un reale genio straniero – abbiano finalmente l’onestà e il decoro di ammetterlo, rivelando la documentazione che lo attesta, e chiedano scusa per l’immoralità e il comportamento di delinquenza letteraria tenuto sino ad oggi e per aver ingannato spudoratamente il mondo intero.

Se sanno ancora cosa sia l’etica.

Crescenzio Sangiglio

Numero2741.

 

Trovate qualche somiglianza tra questi due personaggi?

Elly Schlein la conoscete sicuramente, ma l’altro, forse, non vi è tanto familiare. Sapete di chi si tratta?

Niente popò di meno che di Girolamo Savonarola (1452 – 1498), frate Domenicano della seconda metà del ‘400, grande predicatore contro il Papato Romano (allora c’era sul trono Pontificio Alessandro VI Borgia) e contro la signoria dei Medici (allora c’era Lorenzo a Firenze).

Girolamo Savonarola venne scomunicato dalla Chiesa per scisma, eresia ed impostura e, prima impiccato, e poi arso sul rogo in Piazza della Signoria a Firenze il 23 maggio 1498.

Senza altri commenti.

Numero2739.

 

F E L I C I T A’

 

Nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, il 4 luglio 1776, si afferma:

 

“Tutti gli uomini sono stati creati uguali: essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti Inalienabili; fra questi ci sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo, tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo Governo, che ponga le sue fondamenta su tali principi e organizzi i suoi poteri nella forma che al popolo sembri più probabile possa apportare Sicurezza e Felicità.”

 

A differenza della nostra Costituzione, in America la felicità è un vero e proprio diritto. Si dà ai cittadini il diritto di difenderlo da chiunque cerchi di ostacolarlo. Il governo americano per garantire la felicità della popolazione si deve immergere nei loro sentimenti entrare in contatto con loro. Il diritto alla felicità non è solo della singola persona ma è anche dell’intera collettività.

In Italia i principali articoli che garantiscono all’uomo di vivere in una condizione di benessere e piena libertà vengono enunciati nei primi quattro articoli. L’Italia garantisce all’uomo dei diritti e dei doveri inviolabili; gli garantisce l’uguaglianza di fronte alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizione sociale ed economica. La costituzione italiana inoltre, garantisce all’uomo il dovere di lavorare secondo le proprie scelte e le proprie possibilità. La repubblica italiana non deve , in nessun modo, andare a violare o restringere i diritti dell’uomo impedendone il suo pieno sviluppo, anzi deve dare la possibilità a qualsiasi uomo di poter esercitare i propri diritti e doveri. Le principali differenze tra la Costituzione Italiana e la Costituzione Americana riguardano soprattutto i primi articoli.

Anche la loro nascita è differente.

La Costituzione della Repubblica Italiana è nata in seguito alla liberazione dell’Italia dai tedeschi, dopo la seconda guerra mondiale. Con il  referendum del 1946 la popolazione si espresse favorevolmente alla repubblica; lo stesso giorno venne eletta un’ assemblea costituente  che elaborò il testo della costituzione che verrà approvato alla fine del 1947,  promulgato dal Capo provvisorio dello Stato, De Nicola, ed è entrato in vigore il 1 gennaio del 1948. Esso si compone di 139 articoli e di XVIII disposizioni transitorie e finali, ed è stato oggetto di molteplici revisioni costituzionali, con cui si è provveduto ad integrare ed aggiornare il testo originario (Revisione costituzionale).

La Costituzione è divisa in tre parti:

  • primi dodici articoli rappresentano i Principi fondamentali;
  • la Parte I, dal art. 13 all’art. 54, è intitolata Diritti e doveri dei cittadini  ed e composta dai rapporti etico-sociali, dai rapporti di natura economica e dai rapporti di natura politica;
  • la Parte II è intitolata Ordinamento della Repubblica e tratta l’organizzazione dello stato.

Il testo della costituzione è molto rigido, ciò significa che per poter modificare alcuni articoli o disposizioni della Costituzione, bisogna effettuare un procedimento molto lungo e complesso. La legge costituzionale permette al parlamento di modificare la Costituzione: essa si differenzia dalla legge ordinaria per il procedimento di approvazione. Lo Stato ha anche istituito un organo, la Corte Costituzionale, che ha il potere di giudicare le leggi e di annullarle nel caso in cui vadano contro i principi costituzionali.

La Costituzione americana, nata dalla rivoluzione delle colonie britanniche nel XVIII secolo venne redatta e approvata dalla Convenzione di Filadelfia nel 1787 ed entrò in vigore 2 anni dopo. Essa è la più antica costituzione scritta, nacque dall’esigenza di creare un forte governo centrale che regolasse i dissensi, soprattutto in materia doganale, tra gli stati che si erano dichiarati indipendenti nel luglio 1776. La costituzione è formata da un breve preambolo e da sette articoli suddivisi in numerose sezioni; di essa fanno parte anche gli emendamenti proposti e ratificati. I primi dieci emendamenti, approvati nel 1789, costituirono il Bill of Rights. In America l’esercizio del controllo di costituzionalità (judicial review) sulle leggi e altri atti normativi è esercitato dagli organi giudiziari, in primo luogo dalla Corte suprema. Mentre la Costituzione Italiana è  un testo rigido, in modo che non possa essere variata o interpretata per favorire la corruzione, la costituzione degli stati uniti è più elastica e interpretabile, affinché tutti i 51 stati degli USA siano regolati e non prendano strade troppo diverse.

La Costituzione americana, inoltre, risale al 1788, e fu creata per durare nel tempo, per essere attuale anche dopo centinaia d’anni. Ovviamente la società e le sue regole cambiano di epoca in epoca, quindi è necessario che i suoi articoli siano interpretabili, flessibili ed applicabili in diverso modo.
La nostra Costituzione nasce in tempi recenti, ed è stata creata in una situazione diversa, per garantire la democrazia e il rispetto di doveri e diritti. Il diritto degli Stati Uniti, a differenza di quello italiano, è giurisprudenziale, ossia afferma che le norme giuridiche vengono create all’insorgere di un nuovo caso. Si  può dire che l’intero diritto americano sia una raccolta di sentenze, che una volta approvate diventano legge.

Una delle differenze principali è che nel primo articolo della Costituzione Italiana si enuncia che:

L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione.”.

La Costituzione americana, invece, inizia con un preambolo in cui si parla dello scopo per cui essa è nata, ossia per perfezionare la loro unione, garantire la giustizia, assicurare la tranquillità all’interno dello stato, provvedere alla comune difesa, promuovere e salvaguardare il benessere generale come dono della libertà. E, soprattutto, afferma che ogni uomo ha diritto ad essere felice.

Numero2734.

 

da QUORA

 

C’è un modo per capire quando si è diventati “vecchi”?

 

  1. Preferisci stare a casa piuttosto che uscire.
  2. Hai bisogno di fare programmi anziché improvvisare.
  3. Preferisci il sonno al sesso.
  4. Scopri che invecchiare è fisicamente doloroso. Ti fanno male le articolazioni e le ossa.
  5. Il tuo sistema digestivo è un inferno. Non puoi mangiare pizza o bere vino o mangiare cibo messicano o bere tequila. Le pasticche per lo stomaco sono i tuoi nuovi migliori amici.
  6. Nonostante il fatto che la vita sia molto più difficile di prima, la ami più che mai.
  7. Ti rendi conto che sei davvero preoccupato per il futuro del mondo.
  8. Cominci ad elaborare una bussola morale religiosa, o una cosmologia, o una filosofia di vita.
  9. Cominci a preoccuparti su come gestire la tua eredità.
  10. Sei grato per ogni giorno che ti è concesso. Ti ricordi dei tuoi amici che se ne sono già andati. Ti mancano immensamente, ma sei così felice di NON essere al loro posto. Le cose che prima davi per scontate, ora le guardi con gioia e meraviglia: uccelli, fiori, albe, tramonti, il passaggio ordinato delle stagioni, le fasi della luna…

N.d.R.: Se c’è qualche “giovane” che si riconosce in questo elenco … povero lui!
Se c’è qualche “vecchio” che non si riconosce in questo elenco … beato lui!

Se qualcuno, come me, si ritrova al 100 per 100 nella descrizione di questo elenco, sappia che ad essere “vecchi” così sono miliardi di persone ma, tutto considerato, … la vita è bella lo stesso.

Numero2733.

 

da QUORA

 

ANCORA  SULLE  PERSONE  INTELLIGENTI

 

Le persone intelligenti hanno le seguenti caratteristiche:

 

1)Non seguono mai l’opinione popolare, perché la maggior parte delle persone comuni ha torto sulla maggior parte delle questioni.

2)Non si fidano di tutto ciò che viene affermato essere vero, a meno che non accertino la verità da soli tramite le proprie ricerche e analisi, perché sanno che ciò che viene loro liberamente raccontato di solito è spazzatura.

3)Si fidano della propria opinione più di chiunque altro poiché formano la loro opinione sulla base della logica e del ragionamento.

4)Sono studenti a vita poiché sanno che rispetto alla conoscenza totale disponibile nel mondo, ne sanno solo un po’.

5)Imparano da ogni persona e da ogni episodio della vita attraverso la prudenza riflessiva e la contemplazione.

6)Non consigliano le persone stupide anche quando a loro viene chiesto di farlo perché sanno che quelle persone stupide non potranno mai accettare la verità (ecco perché sono stupide).

7)Non litigano con gli stupidi perché sanno che li trascineranno al loro livello e li batteranno con l’esperienza. (Mark Twain).

8)Quando vengono attaccati verbalmente da una  persona stupida, non le danno corda, poiché sanno che sarebbe solo del tempo sprecato.

9)Non cercano denaro, fama o potere, perché sanno che il desiderio di queste cose è la radice di tutta l’infelicità nel mondo.

10)Non sprecano il loro tempo inseguendo ciò che il mondo considera importante. Piuttosto passano il loro tempo a conoscere se stessi e fanno ciò che dà loro gioia e soddisfazione.

Le persone intelligenti non farebbero nulla che vada contro questi principi.

Numero2732.

 

IL  FASCISMO  DEGLI  ANTIFASCISTI

 

 Riporto un passaggio di Pier Paolo Pasolini datato 1974, sul fascismo degli antifascisti. Un lampo di un autore visionario che aveva anticipato tanti eventi avvenuti post-mortem.

Scriveva Pasolini :”Oggi il fascismo è un’altra cosa rispetto al Ventennio. Fascisti e antifascisti sono diventati uguali e hanno desideri simili: «Il nuovo fascismo – che è tutt’altra cosa – non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico.
Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo».
Le tradizioni devono essere spazzate via dalla «società dei consumi» e dal conformismo.
La cultura di massa «è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare un Potere che non sa più cosa farsene di Chiesa, patria e famiglia».
L’omologazione riguarda tutti: popolo e borghesia, padroni e sottoproletari. La stessa divisione in classi sociali tende a scomparire o, quantomeno, queste finiscono per essere indistinguibili.

 

da QUORA

 

Quali sono le basi del fascismo? L’intolleranza e la presunzione di superiorità, senza dubbio. Cosa distingue i fascisti di destra da quelli di sinistra? I fascisti di destra sono retrò, si rifugiano in stereotipi antiquati, in posizioni nazionaliste con motti tipo “l’Italia agli italiani”, usano cavalli di battaglia come l’immigrazione. Argomenti che fanno presa su una certa parte di popolazione, ma che immediatamente li rendono catalogabili.

E i fascisti di sinistra? L’intolleranza verso chi non la pensa come loro, di chi differisce dalla narrativa che impongono i loro giornali. Sono certamente elettori del PD, che colgono il verbo dal vomito de “La Repubblica”, giornale fondato da un fascista ex-camicia nera come Eugenio Scalfari e di proprietà dei più grandi lobbisti italiani : gli Elkan-Agnelli, noti per le lotte a favore dei lavoratori.

Mentre la vecchia sinistra poteva contare su voci di intellettuali di statura come Gramsci, Eco, Pasolini, questi nuovi personaggi poggiano il loro non-pensiero su Mentana, Gruber, Gramellini. Ed essendo figli del non-pensiero non possono che essere non pensanti.

La vecchia sinistra lottava per i diritti dei lavoratori, per un welfare migliore. Questi signori del PD sono riusciti in poco più di un decennio a distruggere quanto conquistato in un secolo di lotte, spesso finite in battaglie di sangue dei loro predecessori. Dalla Fornero, al job act fino alla buona scuola: riforme che hanno cancellato quanto ottenuto dalla vecchia sinistra.

Dei temi della sinistra storica non sanno nulla, delle lotte operaie non sanno nulla, gli argomenti base di questa sinistra fuxia sono i diritti della comunità LGBT e la conservazione dello Status-Quo.

Ciò che contraddice la narrazione dei loro vati deve essere repressa: ecco che esce il fascista che è in ogni Militante del PD. Non ti Vaccini? Sei un subumano, un untore: è giusto discriminarti, bastonarti sui social, isolarti, ti devi curare con i tuoi soldi, etc.

Non appoggi Zelensky, il nuovo Gandhi? Sei un nemico della libertà, un amante delle dittature. Scatta di nuovo il fascismo made in PD: “Devo censurarti, hai espresso un opinione contraria alla mia, devo punirti” ovvero usare il manganello dei social. Inutile fargli notare che il PD, nell’adorabile democrazia ucraina, sarebbe un partito messo al bando dallo stesso Zelensky, che i blogger di sinistra sempre nella stessa splendida democrazia ucraina spariscono, vengono arrestati o uccisi.

N.d.R.: Ecco perché 2 Italiani su 3 non vanno più a votare.

Numero2728.

 

da QUORA

 

LE  LEGGI  DI  MAAT 
ovvero: il decalogo di Mosè non era poi tanto originale, ma una copia semplificata e riassunta di questa.
Ricordiamo che Mosè impose il decalogo al Popolo d’Israele fuoriuscito dall’Egitto sotto la sua guida.
La dea egizia Maat rappresenta l’ordine universale che permette lo svolgimento della vita, è l’ossatura morale di tutto il creato ed è in contrapposizione a tutto ciò che è ingiusto, cattivo e immerso nel caos.
Questo principio fondamentale è donna, una splendida dea con una piuma di struzzo sul capo.

Maat (“Giustizia”) era l’antico concetto egizio dell’equilibrio, dell’ordine, dell’armonia, della verità, della legge e regola, della moralità e della giustizia. Era inoltre personificata come una dea antropomorfa, con una piuma in capo, responsabile della disposizione naturale delle costellazioni, delle stagioni, delle azioni umane così come di quelle delle divinità, nonché propagatrice dell’ordine cosmico contro il caos. La sua antitesi teologica era Isfet.

Mandata nel mondo da suo padre, il dio-sole Ra, perché allontanasse per sempre il caos, Maat aveva anche un ruolo primario nella pesatura delle anime (o pesatura del cuore) che avveniva nel Duat, l’oltretomba egizio: la sua piuma era la misura che determinava se l’anima (che si credeva residente nel cuore) del defunto avrebbe raggiunto l’aldilà o meno.

Le leggi di Maat.

1) Non uccidere e non permettere che nessuno lo faccia.

2) Non tradire la persona che ami o il tuo coniuge.

3) Non vivere nella collera.

4) Non spargere terrore nelle persone.

5) Non assalire e non provocare dolore al prossimo.

6) Non sfruttare il prossimo e non praticare la schiavitù.

7) Non fare danni che possano provocare dolore all’uomo o agli animali.

8) Non causare spargimento di lacrime.

9) Rispetta il prossimo.

10) Non rubare ciò che non ti appartiene.

11) Non mangiare più cibo di quanto te ne spetti.

12) Non danneggiare la Natura.

13) Non privare nessuno di quello che ama.

14) Non dire falsa testimonianza.

15) Non mentire per far del male ad altri.

16) Non imporre le tue idee agli altri.

17) Non agire per fare del male agli altri.

18) Non parlare dei fatti altrui.

19) Non ascoltare di nascosto fatti altrui.

20) Non ignorare la Verità e la Giustizia.

21) Non giudicare male gli altri senza conoscerli.

22) Rispetta tutti i luoghi sacri.

23) Rispetta e aiuta chi soffre.

24) Non arrabbiarti senza valide ragioni.

25) Non ostacolare mai il flusso dell’acqua.

26) Non sprecare l’acqua per i tuoi bisogni.

27) Non inquinare la terra.

28) Non nominare il nome dei Neteru invano.

29) Non disprezzare le credenze altrui.

30) Non approfittare della fede altrui per fare del male.

31) Non pregare né troppo né troppo poco gli Dei.

32) Non approfittare dei beni del vicino.

33) Rispetta i defunti.

34) Rispetta i giorni sacri anche se non credi.

35) Non rubare le offerte fatte agli Dei utilizzandole per te stesso.

36) Non disprezzare i riti sacri anche se non ti aggradano.

37) Non uccidere gli animali senza una ragione seria.

38) Non agire con insolenza.

39) Non agire con arroganza.

40) Non vantarti del tuo benessere di fronte ad altri.

41) Rispetta questi principi.

42) Rispetta la legge se non contrasta con questi principi

Numero2726.

 

LEZIONE  DI  CATECHISMO

 

L’insegnante chiede alla scolaresca:

“Che cosa bisogna fare perché Dio perdoni i nostri peccati?”.

Tutti gli scolari si guardano l’un l’altro senza dire niente.

Ad un certo punto, un bambino si alza e dice, a colpo sicuro:

“Prima di tutto bisogna peccare!”