Numero2999.

 

da  QUORA

 

Scrive Cesio Endrizzi, corrispondente di QUORA.

 

E N I G M I    U L T R A T E R R E N I

 

L’Effetto Hutchison è un fenomeno misterioso che ha affascinato e sconcertato gli scienziati e gli appassionati del paranormale per decenni.

La sua origine e i suoi effetti sembrano sfidare le leggi conosciute della fisica e della realtà, portando a una serie di speculazioni e teorie su cosa potrebbe essere alla base di questa straordinaria manifestazione.

L’Effetto Hutchison prende il nome dal suo scopritore, il canadese John Hutchison, un ricercatore autodidatta che ha iniziato a esplorare i confini della scienza e della tecnologia nella sua casa laboratorio a Vancouver, Canada, negli anni ’80.

Mentre sperimentava con apparecchiature elettromagnetiche ad alta tensione, Hutchison ha fatto una scoperta straordinaria: oggetti metallici posti vicino ai suoi dispositivi iniziavano a muoversi, vibrare e persino sollevarsi nell’aria, senza alcuna apparente spiegazione razionale.

Le testimonianze dell’Effetto Hutchison sono state sia affascinanti che inquietanti.

Si dice che oggetti come chiavi, cucchiai e persino interi pezzi di metallo si comportino in modo anomalo quando esposti alle radiazioni elettromagnetiche prodotte dai dispositivi di Hutchison.

Alcuni hanno riportato che questi oggetti sembravano diventare “leggeri come una piuma”, mentre altri hanno visto metalli che si piegavano e deformavano senza alcuna forza apparente applicata.

Al di là del movimento fisico degli oggetti, ci sono state anche testimonianze di altri effetti, come la levitazione spontanea, l’illuminazione misteriosa e persino la fusione di materiali metallici.

Questi fenomeni sembrano sfidare ogni legge della fisica conosciuta, portando a speculazioni su possibili spiegazioni paranormali o dimensionali.

Nonostante gli sforzi di Hutchison e di altri ricercatori per comprendere e replicare gli effetti dell’Effetto Hutchison, rimane una certa ambiguità su cosa possa essere alla base di questo fenomeno.

Alcuni ipotizzano che si tratti di una forma avanzata di telecinesi o di manipolazione energetica, mentre altri suggeriscono che potrebbe essere collegato a dimensioni parallele o a manipolazioni temporali.

Ci sono anche teorie più pragmatiche che suggeriscono che l’Effetto Hutchison potrebbe essere il risultato di interferenze elettromagnetiche non intenzionali o di effetti collaterali di esperimenti segreti condotti dalle agenzie governative.

Tuttavia, fino a oggi, nessuna spiegazione soddisfacente è stata data per questo straordinario fenomeno.

L’Effetto Hutchison rimane uno dei misteri più affascinanti e inspiegabili del nostro tempo.

La sua origine e i suoi effetti continuano a sfidare la comprensione umana e a stimolare la nostra immaginazione.

Mentre la scienza cerca di svelare i segreti di questo fenomeno, rimane un punto di riferimento per coloro che cercano di comprendere i confini della realtà e dell’esistenza umana.

Numero2996.

 

da  QUORA

 

Scrive Oliviero Zanardi, corrispondente di QUORA

 

È normale desiderare di fare sesso con altre donne, anche se si sta veramente bene con la propria?

 

Sì, è normale. Il desiderio è biologicamente normale.

È normale, in particolare per i maschi, meno per le femmine (e spiegherò questo “meno”) perché, piaccia o no, l’evoluzione ci ha fatti così.

Il fine di ogni specie è sopravvivere, ma per sopravvivere bisogna che ci sia la trasmissione dei geni di generazione in generazione.

Nelle specie dove la trasmissione avviene attraverso il sesso, se ciò non avviene… fine della specie.

Tra i mammiferi solo circa il 5% delle specie è fedele e tra i primati il 15%.

Al contrario la poligamia, e quindi l’infedeltà, è un istinto innato sia per i maschi che per le femmine.

Siamo quindi “traditori” per natura.

L’evoluzione è un po’ come la finanza: “diversifica” il rischio investendo su più linee genetiche.

L’uomo è un caso un po’ particolare.

In termini di dispendio energetico c’è chi teorizza che nel genere umano migliaia di anni di evoluzione hanno plasmato una strategia riproduttiva per la salvaguardia della specie differente tra maschio e femmina.

Nel maschio l’atto riproduttivo è a basso costo (emissione di sperma che a partire dalla pubertà si forma continuamente) e questo lo incoraggia ad accoppiarsi con più partner femminili possibili e quindi a tradire di più.

Per la donna invece la situazione è molto diversa. In primo luogo il “tesoro” che le viene fornito dalla Natura già alla nascita sotto forma di qualche milione di ovociti non maturi, viene in parte perduto per cui alla pubertà ne restano “solo” dai 300.000 ai 500.000 e mediamente a circa 45 anni solo qualche migliaio, contro i miliardi di spermatozoi prodotti dai testicoli nel corso della vita di un maschio.

Poi per lei l’atto sessuale ha un costo molto più alto di una semplice eiaculazione in termini di energie investite perché può concretizzarsi in una gravidanza.

Ecco perché la donna si è evoluta sviluppando una strategia che non consiste nell’accoppiarsi il più possibile, ma nell’assicurarsi un maschio con i migliori geni e che le garantisca una presenza costante e partecipe nell’accudimento della prole (da ciò il mito del macho e del miliardario).

Questo da un punto di vista biologico.

Altra cosa invece è rispondere alla domanda in una prospettiva etica, morale.

Ma qui entrano in gioco e sono prevalenti, categorie sociali, culturali e religiose su cui non mi addentro perché ognuno, sulla base di quelle categorie dà una sua risposta.

Numero2994.

 

da  QUORA

 

Scrive Giancarmine Faggiano, corrispondente di QUORA

 

Perché la gente si è imbastardita?

 

Perché la gente oggi è insoddisfatta, è centrata solo su se stessa, sull’egoismo, sulla maleducazione con punte sprezzanti di cattiveria denigratoria.

Si è persa, in altre parole, la volontà di essere in buoni e civili rapporti comunicativi e, soprattutto, essere gentili con le persone.

Prevale, insomma, sempre più la volgarità allo scopo di sentirsi più fighi e superiori agli altri.

Ma che fighi?

Sono solo degli sfigati che hanno perso il senso delle buone maniere.

Non sanno neanche che significhi “umiltà , emozioni, sentimenti fraterni nelle relazioni.”

Numero2992.

 

da  QUORA

 

Scrive Giancarmine Faggiano, corrispondente di QUORA

 

Come bisogna affrontare le nostre paure?

 

Le paure si affrontano con coraggio per vincerle e non trasformarle in angoscia.

È inutile somatizzare nel pensare al peggio.

Bisogna , invece, avere la consapevolezza che una paura è un’emozione e, se gestita adeguatamente, trasmette resilienza e coraggio in risposta alla funzione adattativa di fronte ad un ostacolo percepito come tale.

Essere in grado di superare le proprie paure, nelle difficoltà, diventa un’esperienza unica, perché consente di uscirne mentalmente rafforzati e più pronti per un’eventuale altra sfida psicologica futura.

È bellissimo credere di essere diventati più forti nei pensieri che governano le nostre azioni.

Così si rafforza l’autostima.

Numero2991.

 

da  QUORA

 

Scrive Simo, una corrispondente di QUORA

 

Cosa ti ha detto un prete che non dimenticherai mai?

 

In una delle rare confessioni che ho fatto, ho detto al prete di aver mentito a mio padre sul suo cancro terminale e sul fatto che stava morendo.

È stata una bugia concordata con mia madre che per me fu un atto d’amore, tenuto conto della sua fragilità di nervi e della sua facile tendenza alla depressione.

Si trattava di tre mesi di vita e finché è stato cosciente ho fatto del tutto per convincerlo che aveva una grave epatite, piuttosto che un tumore al fegato e che doveva fare delle terapie sperimentali.

Tutto questo solo per cercare di dargli più serenità possibile in quel breve tempo.

Di tutto ciò, il prete mi disse che avevo sbagliato e che ogni persona ha diritto di sapere che sta morendo.

Una risposta che mai e poi mai mi sarei aspettata da un uomo di chiesa che, a prescindere da ciò che poi realmente faccia nel suo privato (…), dovrebbe predicare l’amore verso il prossimo.

Ci sono rimasta talmente male, ma talmente male, anzi proprio di merda diciamolo, che non l’ ho mai dimenticato, né perdonato.

Eppure era un prete giovane e mi era sembrato anche molto appassionato e bravo.

Per fortuna non l’ho mai più rivisto, perché mi ha fatto veramente del male, poi detto da lui.

 

N.d.R.: ….dispensatori di terrorismo psicologico….secondo i dettami della Chiesa Cattolica Cristiana.

Numero2984.

 

da  QUORA

 

Scrive Emanuele B., corrispondente di QUORA.

 

Comunicare per sedurre, coinvolgere, emozionare. Come si fa?

 

Punto uno: vestitevi bene. Vi dovete sentire a vostro agio con l’abbigliamento che indossate. Cercate di trovare il vostro stile, uno stile che possa rispecchiare quella che è la vostra personalità. Se vi sentite a vostro agio, già di principio partite bene. Se invece sentite che vi dovete vestire in una determinata maniera per sottostare a determinate regole sociali per cui andate in un dato posto e dovete mettervi la giacca che però vi fa sentire a disagio, ecco, diciamo che non va bene. Dunque, vestirsi bene non significa vestirsi eleganti ma vestirsi in un modo che vi rappresenti.

Secondo punto: tenete d’occhio la respirazione. Quando siete a casa, cercate di dedicare 10 minuti al giorno a fare dei respiri lunghi e profondi. Questa pratica vi aiuterà a rilassarvi e a trovare una maggiore connessione con voi stessi, ma soprattutto a disconnettervi da quella radio che continua tutto il giorno a trasmettere rumore nel vostro cervello. Dedicate 10 minuti al giorno a disconnettervi da tutto il resto.

Consiglio numero tre: fatevi dei video con il telefono. Può sembrare una cavolata, ma il primo esercizio è proprio questo. Provate a registrare delle conversazioni fittizie, magari a mezzobusto. Così riuscite a capire finalmente come gli altri vi vedono e potrete comprendere dove migliorarvi. Tutti abbiamo provato il famoso discorso davanti allo specchio, ma farlo registrando è un altro conto. Registrando potrete riguardarlo più e più volte e migliorarvi.

Punto quattro: parlate più lentamente del solito. Anche questo può sembrarvi un esercizio strano, ma le persone con carisma sanno trasmettere tranquillità con le loro parole e l’intonazione della loro voce. Spesso le persone si fanno travolgere da quella che è l’emozione, per cui si parla troppo rapidamente e questo può trasmettere ansia e agitazione. Esercitatevi parlando al rallentatore e scandendo le sillabe molto lentamente per 15 minuti al giorno. Quando siete con gli altri rallentate la vostra parlantina, se vi accorgete di essere agitati. Se provate a farlo tutti i giorni di sicuro la vostra comunicazione migliorerà.

Punto cinque: ecco un altro esercizio importante per l’autoimmagine e il carisma che ho imparato da un’intervista a Oliviero Toscani, famoso fotografo di fama internazionale. Come aumentare la consapevolezza di noi stessi? Guardandosi allo specchio nudi 10 minuti al giorno, in silenzio. Solo così abbiamo la consapevolezza del nostro corpo e solo così possiamo iniziare a dialogare realmente con noi stessi.

Punto sei: per aumentare il carisma inoltre datevi delle piccole sfide quotidiane. Provate ad attaccare bottone con il barman o ad aiutare uno sconosciuto, oppure a chiedere un consiglio a un cameriere.

Insomma, provate a fare qualcosa che vi faccia uscire dalla vostra zona di comfort. Cambiate strada per andare al lavoro, cantate, imponetevi di fare qualche chilometro di cyclette e così via. Piccole sfide quotidiane. Ciò non vuol dire fare i fenomeni, ma fare semplicemente qualcosa che solitamente non fate, vale a dire, ad esempio, cambiare il bar dove prendete il caffè la mattina. Uscire dalla vostra quotidianità vi farà aumentare il carisma.

Regola sette: riguardo ai rapporti interpersonali, stretta di mano decisa, sempre. Questo perché il linguaggio non verbale è potentissimo. Dovete essere sempre decisi quando vi interfacciate fisicamente con qualcuno. Pensiamo anche agli abbracci, alle pacche sulle spalle e alle strette di mano: devono essere atti vigorosi, perché solo così trasmettete carisma. Certo, non è che dovete stritolare qualcuno, però quanto è brutto quando vi danno la mano ed è tutta moscia?

Consiglio numero otto: apritevi, non tenete un atteggiamento di chiusura. Fate comunicare il vostro corpo, soprattutto la parte superiore. Date un senso di apertura e non di chiusura. A me, che accumulo molto sulle spalle la tensione, ci sono voluti anni per riuscire ad aprirmi. Se però state un po’ ingobbiti comunicate che siete un po’ sfigati, un po’ chiusi. Dunque, cercate di avere un atteggiamento di apertura.

Punto nove: non tergiversate. Quando vi trovate di fronte a una decisione, anche piccola, (oppure esprimete il vostro parere su qualcosa) non tornate sui vostri passi, non cambiate idea. Questo è un potente indicatore di personalità: se dite di sì è sì, se dite no è no. Dovete essere sicuri di quello che dite. Non fate passi indietro per soddisfare l’altro, perché altrimenti perderete gran parte dei punti guadagnati durante l’atto comunicativo.

Punto dieci: quando siete nel panico, ascoltate. Se vi sentite sopraffatti dall’emozione fate parlare l’altra persona, fate delle domande. Così facendo prendete tempo, vi calmate e l’altra persona sarà soddisfatta della vostra curiosità, perché l’argomento preferito di chiunque è parlare di se stessi. Dunque, usiamo questa tecnica a nostro favore e se siamo nel panico facciamo parlare l’altro così prendiamo tempo e l’altro è soddisfatto.
Il messaggio di far parlare l’altro è che si ha voglia di ascoltare e si è interessati, anche se in realtà ve la state facendo sotto!

Punto undici: fate molte domande. Questo è collegato al punto precedente. L’ascolto dev’essere sempre attivo. Fare delle domande, anche indirette, permette di conoscere l’altro e di soddisfare la sua voglia di parlare. Così potete organizzare meglio la conversazione. Fate domande indirette: anziché dire “Ciao come stai?” potete dire “Ciao ti vedo molto allegra … immagino che tu abbia passato una buona serata”.

Punto dodici: parlate meno di voi stessi. Chi ha carisma non ha bisogno di parlare sempre di sé stesso. Non fate monologhi, perché le persone con carisma si focalizzano sull’altro. Più state in silenzio attivo e più le vostre parole avranno un impatto. Ricordo l’adagio di Nanni Moretti: “Mi si nota di più se non vengo alla festa o se vengo e me ne sto in disparte?”. Silenzio, per poi dire cose sensate parlando meno di sé stessi.

Punto tredici: quando avete intenzione di parlare di voi stessi fate uso di quello che chiamo ‘storytelling relazionale’. Trasmettete i vostri valori attraverso aneddoti e racconti. Non dite “Io sono una persona coraggiosa” ma cercate di raccontare una storia in cui il meta messaggio evidenzi le vostre qualità e i vostri valori. Lo storytelling relazionale, ossia raccontarsi e valorizzarsi attraverso le storie, è importante perché è il modo migliore per coinvolgere il nostro interlocutore e allo stesso tempo raccontare qualcosa di noi.

Consiglio quattordici: torniamo agli esercizi da fare in solitaria: quando potete cantate. Cantare e ballare, anche in doccia, aiutano a sbloccarsi e lasciarsi andare.

Punto quindici: durante una conversazione, portate la discussione sui vostri argomenti. Appena vi è possibile cercate di portare l’interlocutore su argomenti a voi vicini, cercate di creare comunanza. La comunanza crea ispirazione e la conversazione diventerà più avvincente.

Punto sedici: Lasciatevi trasportare. Non siate troppo cervellotici, non pensate a quello che dovete dire, non siate iperattivi a livello mentale, rilassatevi. Chi ha carisma è rilassato, ascolta e contribuisce alla conversazione con argomenti di qualità. Non parlate solo per parlare. Parlate quando avete qualcosa da dire, ma soprattutto ascoltate. Se dovessimo fare una sorta di proporzione: 80 ascoltate e 20 parlate. Ma quel 20 deve esplodere perché la persona che avete di fronte si sente ascoltata e può nascere un ping-pong comunicativo interessante. Fate per primi il passo di ascoltare e di fare domande. Interessatevi, perché le persone con carisma questo fanno.

Punto diciassette: se vi sentite a disagio verbalizzatelo, ditelo. Questo è un trucco utilizzato da molti speaker a inizio presentazione. Provate a dire che vi sentite tesi o a disagio, perché questo mette l’interlocutore in uno stato connettivo con voi. Non dovete vergognarvi di dirlo. Solo una persona forte dimostra di poter esprimere il proprio disagio. Questa cosa me la insegnò mia zia quando ero bambino e stavo per preparare l’esame delle medie. Mi disse che se fossi stato in crisi per una domanda dell’orale avrei potuto provare a dire “Chiedo scusa mi sento un attimo a disagio, potrebbe ripetermi la domanda?”. Così avrei preso tempo e ci avrei potuto pensare. Questa è una tecnica che ho utilizzato in tutti gli esami dell’università: dire di essere un po’ teso o un po’ nervoso. Verbalizzare il disagio non vi uccide e non uccide neanche l’altro.

Punto diciotto: scherzaci su. Quando siamo molto nervosi diventiamo goffi. A quel punto scherziamoci su. Vi aiuterà a scaricare la tensione, ad alleggerirvi.

Punto diciannove: sfruttate il lato sensibile che è in voi. Se vi ritenete persone sensibili avete un plus che può fare breccia in molte persone e non dovete vergognarvi di dirlo, dovete vederlo come un pregio. Questo vostro lato sensibile vi permette di connettervi in modo più autentico con gli altri, ma soprattutto il vero alfa è colui che non ha paura di mostrare i propri punti deboli. Solo una persona con grande consapevolezza e grande carisma è in grado di esprimere la propria sensibilità.

Punto venti: dovete leggere molto ogni giorno perché vi permette di avere sempre nuovi argomenti di discussione e di ottenere un vocabolario più ricco e una visione del mondo più completa. Alla lettura io sostituisco gli audiolibri che sono un sostituto molto intelligente, perché vi permettono di ascoltare libri e informazioni interessanti mentre fate altro. Informatevi bene, leggete, ascoltate audiolibri e podcast.

Punto ventuno: quando dovete comunicare ricordatevi che non state facendo nulla di male. Comunicare è vivere e la vita è fatta di comunicazione. Se non comunicate e vi tenete le cose per voi rischiate di diventare ‘morti dentro’. Convincetevi che l’atto comunicativo è sempre lecito. Basta imparare la comunicazione emozionale, ossia fare un ragionamento a monte chiedendosi che emozione si vuole intaccare, quali siano le parole giuste per esprimersi, in che momento e in quali termini illustrare un dato concetto. Di comunicazione non è mai morto nessuno, al massimo vi rifiutano. Il rifiuto è la cosa che terrorizza l’essere umano, ma bisogna imparare a fregarsene perché la persona che rifiuta non sta giudicando voi ma solo quell’approccio comunicativo.

Desensibilizzarsi al rifiuto è la cosa più intelligente che potete fare in ambito seduttivo.

Punto ventidue: penultimo punto e tema mistico. I vostri limiti non vengono visti dagli altri. I vostri interlocutori non hanno lo specchio magico e non riescono a leggervi nel pensiero. Probabilmente nessuno vi ritiene goffi o senza carisma, è solo una vostra credenza limitante. Provate a chiedere a dieci vostri conoscenti se siete goffi in comunicazione e quale sia stata la loro prima impressione su di voi. Questo è importante. Vi accorgerete che nessuno vi dirà che siete degli sfigati, sono credenze vostre. A meno che la cosa non sia conclamata gli altri non se ne accorgeranno.

Il punto ventitré è il più importante tra tutti: rimanere sempre sé stessi. Non possiamo sempre vincere. Alcuni sono bravi in certe cose, altri in altre. Magari non sarete dei bravi comunicatori, però esiste sempre margine di miglioramento. Tutti possiamo imparare a connetterci in modo più autentico. Essere sé stessi è la cosa migliore. Però se siete stati voi stessi fino ad ora e state leggendo questo articolo, probabilmente avete una spinta a migliorarvi.

Numero2983.

 

da  QUORA

 

Scrive Matteo Dossi, corrispondente di QUORA

 

Come faccio ad uscire dalla COMFORT ZONE?

 

La comfort zone, nota anche come “zona sicura”, è uno stato psicologico in cui tutto ciò che circonda una persona risulta essere familiare e privo di incognite, motivo per cui il soggetto tende a non correre rischi derivanti da un cambiamento nella propria vita.

Quali sono i più grandi problemi derivanti da questa situazione? Primo per ordine e per importanza vi è il fatto che, evitando di correre rischi si perderanno un’infinità di occasioni che avrebbero potuto cambiare la propria vita; in secondo luogo, il continuo rimorso e il rimuginare per le occasioni non sfruttate può portare ad aumentare notevolmente i livelli di stress e ansia.

Un esempio di questa situazione? Quello del dipendente non soddisfatto del proprio lavoro ma che non trova il coraggio di lasciare tutto per andare a inseguire il proprio sogno.

Ovviamente, in alcuni casi le possibilità di scelta sono purtroppo molto poche (una famiglia a proprio carico, una situazione economica non facile, etc.), però purtroppo spesso è la pigrizia la causa che non permette di lasciare questo porto sicuro. Vediamo quindi come fare per invertire questa tendenza negativa.

Alcuni semplici consigli per uscire dalla zona sicura

  1. Le abitudini spesso si creano poiché in passato le cose andavano bene in quel modo. Bisogna però rendersi conto e ammettere che così ora non può più funzionare. Una volta presa coscienza della propria situazione, si sarà pronti a partire;
  2. Incomincia con un qualcosa di semplice: scegli un’azione, anche piccola e non troppo importante, che ti ha sempre spaventato e parti da quella. Ti servirà per trovare il coraggio per iniziare il tuo percorso;
  3. Fatto il primo passo, prova a fare un qualcosa di nuovo ogni giorno. Questo ti permetterà di prendere via via più confidenza con questa nuova situazione e di proiettare un’immagine sempre più positiva di “te” nel futuro;
  4. Agisci in modo da essere semplicemente quello che sei. Non fingere di essere un’altra persona, non costringerti a diventare quello che non vuoi davvero, altrimenti ti ritroverai in una situazione peggiore di quella di partenza.

Conclusione

La fase più complessa è sicuramente quella iniziale, ma una volta che si sarà riusciti a slegare le catene mentali che ti tengono vincolato, il percorso sarà in completa discesa.

Numero2982.

 

da  QUORA

 

Scrive Paolo Pelizzon, corrispondente di QUORA

 

Perché Jung sostiene che la psiche continua a vivere dopo la morte?

 

Perché l’anima è una Energia con capacità pensante che, appunto, ánima il nostro corpo fisico per il tempo di questa incarnazione.

L’ANIMA, è LA PSICHE e, la psiche, NON è la psicologia.

Le reincarnazioni, sono indispensabili per l’evoluzione dell’anima.

Fra di noi, uomini incarnati, le differenze di livello evolutivo possono essere abissali, molti si trovano ad uno stadio di animali parlanti, altri sono delle menti illuminate.

Sono appunto questi uomini evoluti che, avendo raggiunto uno stato di coscienza elevato. ancora inaccessibile alla maggioranza, avendo pure raggiunto la Conoscenza Istintiva, la Lucidità e Libertà Mentale, attingono la loro sapienza istantaneamente dal Mondo della NON PAROLA, totalmente oscuro ed imperscrutabile agli ignoranti e, soprattutto, ai fanatici religiosi .

Il Mondo Spirituale è infinito ed eterno. Da là proveniamo e là ritorneremo.

Numero2981.

 

da  QUORA

 

Scrive Sandro Stefanelli, corrispondente di QUORA.

 

Il detto popolare “TROMBA DI CULO SANITÂ DI CORPO” ha qualche validità scientifica?

 

Sin da quando il mondo aveva
fra i  viventi Adamo ed Eva
era in voga in tutti quanti
di coprirsi il davanti,
mai nessuno pensò, strano,
di coprirsi il deretano.

Le scoregge più discrete
conturbavan la quiete
ed allora i dolci suoni
trapassavano i calzoni.
La scoreggia di gran gloria
si è coperta nella storia.

Pur Augusto Imperatore
scoreggiava a tutte l’ore
e la corte assai perfetta
scoreggiava senza fretta
e persino in casi gravi
scoreggiavano gli schiavi.

Si racconta che Tiberio
scoreggiasse serio serio,
che Caligola il tiranno
scoreggiasse tutto l’anno
e più d’una ogni mattina
ne facesse Catilina.

Marco Tullio in Campidoglio
le lasciava con orgoglio
e non eran certo poche
domandatelo alle oche;
e perfino le Vestali
ci spegnevano i fanali.

Ciceron per ore intere
chiacchierava col sedere,
quelle poi di Coriolano
si sentivan da lontano
e con schiaffo sulla trippa
scoreggiava pure Agrippa.

Muzio Scevola e Porsenna
ne portarono per strenna
alle feste d’Imeneo
ove il console Pompeo
e più ancora il gran Lucullo
scoreggiavan per trastullo.

Scoreggiava Roma intera
da mattina sino a sera,
scoreggiava in grande stile
anche il sesso femminile;
mentre invece Cincinnato
le faceva in mezzo al prato.

Scoreggiò Napoleone
anche al rombo del cannone
“La battaglia non si perda”
e Cambronne rispose “merda”,
ch’è la cosa più sicura
se c’è in mezzo la paura.

Scoreggiava come un tuono
Cleopatra dal suo trono,
mentre invece Agrippina
le faceva in sordina
e Cornelia ai suoi gioielli
ne faceva dei fardelli.

Le faceva senza posa
Messalina lussuriosa;
scoreggiava assai felice
la dolcissima Beatrice
ed il sommo padre Dante
le annusava tutte quante.

Le scoregge del Boccaccio
ti lasciavano di ghiaccio.
Scoreggiava pure Tasso
imitando il contrabbasso.
Mentre invece il Machiavelli
sradicava gli alberelli.
Ed il gran poeta Alfieri
scoreggiava giorni interi..

Il gran Volta con la Pila
le faceva sempre in fila,
Scoreggiava Paganini
per far ridere i bambini,
mentre il buon Pascal rideva
proprio mentre le faceva.

Di Archimede dir si suole,
che oscurasse pure il sole,
mentre a colpi di pennello
le faceva Raffaello
ed il grande Cimarosa
la faceva rumorosa.

Dopo quanto è stato detto
non si può chiamar difetto,
se noi pure qualche volta
le facciamo a briglia sciolta.
Perciò è logico e prescritto
che scoreggi il sottoscritto.

Numero2974.

 

 

SALUTE MENTALE

Sindrome di Stoccolma

di Francesca Gianfrancesco 

La sindrome di Stoccolma è una dimostrazione palese di un legame traumatico. L’espressione “sindrome di Stoccolma”, infatti, è utilizzata per indicare una situazione paradossale in cui la vittima – di un sequestro, di un atteggiamento aggressivo o di altri tipi di violenza – avverte un sentimento di simpatia, empatia, fiducia, attaccamento e persino amore nei confronti dell’aggressore o sequestratore che detiene una posizione di potere nei confronti della vittima stessa.

Che cos’è la sindrome di Stoccolma

Gli esperti definiscono la sindrome di Stoccolma come un particolare stato di dipendenza psicologica/affettiva in cui la vittima, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del suo aggressore, arrivando ad instaurare un legame forte e di totale sottomissione volontaria e addirittura una sorta di rapporto di alleanza e solidarietà con il suo carnefice.

Molto spesso la sindrome di Stoccolma può essere ritrovata nelle situazioni di violenza sulle donne e negli abusi sui minori. È infatti statisticamente più frequente nelle donne, nei bambini, nelle persone particolarmente devote ad un certo culto, nei prigionieri di guerra e nei prigionieri dei campi di concentramento. Circa l’8% dei casi di sequestro di persona è caratterizzato dal fenomeno della sindrome di Stoccolma.

Nonostante sia definita come una sindrome, in realtà non è considerata una patologia clinica e non rientra nelle malattie psichiatriche, poiché secondo gli specialisti del settore non presenta i requisiti necessari per essere inserita nei manuali di psichiatria. Durante la stesura della V^ edizione del DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) gli esperti hanno preso in considerazione l’idea di inserire la sindrome di Stoccolma in una sezione specifica dell’opera.

Si è optato poi per l’esclusione per mancanza di studi scientifici validi e perché si è considerato che, di fatto, sentimenti positivi come empatia, affetto, amore, ecc. non possono essere classificati sintomi specifici di un disturbo psichiatrico, nonostante essi siano rivolti ad un aggressore/sequestratore. Non rientrando dunque tra le condizioni psichiatriche non ci sono criteri validati per poter formulare una diagnosi vera e propria e non richiede una terapia specifica.

Perché si chiama sindrome di Stoccolma

23 agosto 1973, due detenuti evasi dal carcere di Stoccolma (Jan-Erik Olsson di 32 anni e Clark Olofsson, 26 anni) tentarono di rapinare la “Sveriges Kredit Bank” prendendo in ostaggio quattro impiegati (tre donne e un uomo). Ma qualcosa non andò come dovuto e il fatto di cronaca conquistò le prime pagine di tutti i giornali.

Furono 5 giorni molto intensi durante i quali, mentre la polizia cercava di trattare il rilascio degli ostaggi, all’interno della banca nasceva un rapporto di affetto reciproco tra sequestratori e vittime, uniti dalla volontà di proteggersi a vicenda. Questa sorta di convivenza forzata terminò poco prima di sei giorni, dopo i quali i malviventi si consegnarono alla polizia senza nessuna risposta di forza e le vittime furono rilasciate senza alcun atto di violenza da parte dei sequestratori.

Fu il primo caso in cui le vittime vennero supportate anche a livello psicologico dopo il sequestro e dai colloqui emerse proprio questo enorme paradosso: le vittime temevano di più l’azione della polizia che non i loro sequestratori, nei confronti dei quali invece provavano un sentimento positivo, tanto grande da essersi recati successivamente nel carcere a fargli visita e addirittura una delle impiegate divorziò per potersi poi sposare con uno di loro. Durante i colloqui psicologici le vittime riferirono di essere in debito con i loro sequestratori poiché non avevano fatto loro del male, più di quanto avessero potuto e avevano “restituito loro la vita”.

Il fatto di cronaca sviluppò un grande interesse da parte del criminologo e psicologo Nils Bejerot, che coniò il termine “sindrome di Stoccolma” per definire quella reazione paradossale emotiva al trauma sviluppata automaticamente a livello inconscio legata all’essere “vittima”.

Come si manifesta la sindrome di Stoccolma

I comportamenti che manifesta chi sviluppa la sindrome di Stoccolma sono del tutto singolari.

La vittima di sequestro o di un atteggiamento aggressivo o di altri tipi di violenza:

  • Dimostra sentimenti positivi come simpatia, empatia, affetto e talvolta innamoramento nei confronti del sequestratore/carnefice
  • Rinuncia alla fuga anche avendone la possibilità
  • Rifiuta di collaborare con la polizia o con le autorità nei confronti dei quali prova invece dei sentimenti avversi
  • Prova a compiacere i rapinatori/aggressori (comportamento frequente negli ostaggi/vittime di sesso femminile)
  • Legittima e discolpa i comportamenti e l’operato del sequestratore
  • Si sottomette volontariamente al volere del sequestratore
  • Rifiuta di testimoniare

La comparsa di tale sindrome è direttamente dipendente dalla personalità del sequestrato: essa, infatti, insorge in personalità fragili, non ben strutturate, poco solide, mentre chi ha un carattere forte e dominante sarà meno predisposto a manifestarla.

Durante i rapimenti di soggetti delicati in genere il sequestratore effettua una sorta di lavaggio del cervello volta a depersonalizzare la vittima spingendola a credere che nessuno arriverà a salvarla.

Dunque una prima fase comune a tutti coloro che rientrano nella sindrome di Stoccolma è un contatto “positivo” (che si innesca inconsciamente) con coloro che sì, li privano della libertà, ma che potrebbero abusare o maltrattare ancora di più le loro vittime ma non lo fanno.

Tutto questo non deriva dall’idea di esercitare un comportamento favorevole e vantaggioso nel “farsi amico” il sequestratore, ma è assolutamente una scelta non razionale che si innesca come meccanismo automatico legato all’istinto di sopravvivenza.

Insomma, per garantirsi la grazia del suo aguzzino la vittima elimina inconsapevolmente ma in modo conveniente dalla sua mente il rancore nei suoi confronti.

In questa condizione il rapitore avrebbe meno motivi per scatenare la sua violenza contro la vittima. In effetti, è stato riscontrato che la sindrome di Stoccolma favorisce la sopravvivenza dei soggetti rapiti.

Dopo un primo stato di confusione e di terrore, la vittima reagisce allo stress “negando”. La negazione, infatti, è un rifugio psicologico primitivo che la mente utilizza per poter sopravvivere: non sta succedendo.

Un’altra possibile risposta è la perdita dei sensi o il sonno immediato, indipendente dalla volontà del soggetto. Quando la vittima inizia ad accettare e a temere realmente per la situazione che sta vivendo, la sua psiche trova un altro appiglio: verrà qualcuno a salvarmi.

Questo è un passaggio molto importante, poiché crea nella vittima la certezza che siano le autorità ad intervenire e a portarla in salvo. Il tempo spesso viene percepito in modo errato e dunque più il tempo passa più nella vittima si innesca un sentimento automatico che tende a rinnegare le autorità e l’aiuto che tarda ad arrivare e resta latente.

Dunque quella idea di partenza che nessuno verrà a cercarmi è vera? La vittima inizia a sentire che la sua vita dipende direttamente dal rapitore sviluppando un attaccamento psicologico verso di lui. Inizia ad immedesimarsi, a giustificare a comprendere le motivazioni che lo spingono alla violenza.

Sintomi della sindrome di Stoccolma

A liberazione avvenuta, molte delle vittime che hanno sviluppato la sindrome di Stoccolma hanno continuato ad avere sentimenti positivi nei confronti dei loro sequestratori nonostante l’episodio abbia provocato uno shock tale da avere delle conseguenze psicologiche onerose.

I disturbi più comuni riscontrati sono disturbi del sonnoincubi ricorrenti, fobie, depressioneflashback in cui rivivono i fatti accaduti.

Anche la consapevolezza di questi disturbi psicologici non sempre corrisponde ad una diminuzione dell’attaccamento positivo provato nei confronti del carnefice (ricordiamo che una delle impiegate della Kredit Bank ha addirittura sposato il suo rapitore).

Alcune vittime, anche a distanza di tempo, hanno mantenuto un atteggiamento ostile nei confronti della polizia o delle autorità in generale. Altre hanno iniziato a raccogliere fondi per aiutare i loro ex carcerieri e la maggior parte delle vittime si è rifiutata di testimoniare in tribunale contro di loro. Durante le interviste psicologiche è stato rilevato nelle vittime il bisogno di far visita ai loro ex carcerieri per accertarsi del loro benessere mentre provavano sensi di colpa per la loro carcerazione.

Cause che innescano la sindrome di Stoccolma

Le cause precise che determinano la sindrome di Stoccolma non sono ancora chiare, tuttavia molti studi sull’argomento hanno dimostrato come ci siano delle condizioni di base/situazioni specifiche comuni, che sono determinanti allo sviluppo della sindrome.

Queste situazioni sono 4:

  1. L’ostaggio sviluppa dei sentimenti positivi come simpatia, affetto, riconoscenza e anche amore, nei confronti del suo sequestratore. Da alcuni studi sul comportamento umano è emerso che atti visti come di “gentilezza” o cortesia da parte dei sequestratori, che banalmente possono essere garantire il cibo o lasciare utilizzare i servizi igienici, hanno un impatto benevolo sulla psiche dell’ostaggio tanto da far tralasciare la sua condizione di vittima e quasi da giustificare i comportamenti del suo sequestratore
  2. Non esiste nessun legame, rapporto e relazione precedente tra ostaggio e rapinatore La vittima inizia a sviluppare dei sentimenti negativi nei confronti della polizia o delle autorità in generale. Alla base di questi sentimenti c’è inizialmente la condivisione di un ambiente e di una situazione isolata, lontano dal resto del mondo tra il sequestratore e la vittima. Questo sentimento di condivisione scatena nell’ostaggio avversione nei confronti di chi deve salvarlo che dapprima tarda ad arrivare ma poi “invade” il luogo di condivisione, spingendo la vittima spesso ad aiutare in caso di bisogno il rapinatore.
  3. Secondo gli esperti, un’importante situazione favorente (ma non indispensabile) lo sviluppo della sindrome di Stoccolma sarebbe la durata prolungata del sequestro. Un sequestro prolungato, infatti, farebbe sì che l’ostaggio conosca più a fondo il suo sequestratore, entri in confidenza con quest’ultimo, fortifichi la simpatia e l’attaccamento nei suoi confronti, cominci a sentirsi dipendente da lui
  4. Sviluppo di senso di fiducia nell’umanità di chi lo ha sequestrato. L’ostaggio inizia a credere nell’umanità del rapinatore e più passa il tempo più il senso di attaccamento cresce. La vittima inizia ad avere paura non della sua condizione di ostaggio privo di libertà, ma inizia ad avere paura che qualcuno, intervenendo, possa fare del male al suo stesso carnefice. Questa fiducia nel senso di umanità del sequestratore non è dato tanto dal comportamento di quest’ultimo, ma è da ricercarsi nel credere che non abbia commesso atti di violenza ancora più gravi di quelli commessi: Avrebbe potuto riservarmi un trattamento ancora più violento, ma non lo ha fatto…

Esiste una cura per la sindrome di Stoccolma?

Non esiste alcun piano terapeutico specifico per chi soffre di sindrome di Stoccolma; è, infatti, il tempo a ristabilire la normalità nella psiche della vittima del sequestro.

Per il superamento delle conseguenze correlate alla sindrome di Stoccolma, gli esperti del comportamento umano ritengono fondamentale il supporto e l’affetto della rete familiare e sociale.

 

LA SINDROME DI STOCCOLMA

INNAMORARSI DEL PROPRIO PERSECUTORE

E’ difficile non vedere le forti analogie fra la sindrome di Stoccolma e la sindrome da dipendenza affettiva.

Il trait d’union fra le due sindromi consiste, da parte del dipendente, nel sentimento di ineluttabile prigionia e di terrore, quindi nella conversione di questi sentimenti in ammirazione, devozione, amore; e, nel dominante, di ambivalenza emotiva ed euforico sentimento di potere.

La persona maltrattata ridotta in una condizione di impotenza può “salvare” l’equilibrio mentale raffigurandosi la propria soggezione come amore fra lei e il persecutore. Il terrore di essere violati fisicamente e moralmente potrebbe promuovere una reazione di rabbia; ma poiché la rabbia viene avvertita come minacciosa per la propria sopravvivenza, viene rimossa. Al suo posto si riattivano allora le emozioni di dipendenza tipiche dell’età infantile: idealizzazione, ammirazione, devozione, amore per il potente (il genitore); a questi sentimenti arcaici, in età adulta si aggiunge sovente un intenso investimento erotico. Il persecutore appare allora non solo “giusto”, ma anche “attraente” ed “eccitante”.

La sindrome di Stoccolma è, dunque, una sorta di alleanza tra vittima e carnefice. Una ostentazione di sentimenti positivi verso l’aggressore che può portare coinvolgimenti affettivi, valoriali e sessuali. La vittima, per sfuggire al pericolo e sopravvivere, fa sue le ragioni del carnefice. Pertanto, interiorizza le ragioni dell’altro e lo giustifica, fino a innamorarsene e a rendersi deliberatamente suo schiavo.

In sintesi, la Sindrome di Stoccolma inverte il processo emotivo che ci consente di distinguere il nemico dall’amico, l’aggressore dalla vittima, colui che ci odia da colui che ci ama. E’ una situazione di grande interesse per capire e gestire nella pratica clinica i casi di angoscia infantile e, negli adulti, di dipendenza affettiva, masochismo morale, collusione sadomasochista.