N.d.R. : Aggiungo un mio breve commento. In questi ultimi decenni, in tutti i campi dello scibile umano, nei comportamenti abituali della vita civile, nella scienza e nella tecnica si sono presentate delle nuove conoscenze ed implementazioni che hanno sconvolto, e a volte capovolto, tante certezze ed abitudini consolidate da secoli e millenni. Ad esse ci siamo assuefatti e su di esse ci siamo adagiati acriticamente: le abbiamo fatte diventare delle verità incontestabili. Oggi non è più così. Molte cosiddette “verità” non si sono più dimostrate tali, alla luce di nuove conoscenze, molte consuetudini si sono rivelate addirittura deleterie, distopiche, anacronistiche. Non perdiamo la facoltà critica di cancellare il vecchio, quando è sbagliato, o anche solo inutile e superato, senza buttarsi, però, a capofitto nel nuovo, purché provato e pragmaticamente accessibile. Accogliamo il nuovo cum granu salis ( con circospezione), ma accogliamolo. E buttiamo nella spazzatura il vecchio che, all’evidenza, è solo ingombro, ostacolo, putrefazione. Però, non buttiamo mai le cose vecchie dell’arte o dell’artigianato: come cimeli di storia valgono ancora e sempre, come fruizione estetica sono universali ed eterne.
I Russi stanno scrivendo col sangue ( Ucraino) alcune delle più brutte pagine della storia dell’umanità.
Scrivere col sangue (proprio) per, poi, impiccarsi ad appena 30 anni, è stata la macabra performance di un elevato ed eletto spirito, interprete della cultura artistica Russa, il poeta Sergéj Esénin.
La notte del 27 dicembre 1925, in un albergo di San Pietroburgo, il poeta russo Sergei Esenin (o Sergej Yesenin, 1895-1925, pronuncia: Serghiéi Iessénin) si tagliava le vene e col sangue appena sgorgato scriveva la sua ultima composizione.
È una poesia d’amore e d’addio per il poeta Anatoli Marienhof (o Anatolij Mariengof), che era stato suo amante (e per un certo tempo anche convivente) negli ultimi quattro anni della sua vita.
Quelle righe, l'”Addio a Marienhof“, sono spesso citate da chi parla di Esenin, ma sempre nascondendo il fatto che sono l’estremo saluto all’uomo amato:
Arrivederci, amico mio, arrivederci, tu sei nel mio cuore. Una predestinata separazione un futuro incontro promette. Arrivederci amico mio, senza strette di mano e parole, non rattristarti e niente malinconia sulle ciglia: morire in questa vita non è nuovo, ma più nuovo non è nemmeno vivere
Quella notte, fosse questa l’ultima chance offertagli dal destino o fosse imperizia, il taglio delle vene non risultò fatale: Esenin sopravvisse. Come spesso avviene in questi casi egli fece allora un ultimo gesto di richiesta d’aiuto, cercando di farsi bloccare dagli altri prima di compiere il gesto irreparabile: la poesia scritta col sangue fu consegnata a un amico, Elrich, che però non ebbe il tempo per leggerla immediatamente.Fu così che nessuno arrivò in tempo per fermarlo la notte successiva, quando nel medesimo albergo Esenin ripetécon successo il tentativo di suicidio, impiccandosi. Aveva appena trent’anni.
La sua carriera era stata folgorante e aveva toccato i vertici della fama mondana: un destino questo che arride a pochissimi poeti. Eppure quando morì la fama mondana, incostante, iniziava ad abbandonarlo con la stessa capricciosa rapidità con cui lo aveva toccato, complice anche la soffocante atmosfera della Russia di Stalin.
Figlio di contadini benestanti, Esenin era cresciuto in campagna, presso i nonni assai tradizionalisti. Fu la descrizione e la nostalgia di questo mondo agricolo e arcaico (destinato a sparire pochi anni dopo nel dramma della Rivoluzione sovietica) che gli fece toccare le sue corde più sentite e lo rese celebre.
Esenin è un classico esempio di uomo “che si è fatto da sé”, o quasi, usando per farsi strada ora il talento artistico e ora (molto) la bellezza, due doti che la sorte gli aveva concesso con pari generosità:
“Bello, affascinante e grande opportunista, Esenin arrivò a Pietroburgo nel 1915 all’età di vent’anni fermamente deciso a diventare un poeta famoso. Per ottenere questo scopo Esenin si servì del suo fascino, dell’origine contadina (molto di moda in quel periodo) e, quando necessario, dell’attrattiva che esercitava sugli omosessuali. Le brevi relazioni con Sergej Gorodetskij e con Rjurik Ivnev gli aprirono molte strade letterarie.Nell’aprile 1915 Esenin scrisse al già celebre poeta Nikolaj Kljuev una lettera piena di ammirazione esprimendo il desiderio di incontrarlo. Come le memorie di Gorodetskij rivelano, Kljuev venne a Pietroburgo e “si impadronì di Esenin diventandone l’esclusivo possessore“.Nei due anni seguenti i due poeti lavorarono in coppia, ostentando simili e sgargianti costumi folkloristici, dando insieme letture di poesia e passando insieme molto del loro tempo. Le raccolte di poesie di Esenin di solito includono tre poesie d’amore per Kljuev del 1916, ma non specificano a chi queste poesie sono rivolte.Sergej Esenin fu bisessuale e per tutta la vita non seppe decidersi fra uomini e donne. Alla fine si staccò da Kljuev e si orientò verso i matrimoni molto pubblicizzati con l’attrice Zinaida Raich, con Isadora Duncan e con la nipote di Leone Tolstoj, per non parlare degli affari di cuore con signore e dei clandestini coinvolgimenti con uomini. Quello più duraturo di questi ultimi fu la relazione durata quattro anni con il poeta Anatolij Marienhof, al quale Esenin rivolse la bellissima poesia “Addio a Marienhof“. Kljuev non riuscì mai a rassegnarsi alla perdita di Esenin, cantando nelle sue poesie la speranza che Esenin sarebbe tornato da lui, affermando che essi sarebbero rimasti coniugi negli annali della poesia”
La carriera di Esenin inizia dunque grazie a relazioni con uomini in grado di “lanciarlo” sulla scena letteraria.La cerchia a cui si indirizza è ovviamente quella dei “poeti-contadini” della quale il giovane poeta Sergei Gorodecki (o Gorodeckij, 1884-1967) è un po’ il teorico. Oltre tutto, suo amante e protetto era già stato in precedenza un altro poeta gay che cantava la Russia rurale, il già citato Nikolai Kljuev (o Nikolaj Kluev, 1887-1937).
Nelle sue Memorie Gorodecki descrive il suo incontro con Esenin in termini trasparenti: Esenin
“era incantevole, con quella sua voce melodiosa da monello, con quei suoi riccioli biondo chiarissimo, (…) con quei suoi occhi blu… Esenin venne a stare a casa mia. Alleviai le sofferenze del suo cammino con le mie lettere di presentazione per tutte le relazioni che conoscevo“
Le “lettere di presentazione” del primo amico furono sfruttate al meglio, e in breve, come abbiamo visto, Esenin divenne (dal 1915 al 1917) partner inseparabile di Kljuev, assieme al quale mise in piedi veri show folkloristico-poetici (accompagnati dalla fisarmonica suonata da Esenin), che fecero discutere la società “bene” e portarono fama al giovane poeta (la cui carriera non fu danneggiata dalla chiamata alle armi) In quegli anni e in quelli successivi Esenin fece di tutto per conquistarsi una fama da “teppista“, concedendosi atteggiamenti genettiani che riempirono di deliziato scandalo i salotti pietroburghesi. Le pose di Kljuev ed Esenin vanno insomma viste come una vera attività “promozionale” che centrò il bersaglio: se i due vivessero oggi sarebbero di certo star televisive…
Così un contemporaneo, Cerniavskij, descrisse nel dicembre 1915 il sodalizio fra i due:
“Kljuev ha completamente sottomesso il nostro Sergej: gli lega la cintura, gli accarezza i capelli, se lo mangia con gli occhi” .
Lo stesso si affretta però ad aggiungere che la sana virilità di Esenin fu tale che non è nemmeno concepibile che egli abbia reciprocato le attenzioni erotiche di Kljuev e degli altri omosessuali! In realtà la disinvoltura erotica di Esenin fu molto maggiore di quanto Cerniavskij pensasse. Non appena ebbe ottenuto dagli uomini quel “lancio” che desiderava, Esenin passò infatti senza esitazioni a costruirsi una fama più “regolare”, usando le donne nello stesso modo in cui fin lì aveva usato gli uomini. Esenin passò così attraverso tre matrimoni: le mogli avevano tutte nomi tali da garantire l’interessamento delle cronache mondane.
Dalla prima moglie, l’attrice Zinaida Raich, Esenin ebbe due figli, ma il matrimonio, avvenuto nel 1917, nel 1920 era già fallito, e si concluse con un divorzio.
La seconda moglie, la danzatrice americana lesbica Isadora Duncan (1878-1927) lo conobbe nel 1921. Nonostante i due non parlassero nessuna lingua comprensibile a entrambi, fu “amore a prima vista”: le nozze avvennero nel 1922.
Fu un’astuta mossa promozionale per entrambi.
La Duncan si garantì l’attenzione del pettegolezzo mondano esibendo per il mondo quel folcloristico pezzo di marcantonio di poeta russo scapigliato, mentre per Esenin essere “marito della grande Isadora Duncan”, idolatrata in tutto il mondo, non costituì certo uno svantaggio…
Tuttavia
“molto si è discusso sull’amore di Esenin per Isadora, se amò lei o la sua fama. Forse però sarebbe meglio cogliere come naturalmente si integrino nel poeta la compiaciuta astuzia contadina, la filosofia da arrampicatore sociale e l’esibizionismo da gran parvenu. Comechessia il periodo estero del rapporto non solo distrusse la possibilità di vivere insieme, ma disintegrò durevolmente la vita di entrambi”
In effetti già nel 1923 arrivò il divorzio dalla Duncan e il ritorno definitivo in Russia, dove però attendeva Esenin un periodo sempre più cupo (il poeta ebbe fra l’altro seri problemi di alcolismo e subì un internamento in clinica psichiatrica).Poco prima di morire Esenin fece un estremo sforzo di regolarizzare la propria vita, sposando il 18 settembre 1925 Sofija Andreevna Tolstaja, ma il tentativo fu vano.
Eppure, nonostante le vicissitudini, la produzione poetica di Esenin si mantenne di alto livello fino all’ultimo.
Pur avendo, come tutti, i suoi limiti, Esenin fu indubbiamente una persona di gran fascino, capace di suscitare quelle passioni che lasciano per sempre un segno. Basti pensare a come, dopo tanti anni di separazione, alla notizia della sua morte Kljuev scrivesse una lunga poesia in cui vibra ancora l’amore d’un tempo:
“Bambino mio carissimo, dolce disgraziato, ogni difetto ha nascosto il coperchio della bara; perdona me, uomo disonesto, che per troppa rozzezza non ti ho pianto con un suono dorato di campane. (…) Oh, seppellirsi con te nella bara, nella rena gialla, ma senza quel laccio al collo!… Ma è vero o no, che lungo le strade della Russia si può trovare un fiore più azzurro dei tuoi occhi? Sconsolato, mi è rimasto solo un amaro assenzio: vedovo sono rimasto, come un forno senza scopino” .
La fama del poeta-contadino, che era stato così celebre in vita, subì un’eclisse dopo la morte: Stalin mise addirittura al bando la sua opera e non c’è dubbio che se Esenin fosse vissuto più a lungo avrebbe condiviso il fato di Kljuev, che fu deportato in Siberia e vi morìnel 1937.Solo con la “destalinizzazione” la poesia di Esenin ha potuto circolare di nuovo anche in patria (“ovviamente” depurata da ogni allusione omosessuale) ed esservi riconosciuta come una delle più importanti della letteratura russa (e non solo) del Novecento.
Negli ultimi decenni l’opera di Esenin ha goduto nuovamente di un buon successo di pubblico: in Italia una sua poesia del 1920, la “Confessione d’un malandrino”, è addirittura diventata un best-seller popolare, nella traduzione di Renato Poggioli, come canzone musicata e cantata da Angelo Branduardi:
“Mi piace spettinato a camminare col capo sulle spalle come un lume e così mi diverto a rischiarare il vostro triste autunno senza piume” .
Insomma: anche da morto Esenin ha conservato il dono di piacere. Segno che il suo fascino andava ben al di là dei ricci biondi e degli occhi azzurrissimi che lo hanno fatto amare dagli uomini e dalle donne.
Per chi volesse approfondire la conoscenza di questo giovane poeta Russo, SERGÈJ ESÈNIN (1895-1925), pubblico qui, da WIKIPEDIA, un trattato di LEV TROTSKY ( 1879-1940), il famoso politico, rivoluzionario della Rivoluzione d’Ottobre, nato nell’Ucraina allora ancora Russa, sulla sua figura e personalità artistica:
“Abbiamo perso Esenin, un poeta così meraviglioso, così fresco, così vero. E in che modo tragico l’abbiamo perso! È andato via da solo, ha salutato col sangue l’amico indefinito, magari tutti noi. Questi suoi versi sono impressionanti per quanto riguarda la loro dolcezza e leggerezza! Ha abbandonato la vita senza un grido di rancore, senza una nota di protesta – non sbattendo la porta, ma accompagnando la chiusura con la mano, una porta dalla quale grondava sangue. In questo posto l’aspetto poetico e umano di Esenin è scoppiato in un’indimenticabile luce di addio. Esenin componeva scottanti canti ”di un teppista” e tradiva i versi nelle maliziose osterie di Mosca. Lui non di rado ha fatto uso del gesto violento, della parola aggressiva. Ma nonostante ciò rimaneva in lui la dolcezza particolare di un animo insoddisfatto, indifeso. Esenin si nascondeva dietro l’aggressività, si nascondeva ma non è riuscito a nascondersi. Non ce la faccio più, ha detto il poeta il 27 dicembre vinto dalla vita, ha detto senza gesta di sfida e senza rimproveri… Ci tocca parlare della sua insolenza perché Esenin non scriveva solo poesie ma mutava il suo modo di comporre a causa delle condizioni del nostro tempo non del tutto delicato e assolutamente rigido.
Si nascondeva dietro ad una maschera spavalda pagando questa sua scelta volontariamente con la corruzione dell’anima. Esenin si sentiva sempre estraneo. Non è per lodarlo, proprio a causa di questa estraneità abbiamo perso Esenin. Ma non è nemmeno per rimproverarlo: ha senso lanciare il rimprovero affinché raggiunga il più lirico dei poeti, che non siamo riusciti a proteggere per noi? Il nostro tempo è un tempo severo, magari uno dei più severi della storia dell’uomo cosiddetto civilizzato. E lui invece di essere un rivoluzionario, nato per vivere in questi decenni, era ossessionato da un severo patriottismo della sua epoca, della sua patria, del suo tempo. Esenin non era un rivoluzionario. Autore di Pugacev e de La Ballata dei ventisei era un poeta lirico. E la nostra epoca non è lirica. È questa la causa fondamentale per cui autonomamente e così presto, si è allontanato per sempre da noi e dalla sua epoca. Le radici di Esenin sono profondamente popolari e, come ogni sua cosa, la sua identità popolare era autentica. Di questo, senza dubbio, vi è testimonianza non in un poema che narra della rivoluzione, ma ancora una volta in una sua lirica:
”Silenziosamente nel bosco folto di ginepri vicino al dirupo
l’autunno, giumenta arancione, si gratta la criniera”
L’immagine dell’autunno e molte altre immagini lo hanno plasmato sin dall’inizio, come l’immotivata spavalderia. Ma il poeta ci ha posti di fronte alle radici cristiane della propria cultura e ci ha obbligati accoglierle dentro di noi. Fet non avrebbe detto così e nemmeno Tjutcev. Risultano forti in Esenin le radici cristiane, riflesse e modellate dal talento. Ma è nella fortezza della sua cultura cristiana che risiede la motivazione della debolezza personale di Esenin: dal passato lo hanno strappato con le radici, radici che nel presente non hanno attecchito. La città non lo ha rafforzato, ma lo ha fatto traballare e lo ha estraniato. Il viaggio all’estero, in Europa e oltre oceano, non lo ha raddrizzato. Lo ha accolto più calorosamente Teheran rispetto a New York. La sua lirica, proveniente da Riazan, ha trovato più popolarità in Persia che nei centri culturali europei e americani. Esenin non era né ostile alla rivoluzione né etraneo ad essa; anzì, tendeva sempre verso di lei, da un lato nel 1918:
”Mia madre – Patria, sono un bolscevico”
dall’altro lato, negli ultimi anni:
”Adesso nel paese dei Soviet,
sono il più impetuoso compagno di strada”
La rivoluzione ha fatto irruzione sia nella struttura della sua poesia sia nelle immagini, soprattutto per mezzo delle citazioni, successivamente con i sentimenti. Nella catastrofe del passato, Esenin non ha perso nulla e non ha rimpianto nulla della catastrofe. No, il poeta non era estraneo alla rivoluzione – lui e la rivoluzione non erano fatti della stessa pasta. Esenin era intimo, tenero, lirico – la rivoluzione è pubblica, epica, catastrofica. Per questo la breve vita del poeta si è troncata in maniera così catastrofica. Si dice che ognuno di noi porta dentro di sé la molla del proprio destino, ma la vita dispiega questa molla fino alla fine. In questo c’è solo una parte di verità. La molla dell’attività letteraria di Esenin, dispiegandosi, si è infranta sul limite dell’epoca, si è rotta. Esenin ha tante strofe preziose, colme di avvenimenti. Di questi è circondata tutta la sua attività letteraria. Allo stesso tempo Esenin è estraneo. Non è il poeta della rivoluzione.
”Sono pronto ad andare lungo il terreno già battuto,
darò tutta l’anima all’Ottobre e al Maggio
Ma solo la lira non darò alla cara ndr. rivoluzione”
La sua molla lirica avrebbe potuto dispiegarsi fino alla fine solo a condizione di avere una società armoniosa, felice, in cui non regna il conflitto ma l’amicizia, la tenerezza, la partecipazione. Questo periodo arriverà. Dopo il periodo attuale, in cui si nascondono ancora spietati e salvifici scontri uomo contro uomo, arriveranno altri tempi, gli stessi che si stanno preparando con gli scontri odierni. L’essere umano allora sboccerà del suo autentico colore. E assieme a lui, la lirica. La rivoluzione per la prima volta non solo riconquisterà il diritto al pane per ogni uomo, ma anche alla lirica. A chi stava scrivendo Esenin col sangue prima di morire? Magari ha interloquito con un amico che non è ancora nato, con un uomo del futuro che qualcuno sta preparando con il conflitto, Esenin con i canti. Il poeta è morto perché lui e la rivoluzione non erano fatti della stessa pasta. Ma, nel nome del futuro, lei lo adotterà per sempre. Esenin era teso verso la morte sin dai primi anni della sua attività letteraria, consapevole della propria fragile condizione interiore. […]
Solo adesso, dopo il 27 dicembre, magari tutti noi, conoscendo poco o non conoscendo affatto il poeta, possiamo apprezzare fino alla fine la sincerità intima della lirica eseniana in cui quasi ogni verso è scritto col sangue delle vene tagliate. Lì c’è una pungente amarezza data dalla perdita. Ma non uscendo dal proprio circolo personale, Esenin trovava un conforto malinconico e toccante nel presentimento della sua imminente scomparsa:
”E, l’ascolto del canto nel silenzio
L’amata mia in compagnia di un altro amato
Magari si ricorderà di me
Come di un ineguagliabile fiore”
E nella nostra coscienza la ferita dolorante e non ancora completamente rimarginata si consola al pensiero che questo meraviglioso e autentico poeta a modo suo ha raccontato la sua epoca e l’ha arricchita di canti, parlando d’amore in modo innovativo, del cielo azzurro, caduto nel fiume, della luna, che come un agnello pascola nel cielo, e dell’ineguagliabile fiore, di se stesso. Durante le sue celebrazioni non vi deve essere nulla di triste o decadente. La molla, posta nella nostra epoca, è smisuratamente più forte della molla personale posta in ognuno di noi. La spirale della storia si dispiegherà fino alla fine. Non bisogna opporsi ad essa ma aiutare i pensieri e le volontà con consapevoli sforzi. Stiamo preparando il futuro! Continueremo a conquistare per ciascuno il diritto al pane e il diritto al canto. È morto il poeta. Evviva la poesia! È caduto nel burrone un bambino indifeso. Evviva la vita ricca di attività artistica, in cui fino all’ultimo minuto Sergej Esenin ha intrecciato i fili preziosi della sua poesia.”
Monologo del protagonista Renzo Nervi, pittore, nel film IL MIO CAPOLAVORO per la regia di Gaston Duprat (Spagna/Argentina 2018).
“Se state vedendo questo video, vuol dire che sono morto.
Sono nato nell’anno 332 dopo Rembrandt. Io conto a partire da Rembrandt che fu un genio e non da Cristo, che fu solo uno svitato.
Perché lavorate? Per comprare delle cose? Per andare in vacanza?
La schiavitù non è finita. Ora si chiama lavoro.
Beh, studiare e andare all’Università è inutile, perché, se sei colto, sei doppiamente ignorante.
Purtroppo, non c’è soluzione, perché, quando un paese intero tiene il culo su un divano davanti a una televisione per osannare 22 milionari che corrono dietro ad una palla, non c’è speranza.
Le ideologie ormai non esistono. Esiste l’uomo; l’uomo che, concreto, si comporta in questo o in quel modo.
L’uomo non proviene da una scimmia, l’uomo è una scimmia, sì, una scimmia che sta in piedi e caga seduta.
E adesso, la cosa più importante di tutte. Sono talmente pessimista che sono ottimista, perché gli estremi si incontrano. E il freddo brucia.
Andate tutti a farvi fottere.
Ciao.”
Articolo di Marcello Veneziani su IL GIORNO del 14 Dicembre 2020.
…. Nel sussidiario delle scuole elementari Dante era citato per la prodigiosa memoria: si raccontava in un aneddoto illustrato con Dante in meditazione su un sasso, che un passante gli aveva chiesto quale fosse il suo cibo preferito e lui aveva risposto l’uovo. Tornato dopo molto tempo, il passante gli chiese “con che?” “Col sale” rispose prontamente Dante come se ne avessero parlato poco prima. Alle scuole elementari mi trovai nel 700° della nascita di Dante, tra le iniziative in aula magna e in classe, i quaderni della “Dante Alighieri”, allora percepita come il veicolo linguistico-patriottico d’italianità, quasi un vaccino obbligatorio, com’era l’anti-tubercolosi o l’anti-vaiolosa. Più tardi sarebbe venuto il Dante della goliardia, dove parafrasavamo i suoi versi e perfino ci mascheravamo nei suoi panni. Poi venne il Dante romantico, amoroso e passionale, come fu rappresentato soprattutto nel secolo romantico e figurato dai poeti e dai manieristi. Quell’immagine dantesca era per me consegnata a una cartolina che mia madre custodiva gelosamente, in cui condensava l’amor romantico: la riproduzione di un dipinto famoso di Henry Holiday che ritraeva il colpo di fulmine del giovane Dante per Beatrice: l’incontro sul Lungarno, Beatrice tra le sue amiche che si volge a guardare Dante, e lui che si ferma per ammirarla con una mano sul cuore, a significare e comunicare il suo turbamento, la sua emozione. Era un Dante innamorato, concepito su misura per le romanticherie del tempo. Piaceva figurare il poeta che spasimava e soffriva d’amore, come un precursore dei languori e dei corteggiatori romantici.
Colsi solo più tardi la grandezza di Dante, quando alla fine del liceo lessi al mare d’estate l’intera Divina Commedia. Lo feci di nascosto dai professori; se l’avessero scoperto, probabilmente me l’avrebbero rovinato. O almeno così temevo. In quel tempo, infatti, erano saliti in cattedra i primi docenti venuti dal ’68, con una preparazione mediamente scarsa, una forte refrattarietà a tutto ciò che era antico, classico o proveniente dalla scuola tradizionale e l’ossessione di demistificare, desacralizzare, tirar giù dal piedistallo. Tutto andava reinterpretato in chiave ideologica d’attualità. Per giustificarne la lettura e lo studio, si sforzavano di attualizzare i classici, e Dante più di tutti, liberandolo dal guscio infame del medioevo oscuro. Ai loro occhi la domanda essenziale da farsi era l’attualità di Dante, “cosa dice ai giovani d’oggi”. Ma questo riduzionismo, che è poi diventato nei nostri anni un canone obbligato nel politically correct, non coglie la grandezza degli autori, la differenza dei tempi e delle culture, la ricchezza di conoscere mondi diversi e remoti. In quella pretesa c’è tutta l’arroganza, l’egocentrismo, la supposta superiorità del presente su ogni altra epoca e su ogni altro tipo di visione e di umanità. Quel tentativo ridicolo di giudicare i grandi del passato alla luce del razzismo e della xenofobia, del sessismo e dell’omofobia…
Dall’altro versante non mancavano gli stucchevoli insegnanti col loro imparaticcio scolastico, che ripetevano meccanicamente formule pigre come “la donna angelicata posta su un piedistallo”; a noi studenti non pareva una figura divina ma un manichino dell’Upim, inerte e irreale sul suo piedistallo… Quei docenti di ieri e di oggi non coglievano o non colgono che la forza di Dante non è la sua attualità, la capacità di parlare ai ragazzi d’oggi, di rispondere ai nostri effimeri momenti di vita e di storia; ma la sua grandezza è nella capacità di toccare temi e pensieri, fedi e ardori, speranze e disperazioni, gioie e dolori che appartengono a ogni tempo, perché in realtà non appartengono in ultima istanza a un tempo o all’altro, ma rinviano alla condizione umana e all’eterno ritorno di tutte le cose. “Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima della natura dato, è lo ritornare a lo suo principio”, scrive Dante nel Convivio.
Che cos’è l’arte oggi?
È il gusto per lo scandalo e la trasgressione, è il confronto solo con un pubblico di iniziati ed è il complesso di strategie tese a dimostrare che il valore dell’arte non risiede nell’opera in sé, ma in un gioco di discorsi sociali e mediatici.
Queste sono alcune delle categorie elementari che intervengono nella realizzazione di un’opera d’arte contemporanea. Però, penso che davvero determinante sia l’idea, il comunicare un pensiero, che può essere rivoluzionario, al di là del fatto che sia più o meno provocatorio o scandalistico. Conta l’originalità e il coraggio di un pensiero nuovo, il riconoscere la potenza dell’arte in un’idea e non tanto in un manufatto o in una capacità tecnica: è la caratteristica più convincente dell’arte contemporanea.
L’arte, nel tempo, ha avuto il compito di insegnare cosa pensare, cosa credere, cosa immaginare.
Quella di oggi, che a volte teorizza il caos oppure inventa linguaggi con lo scopo di confondere e simulare, è forse diversa?
No. L’arte, quando è tale davvero, e non solo un gioco o una provocazione, quando non è fine a se stessa, credo sinceramente offra grandi intuizioni, grandi idee capaci di interpretare la realtà.
E penso, anche, che siano le donne le migliori interpreti di questa realtà, per ragioni che derivano dalla storia dell’evoluzione femminile. Le donne hanno dovuto adattarsi ed affrontare tante situazioni insieme. Infatti si dice che sono multitasking (multidisciplinari), mentre l’uomo riesce a fare solo una cosa alla volta. Probabilmente, la necessità di dover affrontare, di saper leggere con duttilità realtà così diverse, fa loro mettere in campo una dose di coraggio e di audacia in più. E poi, sicuramente, le donne, adesso, sono meno legate ai vincoli dei poteri forti: se ne stanno affrancando e pertanto sono più libere. E, da sempre, detentrici di una qualità assolutamente eccezionale: quella che le fa arrivare alla verità della realtà per via diretta, cioè l’intuizione. Che è la scintilla del fuoco sacro dell’arte.
P I A C E R E E D E V O L U Z I O N E Le endorfine, motore della civiltà e del progresso.
C’è poco da meravigliarsi e, ancor meno, da fare. È sempre più evidente, alla luce dei recenti studi e delle conoscenze acquisite, che l’animale uomo ha un codice genetico prescritto, nel senso che è scritto prima: fin dalla nascita di un individuo umano, saremmo in grado di conoscere praticamente tutto il suo percorso esistenziale, le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, addirittura la data della sua morte.
Siamo davanti ad un determinismo quasi tragicomico, che ci potrebbe indurre nella banale e, al tempo stesso, ridicola considerazione: ma che diavolo siamo venuti a fare in questo mondo?
Se tutto è già stabilito, se nulla ci è dato da sviluppare, da modificare, da migliorare rispetto a quanto previsto dall’algoritmo della vita, pur personalizzata e specificata, che siamo destinati ad attraversare, qual è il nostro compito di viventi mortali?
Non mi pare una domanda stupida.
Ebbene, nel pormi tale quesito, adesso che della mia vita sono verso la fine, mi si è aperto davanti uno scenario di meditazione e di riflessione che mi ha incuriosito e solleticato. E che vado a sviscerare, con tutte le cautele del caso, data l’importanza cruciale del tema.
L’analisi sommaria della storia umana ci dice, tuttavia, che, nello scorrere di decine di millenni, passi avanti se ne sono fatti, dalle condizioni primordiali di uomini delle caverne agli agi e disagi di oggi. Sì, anche disagi, e molti. C’è chi pensa che l’evoluzione dell’umanità verso condizioni di civiltà, di sicurezza, di maggior benessere sia addirittura su una china rapidamente decrescente, a causa degli usi ed abusi che l’uomo sta facendo del patrimonio naturale che aveva come dotazione di partenza.
Ma, tutto considerato, il miglioramento verso condizioni di vita molto più accettabili e godibili è un dato di fatto.
La domanda che mi pongo è questa: cosa ha spinto l’uomo a cercare, trovare e consolidare un livello di esistenza, nel vivere civile, individuale e sociale, sempre più elevato, evoluto, proteso verso la soddisfazione dei propri bisogni materiali e sogni spirituali e mentali? Insomma, qual è la molla che ha spinto l’uomo verso il progresso personale e collettivo, nel corso dei millenni, a dispetto del fatto che tutto sarebbe bloccato, già stabilito, predestinato, a partire dalla fase finale del suo percorso, cioè la morte?
La risposta, secondo la mia opinione, sta nella ostinata, pervicace, quasi maniacale ricerca del piacere.
Nel quotidiano esercizio biologico, l’essere umano ha sviluppato, all’interno dei suoi meandri cerebrali, il modo di secernere stimolanti ormonali, di implementare neurorecettori, neurotrasmettitori, impulsi elettrici pulsionali per concepire e realizzare le condizioni per vivere più felicemente.
Consapevole della limitatezza temporale della propria esistenza, ha istintivamente, ma naturalmente, concepito e coltivato il sogno e il bisogno di vivere meglio. E questo è avvenuto, e sta ancora in larga parte avvenendo, in maniera endogena, ovvero attingendo a supporti da lui stesso prodotti, dentro il corpo in dotazione.
La produzione di dopamina, di serotonina, di noradrenalina e di altre endorfine, è la chiave del progresso umano e della sua evoluzione. Sono tutte sostanze che l’uomo secerne dalle proprie ghiandole e da altri sistemi e organi predisposti e che fluiscono, attraverso il sistema sanguigno, fino a raggiungere ogni punto, pur periferico, del corpo: portano un aumento delle sensazioni di piacere e di benessere, oppure un’attenuazione delle sensazioni di dolore e di stress.
Il meccanismo di questa funzione è descritto nelle informazioni tecnico scientifiche che seguono e che invito il lettore a non trascurare, per la miglior comprensione di quanto vado esponendo.
A me rimane ancora di fare qualche altra considerazione sull’argomento. Non sempre l’uomo ha avuto il tempo e il modo di cercare la propria felicità fisica e psicologica attraverso le capacità endogene di secernere endorfine: spesso, anzi, è ricorso a delle scorciatoie molto pericolose, la cui frequentazione ed adozione comportano sempre un corrispettivo, in termini di salute complessiva, oltremodo devastante: le droghe.
Per sopperire alla propria inettitudine o malessere o disadattamento, magari solo per curiosità o per sfida o per vizio, per procurarsi i brividi di sensazioni esaltanti di benessere di poche ore o di pochi minuti, un uomo ricorre a questo surrogato di felicità perché non è in grado di organizzare autonomamente il ricorso alle sue droghe naturali che non danno mai assuefazione ma che danno sempre soddisfazione, quelle che produce in proprio: le endorfine, il “fai da te” del benessere.
Ma, tornando all’argomento di partenza, vorrei anche fare una considerazione di carattere generale sull’uomo, sulla sua storia, sul suo rapporto con il piacere e il benessere, e sui condizionamenti sociali che nei millenni sono stati messi in atto per limitare, scoraggiare, tarpare la propensione dell’uomo verso la felicità.
Il concetto formatore ed informatore delle religioni, sto pensando alle tre grandi religioni monoteiste, nei secoli passati ed anche oggi, non è mai stato a favore della felicità dell’uomo, così come la intendo e descrivo qui sopra.
L’uomo è mortale, l’uomo è peccatore, anzi,” il peccato originale” è quello di essere nato: è una tara che si porta appresso tutta la vita. Questa vita deve spenderla per espiare tale condizione, ricorrendo a rinunce, osservando rituali, obbedendo a frustrazioni innaturali che gli impediscono di perseguire la propria ricerca del benessere.
Tale stato di costrizione e di castrazione è salvaguardato da un complesso di norme etiche concepite da uomini per gli uomini, nel nome di un Dio. E ogni religione ci mette il suo.
È la natura che spinge l’uomo verso il benessere, cercando e realizzando il piacere: le religioni lo condannano.
In termini di evoluzione, mi sento di indicare un esempio storico che attiene alle espressioni figurative artistiche nell’arco dei secoli. Prendete, ad esempio, l’arte figurativa della Grecia antica, dai bronzi di Riace alle statue marmoree della bellezza classica, che ci sono rimaste, nei musei di tutto il mondo occidentale. Dal punto di vista figurativo, cioè intendendo solo la riproduzione della realtà, che era tanto più apprezzata quanto più somigliante al vero, erano artisticamente inarrivabili. Tant’è che il Rinascimento, nostro ed europeo, con uno scatto e riscatto, con una svolta epocale, aveva fatto riferimento a questi canoni di perfezione stilistica per dare al mondo le opere d’arte che conosciamo. Come pure gli affreschi pompeiani che possiamo ammirare ancora oggi sulle pareti delle ville meglio conservate della città vesuviana: erano riproduzioni di personaggi della mitologia o della vita reale o del mondo naturale con caratteri figurativi esteticamente molto belli e raffinati. E il mondo greco e romano aveva un concetto della vita privata molto liberale, per non dire libertino: la ricerca del piacere era una cosa naturale e questo traspariva anche nelle raffigurazioni senza tabù e senza censure di cui si circondavano.
Prendete, invece, le statue e i dipinti di più di mille anni dopo, le produzioni artistiche, che io chiamerei piuttosto artigianali, del Medioevo, periodo nel quale la cappa di piombo della religione Cristiana, in Europa, aveva soffocato e represso ogni slancio artistico verso il bello, fosse anche di soggetto religioso. Confrontate le rappresentazioni, che sono della stessa natura figurativa, cioè tentativi di riprodurre il reale, e vi accorgerete, a ragion veduta, che le figure della classicità greco-romana sono infinitamente più belle, dal solo punto di vista figurativo, di quella medioevali. Questo per dire che, storicamente, si era verificato un regresso delle sensibilità e delle capacità artistiche di rappresentazione indotto dall’oscurantismo delle autorità religiose Cristiane, che avevano in odio il sillogismo greco “kalòs kai agathòs” (il bello è buono), che aveva etichettato i pensieri e le opere del mondo classico aperto, anzi spalancato, a quelle che si chiamavano le “arti liberali”.
Le espiazioni, le penitenze, i castighi e le pene per i peccati commessi, non avevano bisogno di essere rappresentati in maniera elegante e ben eseguita: bastava la stucchevole approssimazione e la banalità becera dell’artigiano poco erudito, invece che la raffinatezza dell’artista acculturato e sensibile. Non avevano miglior sorte Santi, Martiri, Madonne e Cristi in croce raffigurati da artigiani senza cultura e buon gusto estetico, sotto i dettami delle commesse clericali. Per quanto riguarda le rappresentazioni “artistiche”, comprese quelle religiose, uno scadimento generale dal punto di vista qualitativo è la costante identificativa del Medioevo Cristiano in Europa.
La ricerca del piacere , nel Medioevo, era un peccato da consumare ipocritamente di nascosto.
Mentre invece, lenire il dolore e dare sollievo alla sofferenza erano una pratica che cadeva sotto la vigile gestione del clero, secondo una filosofia che non ho mai capito né condiviso, perché innaturale e disumana. Il fatto che, secondo la religione Cristiana, Gesù si era sacrificato per noi sulla croce, fra atroci sofferenze, sembra abbia conferito agli addetti ai lavori (rappresentanti religiosi a tutti i livelli, compresi quelli di bassa manovalanza) il compito e il diritto di ridistribuire le Cristiane sofferenze corporali ai fedeli, con un accanimento antiterapeutico incredibile e una libidine sadica inaudita.
Non parlo, certamente, della Santa Inquisizione che ha inflitto pene e torture efferate a ipotetici indiavolati od eretici, ma parlo di una consuetudine inveterata e in vigore fino ad una cinquantina di anni fa, che io ho visto e aborrito: la funzione infermieristica e assistenziale, in nome della carità Cristiana, negli ospedali, nei luoghi di cura, negli ospizi era affidata a solerti suorine che, oltre a dare effettivamente aiuto nella gestione degli infermi, quando uno di questi si trovava in condizioni di insopportabile sofferenza ed era in preda a dolori lancinanti, persino in punto di morte, anziché dargli sollievo per mezzo di analgesici e quant’altro, che pure esistevano, si limitava a ficcargli un fazzoletto in bocca e a mettergli un rosario nelle mani. In nome dell’espiazione dei peccati che aveva commesso e a similitudine dei patimenti dell’icona Cristiana di Gesù crocifisso. Adesso le cose sono cambiate, ma si tratta dello stesso taglio mentale di coloro che, a tutt’oggi, si oppongono all’eutanasia. Un buon Cristiano deve soffrire fino alla morte.
La religione Cristiana, molto più di tutte le altre, non è favorevole al piacere, perché ha fatto della sofferenza un paradigma comportamentale di redenzione e di sublimazione. Il Cristianesimo è la religione del dolore.
Alcune religioni, come l’Induismo (che conta quasi un miliardo di fedeli), sono invece cassa di risonanza per il godimento dei piaceri fisici (vedi il Kamasutra) e non considerano peccaminoso niente che riguardi, ad esempio, la sfera sessuale.
In generale, tuttavia, le religioni monoteiste (Cristianesimo, Islam, Ebraismo) non sono amiche del piacere.
Ma, il piacere l’uomo lo concepisce e lo produce in proprio: per godere di uno stato di benessere non serve ostentarlo o dimostrarlo agli altri, magari arrecando disturbo, basta provarlo dentro di sé, perché dentro di sé, autonomamente, sono prodotte le sostanze neurochimiche che possono provocarlo.
Perché le religioni devono controllare la mia intimità, la mia privacy, la mia sfera privata?
È forse questo ragionamento un atto di superbia di chi non si vuole chinare alle autorità di controllo della persona e della personalità?
Qualcuno la chiami superbia, o insubordinazione, io la chiamo libertà.
N.d.R. Quello che sotto riporto è un articolo de IL FATTO QUOTIDIANO in data 29 Settembre 2020, pubblicato 3 giorni dopo la mia stesura del Numero2067.
L’articolista è Marco Marzano, Professore Ordinario di Sociologia all’Università di Bergamo.
Fine vita, nel duro documento vaticano noto due cose. La prima: nessuna conoscenza della realtà
Nei giorni del caso Becciu che tanto appassiona i vaticanisti di ogni parrocchia è passata quasi sotto silenzio la pubblicazione, da parte della Congregazione della Dottrina della Fede, di un lungo documento sull’eutanasia e il fine vita. Il testo è importante e solenne e fa ancora una volta chiarezza sull’impianto culturale e politico che contraddistingue gli interventi ufficiali delle autorità cattoliche.
Due elementi mi hanno colpito più degli altri nella durissima requisitoria antieutanasica redatta dall’organismo guidato dal potente cardinal Luis FranciscoLadaria, uomo di fiducia di Francesco che lo ha nominato prefetto della congregazione in sostituzione del tedesco Muller.
Il primo elemento è metodologico e consiste nella totale assenza di una seria analisi empirica. Gli estensori del documento affrontano temi enormi come le cure palliative, l’accanimento terapeutico, il suicidio assistito senza mostrare nessuna traccia di conoscenza della realtà, senza nessuna reale competenza. E’ infatti altamente improbabile che qualcuno tra le migliaia di operatori sanitari che ogni giorno affrontano la fine della vita altrui sia mai stato interpellato per redigere il documento.
Se questo fosse avvenuto, non solo sarebbero confluiti nel testo la complessità, le ambiguità, i paradossi, le mille sfumature che caratterizzano la drammatica realtà della fine della vita nel nostro tempo, ma sarebbero state evitate affermazioni puramente impressionistiche e di senso comune, del tutto prive di un solido fondamento, come quella secondo la quale solo la fede religiosa nell’esistenza dell’aldilà riduce la paura della morte. E se invece fosse vero il contrario? Se il timore dell’imminente giudizio di Dio aumentasse in modo formidabile l’angoscia di chi muore? In assenza di affidabili dati empirici è impossibile stabilire quale sia la verità e quindi se muoiano più serenamente i credenti o i non credenti. E questo è solo un esempio tra i tanti.
Il fatto è che nella Samaritanus Bonus le citazioni sono solo quelle dei pontefici e dei documenti vaticani e che il testo consiste esclusivamente di prescrizioni, obblighi e ricette tutti ricavati da un impianto dottrinale astratto e povero, immutato nel tempo e applicato meccanicamente ad una specifica realtà sociale. Per questa ragione, per il suo carattere integralmente dogmatico e ideologico, esso convince solo chi è già convinto, risultando del tutto inutile per chi deve confrontarsi con la realtà del morire, per il personale sanitario, per le famiglie dei morenti, per gli psicologi e persino per gli stessi sacerdoti impegnati nell’attività pastorale negli ospedali e negli hospices.
Il secondo elemento che mi ha colpito è la negazione alla radice di qualsiasi forma di riconoscimento dell’autonomia e della libertà dei soggetti. Si legge nel documento che “sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà”. In altre parole, secondo gli autori del documento, quando chiede di porre termine alla sua vita, un individuo pretende di esercitare un diritto che non possiede. E’ un motivo analogo a quello che porta a negare la legittimità di richiedere un aborto o di usare degli anticoncezionali, di divorziare o di congiungersi a una persona dello stesso sesso. La voce di chi pretende di negare la legge di Dio, secondo la gerarchia cattolica, non solo non va ascoltata perché nasce da un’errata e distorta interpretazione della propria libertà, ma va messa fuori legge, va considerata empia e criminale. Ed empie e criminali devono essere giudicate quelle legislazioni che la consentono. In questo modo di procedere non rileva il fatto che, nelle nostre società, esistano tanti individui che all’esistenza di Dio non credono o che ritengono che quella annunciata dalla Chiesa Cattolica non sia la sua legge autentica.
Quello sullo sfondo del documento, e quello dell’intera dottrina morale cattolica, si conferma, in barba a tutte le promesse di rinnovamento, un orizzonte squisitamente teocratico, nel quale la legge divina deve travasarsi sic et simpliciter nella legislazione dello stato, informandola di sé e impedendo ogni pluralismo di valori, sbarrando la porta ad ogni dialogo con chi la pensa in modo diverso.
Viene da chiedersi cosa rimanga della tanto sbandierata “rivoluzione della misericordia” annunciata dai supporters di Francesco come segno distintivo e qualificante del pontificato argentino. A me sembra, al contrario, che anche qui, come su altri terreni (il celibato ecclesiastico, la presenza femminile, il ruolo della curia, eccetera) i duecento anni di ritardo della Chiesa rispetto al mondo moderno lamentati a suo tempo dal cardinal Martini si notino tutti, non uno di meno.
N.d.R. Aggiorno l’argomento pubblicando un articolo del giornalista Carlo Troilo , in data 3 Ottobre 2020, su IL FATTO QUOTIDIANO.
Fine vita, il Vaticano potrebbe ostacolare ancora la discussione in Parlamento: l’ennesima intromissione
Nel cuore dell’estate – il 14 luglio – Papa Bergoglio ha approvato una “lettera” della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla eutanasia, dal titolo Samaritanus Bonus: un documento molto ampio, in cui l’eutanasia è condannata senza eccezioni né attenuanti come un atto di crudeltà, con toni che definirei brutali.
Proprio perché nella “lettera” non vi è nulla che non sia stato detto e ripetuto infinite volte dal Papa e dalle alte gerarchie ecclesiastiche, colpisce questa uscita a freddo. E legittima il sospetto che il Vaticano si prepari ad ostacolare ancora una volta l’avvio della discussione in Parlamento della legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione della eutanasia, presentata dalla Associazione Luca Coscioni il 13 settembre del 2017 (dunque, da più di tre anni) con 76mila firme di cittadini/elettori, che nel frattempo sono diventate 136mila.
Probabilmente, preoccupa il Vaticano anche il fatto che per iniziativa della Associazione si è costituito un “Intergruppo Eutanasia”, cui si sono già iscritti 72 parlamentari, fra deputati e senatori. Per non dire del continuo aumento degli italiani favorevoli alla eutanasia e/o al suicidio assistito: il dato più recente è quello fornito da uno studio dell’Eurispes sui temi etici, da cui risulta che gli italiani favorevoli alla eutanasia sono il 75,2% (erano il 55,2% nel 2015). Ed è importante notare che questo orientamento degli italiani è comune anche alle regioni più caratterizzate da un orientamento politico di destra e da una forte tradizione cattolica: ne è prova l’indagine annuale dell’Osservatorio del Nord Ovest pubblicata dal Gazzettino.
Fortunatamente, l’ascendente della Chiesa sugli italiani è sempre meno rilevante. Franco Garelli, che insieme ad altri sociologi ha curato una voluminosa indagine per la conferenza episcopale, prova a delimitare l’area di quanti possano dirsi veramente cattolici nell’Italia di oggi. “I credenti militanti – spiega – coloro che fanno parte di gruppi, associazioni, movimenti e danno grande rilevanza all’esperienza comunitaria della fede sono circa un 10 per cento. I praticanti assidui, che però non avvertono l’esigenza di una vita religiosa collettiva e di una visibilità, sono un altro 15-20 per cento. Sommando entrambi i gruppi si arriva ad un 30 per cento di credenti regolari”.
In un articolato e duro commento alla Samaritanus bonus, il dottor Mario Riccio – il medico che aiutò a morire Piergiorgio Welby, dirigente della Associazione Coscioni – rileva che il documento vaticano arriva due settimane dopo l’annuncio del deputato del M5S Giorgio Trizzino, medico palliativista, che ha confermato la calendarizzazione del ddl entro ottobre, dopo due anni di audizioni. E Riccio esprime con forza la sua indignazione per il fatto che il Vaticano – come ai tempi dei primi aborti – torni a trattare i medici favorevoli alla eutanasia come “sicari”, ignorando una serie di fenomeni che si possono così sintetizzare:
1. Le leggi che in molti paesi del mondo – comprese due importanti comunità autonomiche della cattolicissima Spagna – hanno legalizzato l’eutanasia;
2. Lo sdegno della maggioranza degli italiani per la durezza della Chiesa in vicende (Welby, Englaro, Dj Fabo), che hanno profondamente commosso l’opinione pubblica del nostro paese;
3. Le assoluzioni di Marco Cappato nel caso del Dj Fabo e di Cappato e Welby nel caso Trentini;
4. La sentenza della Corte Costituzionale legata alla vicenda di Fabiano Antoniani, fortemente innovativa in materia di eutanasia.
Dunque, siamo di fronte ad un ennesimo episodio di intromissione della Chiesa nelle vicende politiche italiane, che purtroppo trova una sponda nell’elevato numero di parlamentari “teodem”, o comunque attenti a non contrastare apertamente queste intrusioni per il timore di perdere simpatie (e voti) fra l’elettorato cattolico.
Forse è il caso di ricordare che la Chiesa – che quando si parla di eutanasia invoca la sacralità della vita – fu l’ultimo degli Stati italiani, prima dell’Unità, ad avere nel proprio ordinamento la pena di morte. L’ultimo giustiziato fu Agabito Bellomo, un brigante condannato per omicidio e ghigliottinato a Palestrina il 9 luglio 1870, due mesi prima della conquista di Roma da parte delle truppe sabaude. E solo nel 2001 la pena capitale è stata formalmente abolita per iniziativa di Papa Giovanni XXIII (in Italia era stata abolita nel 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione). Per non parlare della Inquisizione e delle sue torture.
N.d.R. Quello che segue è un “copia e incolla” di informative che si trovano sul WEB, da me selezionate.
Non meravigliatevi di qualche ripetizione.
Segnalo, inoltre, agli interessati che molte notizie utili si possono trovare sotto il TAG “Cervello”.
Le endorfine sono un gruppo di sostanze chimiche prodotte dal cervello, nel lobo anteriore dell’ipofisi, classificabili come neurotrasmettitori. Dotate di una struttura peptidica e di proprietà analgesiche e fisiologiche simili a quelle della morfina e dell’oppio, presentano tuttavia una portata ben più ampia rispetto a queste ultime.
Caratteristiche
Quando un impulso nervoso raggiunge la colonna vertebrale, le endorfine vengono rilasciate in modo da prevenire un ulteriore rilascio di questi segnali. Sono presenti nei tessuti degli animali superiori e vengono rilasciate in particolari condizioni e in occasione di particolari attività fisiche estenuanti: atleti di livello avanzato, ad esempio, diventano “dipendenti” dall’allenamento intenso proprio perché causa un grande rilascio di endorfine. Anche una forte emozione rilascia endorfine, così come l’ingestione di certi cibi, ad esempio la cioccolata e in generale alimenti dolci o comunque ricchi di carboidrati ma anche lo strofinamento prolungato sulla pelle, come avviene durante il massaggio, permette una grande produzione di endorfine.
Numerose ricerche si stanno ancora effettuando in proposito, ma è opinione comune che le endorfine svolgano un’azione di coordinazione e controllo delle attività nervose superiori, tanto da poter essere eventualmente correlate con l’instaurarsi di espressioni patologiche del comportamento nel caso in cui il loro rilascio divenisse incontrollato.
Come anche numerosi alcaloidi di derivazione morfinica, le endorfine sono in grado di procurare uno stato di euforia (specie se unite all’adrenalina, che è un ormone secreto dalle ghiandole surrenali della categoria delle catecolammine) o di sonnolenza più o meno intenso a seconda della quantità rilasciata; questi stessi effetti si possono riscontrare anche durante l’orgasmo, da cui deriva la tipica condizione fisica correlata. Le endorfine diminuiscono anche la fatica e il dolore cronico e non troppo acuto.
L’espressione Endorphin rush (letteralmente “scarica di endorfina”) si usa per indicare una sensazione di stanchezza dovuta al dolore, specie acuto, o un’altra forma di stress. Studi collegano forme di autolesionismo e di masochismo fisico (algolagnia) al piacere derivato dal rilascio di endorfine.
Runner’s high
Con l’espressione Runner’s high (letteralmente “sballo del corridore”) si intende la sensazione di euforia, simile a quella derivante dall’assunzione di certe sostanze stupefacenti, riscontrata da molti atleti durante la pratica sportiva prolungata.
Prima che fossero compiute ricerche mirate al riguardo, questa condizione era per lo più attribuita a cause psicologiche invece che a una causa neurochimica: infatti alcune ricerche risalenti al 2008 hanno provato la dipendenza di questa sensazione euforica dal rilascio di endorfine da parte dell’ipofisi durante l’esercizio fisico di una certa durata, che varia da soggetto a soggetto ma in genere non è mai inferiore ai trenta minuti consecutivi.
Essendo necessario uno sforzo prolungato, il runner’s high è molto più frequente in atleti specializzati nelle attività aerobiche come la maratona, da cui il nome, o il ciclismo.
La produzione di endorfine nel nostro organismo può dar luogo ad una piacevole sensazione di benessere. Le endorfine inoltre aiutano ad alleviare il dolore. Queste sostanze fanno parte di antichi meccanismi di sopravvivenza, che ci hanno permesso di continuare a lottare anche quando siamo sotto stress.
Cosa sono le endorfine? Le endorfine sono delle sostanze prodotte dal cervello nel lobo anteriore dell’ipofisi. Vengono classificate come neurotrasmettitori. Hanno proprietà analgesiche che le rendono più potenti persino della morfina. Del resto il termine endorfine significa “morfine endogene”, cioè morfine prodotte dal nostro organismo. Una forte emozione o un allenamento intenso possono provocare il rilascio di endorfine.
Le endorfine ci aiutano anche a recuperare dopo un infortunio. La produzione può essere influenzata da diversi fattori, ad esempio da odori e profumi piacevoli. Sono davvero molti i modi per stimolare la produzione di endorfine nel nostro organismo in modo naturale. Ve ne suggeriamo dieci.
Indice
Allenarsi e praticare sport
L’attività fisica aiuta l’organismo a rilasciare endorfine. La sensazione di benessere provata dagli sportivi durante gli allenamenti per qualche tempo era stata correlata a motivazioni psicologiche, ma in seguito la scienza si è resa conto che il rilascio di endorfine associato ad un allenamento (di almeno trenta minuti) ha cause neurochimiche. Il fenomeno del “runner’s high”, una vera e propria euforia da sport e da corsa, è più frequente nei ciclisti e nei maratoneti perché la loro attività fisica è molto prolungata. Ma chiunque abbia mai praticato uno sport conosce bene le sensazioni di benessere che ne possono derivare.
Gustare il proprio cibo preferito
Mangiare il proprio cibo preferito aiuta l’organismo ad avvertire una vera e propria sensazione di benessere e a stimolare la produzione di endorfine. Uno degli esempi più classici da questo punto di vista è il cioccolato, ma secondo le ricerche questo fenomeno si può estendere a tutti i cibi gustosi che amiamo particolarmente. Ecco perché dopo aver mangiato qualcosa che ci piace ci sentiamo felici e appagati.
Ascoltare musica
La scienza è sempre più interessata agli effetti positivi della musica nella vita quotidiana. Spesso una semplice canzone di sottofondo ci aiuta a sentirci meglio soprattutto quando siamo tristi. È merito della produzione di endorfine, che viene stimolata dall’ascolto. Secondo uno studio scientifico dedicato a questo argomento, ascoltare musica innalza la soglia del dolore e ha degli effetti positivi sul nostro stato di benessere.
Scambiarsi baci e abbracci
Baci, abbracci, carezze e coccole ci aiutano a sentirci meglio anche perché portano il nostro corpo a rilasciare endorfine. I benefici del contatto fisico con le persone a cui vogliamo bene sono davvero numerosi. Ad esempio, un semplice abbraccio può aiutare a ridurre lo stress, a fare la pace, a rafforzare il rapporto tra mamma e figlio e persino a vincere l’ansia e a migliorare la memoria.
Accarezzare un animale domestico
Accarezzare un animale domestico è davvero benefico in ogni momento della giornata. È anche per questo motivo che alcuni ospedali in Italia e nel mondo accettano che i nostri amici a quattro zampe facciano visita a chi si trova in ospedale. Ad esempio, quando un gatto si avvicina e vi sfiorate la fronte a vicenda, ecco che vengono rilasciate endorfine sia in voi che nel vostro amico peloso. Un gesto dolcissimo che vi farà sentire subito meglio.
Sorridere
Sorridere è un toccasana per la salute e per l’umore. Aiuta il nostro corpo a rilasciare endorfine, non costa nulla e ci fa sentire subito meglio. I benefici di un sorriso sono davvero numerosi. Sorridere riduce lo stress e il rischio di ictus, aumenta la fiducia in se stessi e negli altri e ci permette di fare una pausa per poi ripartire ancora più concentrati con le nostre attività quotidiane.
Sentire profumo di vaniglia o di lavanda
Alcuni profumi più di altri stimolano il nostro organismo a produrre endorfine. Ne sono un esempio il profumo di vaniglia e di lavanda, due aromi delicati che regalano immediatamente una sensazione di benessere, portano relax e ci ricordano la nostra infanzia. Il profumo di vaniglia riduce l’ansia mentre il profumo di lavanda ci aiuta a rilassarci e a dormire meglio, tanto che a chi soffre di insonnia viene consigliato di cospargere il cuscino con qualche goccia di olio essenziale di lavanda.
Assaggiare qualcosa di piccante
Chi ama il peperoncino e il sapore piccante forse inconsciamente ha capito che nonostante qualche piccolo fastidio nel consumare questi alimenti, il risultato è una sensazione di benessere. Ciò perché pare che il gusto piccante aiuti l’organismo a rilasciare endorfine come risposta alle leggere sensazioni di pizzicore e di bruciore che il peperoncino può provocare sulla nostra lingua e sul palato.
Ballare
Il ballo e la danza non sono semplicemente un divertimento o un’occasione per fare movimento. Vengono utilizzati anche come una forma di terapia per il benessere. Questo perché il ballo e la danza uniscono sia il movimento che l’ascolto della musica, due attività che insieme aiutano ancora di più il nostro organismo a produrre endorfine. Secondo alcuni studi, ballare potrebbe portare un maggior benessere anche rispetto alla pratica di uno sport.
Meditare
Secondo il Brainwave Research Institute, meditare stimola la produzione delle endorfine da parte del nostro organismo. La meditazione può garantire al nostro corpo e alla nostra mente una vera e propria sensazione di gioia e di benessere. Ciò perché grazie alla meditazione possiamo raggiungere quel punto in cui ha sede la nostra felicità interiore. Meditare e correre sono attività differenti, ma il miglioramento dell’umore dopo una corsa o dopo la meditazione è risultato molto simile, proprio grazie alla produzione di endorfine.
Le endorfine, note anche come “morfine endogene”, sono implicate nei meccanismi di controllo del piacere e del dolore: lo studio di queste molecole prodotte naturalmente dal cervello apre scenari stimolanti.
«Parlare di endorfine oggi è quanto mai attuale, dato che il benessere, il piacere, l’allontanamento del dolore costituiscono gli obiettivi che sempre di più sembrano condizionare la nostra qualità di vita» spiega il dottor Mauro Porta, neurologo presso l’Istituto Ortopedico Galeazzi IRCCS di Milano: «Le endorfine sono una sorta di “oppiaceo”, naturalmente prodotto, che comporta attenuazioni delle sensazioni dolore, “drive” positivo, cioè eccitamento, voglia di agire, buon umore».
Quando sono state scoperte le endorfine?
L’avventura inizia in un oscuro mattatoio sulle coste scozzesi, dove il ricercatore John Hughes, insieme al team della Unit for Research on Addictive Drugs del Marischal College dell’Università di Aberdeen, ogni giorno si procurava cervelli di maiale da analizzare.
Muove le ricerche il tentativo di individuare una sostanza simile alla morfina, alcaloide estratto dall’oppio che in medicina è sfruttato per le proprietà analgesiche. L’ipotesi era che l’azione della morfina imitasse sostanze che forse erano già presenti nell’organismo. Esisteva davvero un oppioide endogeno? Oggi sappiamo che è così.
Come funzionano le endorfine?
«Le endorfine vengono prodotte nell’ipofisi, nel surrene e a livello del sistema gastrointestinale, il nostro “secondo cervello“» chiarisce il dottor Mauro Porta «Si tratta di ormoni proteici che vengono rilasciati nel torrente sanguigno e che ritroviamo implicati nelle situazioni di benessere, di felicità, di gioia oppure in situazioni algogene (che procurano dolore) come il parto, il ciclo mestruale, gli eventi traumatici. Si ritrovano elevati livelli endorfinici anche dopo un rapporto sessuale o dopo l’attività sportiva».
«Le endorfine entrano nei meccanismi determinanti il ciclo sonno-veglia, la termoregolazione, l’appetito e comportano un aumento dei livelli ACTH, l’ormone adrenocorticotropo (Adreno Cortico Tropic Hormone – ACTH), conosciuto anche come corticotropina, è un ormone proteico prodotto dalle cellule dell’ipofisi anteriore (adenoipofisi), cortisone, prolattina, ormone della crescita e catecolamine, agendo così indirettamente su target diversi da quelli sinaptici. Molti sono i trattamenti, medici e non, che comportano liberazione di endorfine: non da ultime l’agopuntura e altre tecniche di rilassamento così come anche le esperienze sensoriali “piacevoli” come la musica o altre collegate alla vista e all’olfatto» prosegue l’esperto.
Fisiologicamente le molecole attive sui recettori peptidi oppiodi naturali sono le encefaline, le endorfine e le dinorfine. Per peptide oppioide si intende una sostanza sintetica o prodotta naturalmente dall’organismo con gli effetti dell’oppio e della morfina, suo costituente principale. Attualmente conosciamo tre tipi di recettori, tutti caratterizzati da un’azione di tipo analgesico. Il loro meccanismo di funzionamento è legato alla modificazione dell’elettrofisiologia del potassio e del calcio.
Verso una medicina endogena
Sapendo che la modalità di comunicazione fra cellule nervose avveniva tramite composti chimici, le prime indagini si erano focalizzate sui neurotrasmettitori che mostravano di attivare determinati siti cellulari di natura proteica, detti neurorecettori, fondamentali, quindi, per la modulazione e trasmissione degli impulsi nervosi.
Nel 1974 Hughes isolò dal cervello dei maiali le tracce di una sostanza con un’attività analgesica: sarà il primo passo verso la scoperta di un vero e proprio laboratorio di chimica endogena, presente nel nostro corpo e le cui implicazioni nel processo di cura sono un argomento su cui c’è ancora moltissimo da scoprire.
L’azione degli oppiacei endogeni che iniziazialmente Hughes riesce a isolare dura pochi minuti, per poi essere distrutta dagli enzimi cellulari, in accordo con la sua natura proteica. A differenza della morfina, essi non creano assuefazione poiché prodotti naturalmente dall’organismo. Attualmente le ricerche effettuate dalle industrie farmaceutiche per realizzare un farmaco utilizzando l’endorfina rimangono un’ipotesi in corso d’opera, tuttavia ciò che sappiamo è che questo gruppo di peptidi di catena corta chiamati “endorfine”, sono morfine endogene con proprietà simili alla morfina.
Esse agiscono come neurotrasmettitori a livello del sistema nervoso. Insieme all’azione analgesica rispetto al dolore, le endorfine giocano un ruolo chiave nella risposta al piacere e nel processo di rilassamento.
Dagli studi, infatti, emerge che a livello cerebrale le alterazione del sistema dopaminergico, proprio dei neuroni dopaminergici, i quali risultano associati con l’amigdala, potrebbero essere implicati con i disturbi della memoria e l’insorgenza di malattie come Parkinson e Alzheimer, tema indagato dal neurofisiologo Marcello D’Amelio insieme all’unità di ricerca dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e della Fondazione S. Lucia.
L’importanza delle endorfine nel controllo del dolore, così come nei processi legati alla gratificazione e al piacere, può costituire un campo di indagine prezioso per la gestione dello stress.
Qual è il ruolo delle endorfine?
Come spiega il dottor Mauro Porta «le endorfine, che sono oppioidi naturali, interagiscono con una dei mediatori maggiormente coinvolti nel determinismo del buon umore: la serotonina. Si tratta di veri e propri mediatori che sono molti di più di quelli che normalmente si pensa: serotonina appunto, dopamina, noradrenalina, gaba etc. I mediatori attivano certe sinapsi (punto di contatto tra due neuroni) appartenenti a circuiti specifici, oppure a circuiti “polivalenti”, cioè che funzionano con più neuromediatori».
Insieme all’aumento della soglia di tolleranza al dolore, le endorfine mostrano di essere coinvolte nell’attività di termoregolazione dell’organismo, ritmi sonno-veglia, controllo dell’appetito, regolazione dell’umore, senso di benessere e appagamento.
Durante terapie come l’agopuntura si è potuto osservare un innalzamento della concentrazione di queste sostanze nel sangue. Sì, perché a seconda di ciò che viviamo può verificarsi un rilascio di endorfine: succede quando svolgiamo attività in grado di regalarci piacere, ecco perché appaiono fortemente connesse alla sfera sessuale e psicologica.
Quando ci sentiamo innamorati, al termine di un rapporto sessuale o mentre incontriamo una persona cara o viviamo una situazione felice il livello di endorfine è più alto. Succede anche quando facciamo attività sportiva: la sintesi di oppiodi endogeni, infatti, mostra un forte incremento durante il movimento. Grazie a questo possiamo comprendere meglio la profonda sensazione di benessere e appagamento che ogni sportivo avverte durante una performance: un’euforia che a livello fisiologico ci aiuta a sopportare meglio la fatica e dal punto di vista psicologico stimola le nostre doti in fatto di resistenza, capacità di superare gli ostacoli e, in fondo, resilienza. Una qualità naturale che fa parte di noi? Forse sì, anche a livello biochimico.
CHI erano e che conoscenze possedevano questi Specialisti dell’Arte Edile, i Maestri Comacini?
La loro presenza è attestata fin dal tempo dei Longobardi (vengono menzionati in due Editti:di re ROTARI del 22/11/643 e in quello di re LIUTPRANDO del 713), per non dire che già al tempo dell’Imperatore Traiano, ne troviamo menzione. In una lettera di Plinio Cecilio indirizzata all’imperatore stesso, troviamo che viene lodato un ‘maestro comacino’ per la costruzione di una “Amenissima villa suburbana sul Lago di Como“. Potrebbero, quindi, originare addirittura dai Collegia Romani, avere un’eredità millenaria.
E’ importante capire se queste ‘maestranze’ possano aver “legato”insieme i culti precedenti al Cristianesimo, ne abbiano ereditato alcuni ‘modelli’spirituali oltre che iconografici (quello è abbastanza evidente!) la flora, la fauna, le spirali, le figure geometriche, e abbiano continuato nei secoli, adeguandosi ai nuovi committenti. Consideriamo che, tra i Romani, vi doveva essere un miscuglio di genti proveniente da vari distretti, oltre che italiani anche orientali e nordici, popoli che avevano una particolare venerazione per il serpente e per gli intrecci.
Roma aveva “Corporazioni” (i “Collegia Romani”) proprie, in cui l’arte antica si insegnava a porte chiuse, si propagava nella ‘schola’ e nel ‘Laborerium’. L’uso dei Collegia si estese a molti territori conquistati da Roma, tra cui c’è la zona di origine dei Maestri Comacini, che furono i depositari di quell’antica Arte, uniti da quel senso di solidarietà e fraternità che li farà giustamente appellare Maestri e Fratelli Comacini. Furono chiamati anche ‘Fabbri Muratori’ e sembra che questa associazione muratoria possa essere stata il prototipo e l’inizio dei cantieri degli scalpellini nel Medioevo e gli antenati dei Liberi Muratori della Loggia Massonica“.Naturalmente non vi sono documenti certi che lo attestino ma questa supposizione può essere da stimolo per ulteriori ricerche.Il fatto che si spostassero dove venissero richiesti, e per il fatto che siamo di fronte ad una corporazione che si tramandava di generazione in generazione l’Arte edificatoria nei secoli, aumenta la probabilità che fossero venuti a contatto con svariati stili e culti… Sotto la protezione dei Re Longobardi i Maestri Comacini divennero i custodi dell’arte edilizia romana.
Del resto, sappiamo che la corporazione dei Magistri Comacini fu attestata in Italia –dalle Alpi al centro-e Oltralpe in paesi come la Svezia, Dalmazia, Siria, Spagna, Russia…
Essi operarono in Europa seguendo costantemente o adeguandosi ai nuovi stili emergenti, sempre però portando con loro il proprio estro professionale che li rendeva inconfondibili. E, sicuramente, assistettero alla fusione delle forme Romaniche con quelle Gotiche, che contribuirono ad abbellire al passo coi tempi che mutavano, di generazione in generazione.
I Longobardi, provenendo dalla Pannonia, portavano con sé culti pagani orientaleggianti, e anche quando si convertirono , restarono sempre ‘barbari cristianizzati’ legati al culto ancestrale del serpente. E’noto, infatti, come nella loro arte favorirono intrecciamenti ed annodamenti, il ‘nodo longobardo‘ ed i Comacini dovettero sempre occuparsene, sia in senso pagano che in senso cristiano (il serpente tentatore nella “Genesi”,per esempio). Le cattedrali Romaniche e gotiche pullulano di colonne ritorte,spinate e di decorazioni a spirale, forme vegetali intrecciate, figure geometriche e simbolismi paganeggianti.
Quando i loro committenti divennero i funzionari del clero cristiano, l’Arte Comacina continuò a produrre in senso ‘cristiano’ o ‘pagano’? Non è dato sapere dalle fonti ufficiali. Liberamente essi percorrevano quella cristianità senza confini in cui fiorirono monasteri, basiliche, cattedrali…Nel XII-XIII secolo, continuarono ad essere ‘liberi muratori’ in ‘liberi mestieri’,anche quando i re feudali avevano assunto gli aderenti alle “professioni “in pianta stabile. In tale contesto, essi si posero sotto la tutela protettiva della Chiesa e degli Ordini Monastico-Cavallereschi che specialmente dopo il Mille dilagavano in Europa e oltre,attivissimi sulle vie dei pellegrinaggi. Inoltre godevano di permessi speciali per circolare liberamente in Europa, erano esentati dalle tasse e non avevano vincoli.Anche quando erano forse mal tollerati per questioni di fede, erano altamente apprezzati e- si può ritenere – insostituibili.
Essi si riunivano in umili ‘baracche’ attigue al cantiere (chiamate ‘logge’ e che sono spesso raffigurate nelle miniature medievali, appoggiate al muro del cantiere) e qui tagliapietre, scultori, scalpellini, si riunivano per ascoltare le parole del Maestro e le sue direttive, raccogliendo soprattutto quello che lasciava ‘trasparire’ ed è probabilmente qui che l’apprendista( il nuovo ‘operaio’) giurava di rispettare i segreti del mestiere, i suoi obblighi e le regole, apprendeva le parole e i segni per riconoscersi tra muratori, segni convenzionali e parole segrete che gli permettevano di farsi ‘riconoscere’ da una loggia all’altra durante i suoi viaggi di lavoratore ‘migrante’.Tutto questo, e il fatto che avessero degli Statuti divisi in Articoli (destinati ai Maestri) e in Punti (destinati agli allievi) ha fatto pensare che essi costituissero il ponte di passaggio tra la massoneria operativa e quella speculativa,che ne avrebbe ereditato la Tradizione spirituale e simbolica, portandola fino ai giorni nostri.
Il 24 giugno 1717,con un’Assemblea,veniva proclamata la Gran Loggia di Londra che segnava il declino dei costruttori,dei Maestri nomadi e il trionfo dei borghesi sedentari,dei nobili oziosi. La Massoneria, quella vecchia fratellanza di mestiere,diveniva ‘speculativa’ : non sarebbero più stati necessari gli strumenti autentici usati nelle polveri dei cantieri delle cattedrali ma piani astratti, strumenti simbolici e “con il solo cemento del pensiero, la squadra dell’anima, il compasso della mente, non intendevano più innalzare edifici, ma ‘costruire’un uomo nuovo, l’uomo ‘perfetto’. L’origine della Massoneria è un campo di indagine pluridirezionale. Dal punto di vista storico, è campo di ricerca, laddove per l’adepto,invece, è un terreno pieno di simbologie che per i profani sono poco comprensibili, addirittura bizzarre e confuse.
E’interessante notare che quando siamo in presenza di costruttori che portano la denominazione della città di provenienza(da Campione,da Bissone,da Arogno,ecc) siamo in presenza di Maestranze Comacine e di persone le quali non provenivano esclusivamente dalla sola città di Como o dall’Isola Comacina, oppure lavoranti ‘cum machinis’(con macchine,forse particolari,che non è escluso possedessero veramente),come molti vogliono genericamente definirli.Mi trovo concorde con quanto afferma il MERZARIO, nella sua opera sui Maestri Comacini del 1893 e cioè che queste abili famiglie di costruttori, scalpellini, lapicidi e cavapietre provenissero da un ampio territorio che si estende a Nord oltre Bellinzona, a sud fin quasi a Milano, a est fino al lago di Idro e ad ovest fino al lago d’Orta.Ciò non esclude affatto che lavorassero con ‘macchine’ o strumentazioni particolari, per l’epoca. Per ignoranza o superficialità, li ritroviamo frequentemente quali anonimi ‘artisti lombardi’(ove questo,a suo tempo, non sottacesse ad un significato spregiativo, tra l’altro).A volte furono denominati anche ‘casari’ o ‘tedeschi’.La confusione è stata per secoli trionfante…
Il Merzario aggiunge che l’applicazione dei precetti di Vitruvio, sebbene con talune caratteristiche innovazioni,fu sempre imitata dalla scuola Lombarda; i libri di Vitruvio erano andati perduti e furono ritrovati molto più tardi a Montecassino; i precetti venivano tramandati e insegnati oralmente e tradizionalmente da que’ Maestri.
Da un’intervista a Giorgio Armani su IL FATTO QUOTIDIANO
Milano, 23 febbraio 2020.
“Si parla di donne stuprate in un angolo. Le donne, oggi, sono regolarmente stuprate dagli stilisti, e mi ci metto anch’io. È indegno quello che succede” tuona Armani e si scaglia contro la pubblicità che mostra donne ipersexy:
“Penso a certi manifesti pubblicitari in cui si vedono donne provocanti, seminude: succede che molte si sentano obbligate a mostrarsi così. Questo, per me, è uno stupro. Scusate lo sfogo e le parole forti, ma sentivo di doverlo dire. Sono stufo di sentirmi chiedere le tendenze del momento. Le tendenze non sono niente, non ci devono essere: la cosa più importante è vestire le donne al meglio, evitando il ridicolo, non discutere di “cosa va di moda o no”. Piantiamola di essere succubi di questo sistema. Dovreste piantarla di parlare di tendenze che non ci sono, non devono esserci perché una giacca gonfia non aiuta ad essere snelle o sexy, ma solo a infagottarsi….”.
N.d.R.: Bravo Giorgio, che ci liberi dall’ossessione delle tendenze che “non sono niente”. Bisogna solo migliorare la donna che vive il suo tempo, e che, se ha un po’ di testa, sa come gestire questa possibilità.
Insomma, la donna dovrebbe avere soltanto a disposizione gli strumenti e i mezzi per sottolineare la propria persona e personalità, ed essere lei, in prima istanza, a scegliere quelli più adatti a se stessa. Sempre.
La moda passa, lo stile resta – come dice Coco Chanel.
Ogni donna si crei il suo stile. La vera creatività è essere autori del proprio stile.
Ho appena finito di guardare in TV la replica di una delle innumerevoli puntate della serie del Commissario Montalbano. L’avevo già vista, come tante altre; ma le rivedo volentieri perché mi piace ascoltare il dialetto Siciliano: trovo che, nelle sue coloriture, esprime, come pochi altri, il carattere della gente che lo parla.
Ma quello che mi interessa anche, è constatare la bravura del protagonista, Luca Zingaretti, fratello dell’attuale leader politico del Partito Democratico.
È certamente un validissimo attore ma, a parte le sue doti artistiche, quello che mi intriga, ogni volta che lo guardo, è la somiglianza della sua figura con quella di Benito Mussolini. Basterebbe aggiungervi l’espressione tronfia, l’atteggiamento borioso e la loquela drammatica e trionfalistica del “Duce” e sarebbe perfetto. Un regista, teatrale o cinematografico, lo arruolerebbe ad occhi chiusi: non esisterebbe, al mondo, un attore che, meglio di lui, potrebbe vestire i panni e dare il volto al Cavalier Benito.
E mi sono chiesto: se io fossi Zingaretti e mi fosse fatta la proposta di interpretare un tale personaggio, cosa farei? Accetterei o no?
Francamente non saprei risolvere il dilemma.
È talmente stridente la dicotomia fra la “persona” e il “personaggio” che io sarei in difficoltà a decidere. Non so lui.
Sappiamo tutti che un attore dovrebbe essere in grado di interpretare qualunque ruolo gli venga proposto, almeno dal punto di vista tecnico: stiamo parlando di “fiction”. Ma è vero anche che un personaggio bisogna “sentirlo”, in qualche modo, come simile a sé, per darne una valida interpretazione. La sola somiglianza fisica potrebbe essere necessaria ma non sufficiente.
Io non conosco le idee politiche di Luca Zingaretti, magari sono in linea con quelle del fratello; comunque, i tratti storici ed umani del “Duce” sarebbero anche in contrasto con il profilo del popolare Commissario, famoso in tutto il mondo. Penso che, proprio per opportunità e coerenza, potrebbe rifiutare.
E se, per pura ipotesi accademica, accettasse? Ci sarebbe una sollevazione popolare? O una interpellanza parlamentare?
Questo diventerebbe un caso, seppur in linea ipotetica, di vero e proprio OSSIMORO artistico.
Tutto sommato, alla fine di questa riflessione, per quanto fittizia e di “finzione”, io “mi sono fatto persuaso” che, se fossi in lui, rifiuterei.